LUBRANO, Giacomo
Nacque quasi certamente a Napoli nel 1619, forse il 12 settembre. Non sono noti i nomi dei genitori e nulla si sa della sua infanzia.
La prima notizia certa riguarda il suo ingresso nella Compagnia di Gesù, avvenuto il 30 apr. 1635 (priva di fondamento appare l'indicazione del 4 maggio 1639, anche se suffragata da documenti di archivio). Quasi sicuramente il L. seguì il percorso di studi previsto dalla Ratio studiorum, articolato in un quinquennio volto sostanzialmente a dare gli indispensabili fondamenti umanistici per l'attività predicatoria. Parallelamente, cominciò di certo a superare le varie fasi del noviziato, ma su tempi e modi di questo iter non si hanno notizie; l'unico dato pressoché certo è che si svolse interamente a Napoli.
Gli anni della formazione dovettero essere fruttuosi: il L. si avviò a una brillante carriera di oratore sacro, il cui inizio va collocato nel 1649, anno in cui risulta tra i principali predicatori della casa professa dei gesuiti di Napoli, nonostante non avesse ancora ricevuto gli ultimi voti per essere ammesso definitivamente nella Compagnia. Da subito si segnalò per l'erudizione e le capacità oratorie, tanto in italiano quanto in latino. Nel 1651 pubblicò a Napoli un'orazione funebre, Geminatus fortunae triumphus; due anni dopo vide la luce a L'Aquila Il tempio della memoria, un panegirico per don Diego de Quiroga y Faxardo, capitano dell'artiglieria del Regno di Napoli. Ma il primo testo a stampa del L. era uscito molto tempo prima: in Le egloghe simboliche di A. Grandi (Lecce 1642), infatti, si trova un suo Elogium dell'autore. A partire dall'inizio degli anni Cinquanta, inoltre, cominciò probabilmente a divulgare copie manoscritte dei suoi primi tentativi poetici in italiano.
Il 31 luglio 1653 fece la professione ed entrò a far parte ufficialmente della Compagnia di Gesù. Negli anni successivi, sempre impegnato nella predicazione, visse in varie città del Meridione: fonti archivistiche lo danno a Catanzaro nel 1655, a Reggio dal 1656 e a Massalubrense nel 1658. Risalgono con ogni probabilità agli anni calabresi alcune delle sue poesie destinate a divenire tra le più famose. Datata 12 ag. 1656 è una lettera stampata nello stesso anno a Messina come dedicatoria del Circolo tusculano di Raimondo del Pozzo (un trattato filosofico in cui veniva svolta tra l'altro una lettura in chiave cristiana del Timeo di Platone); si tratta di un testo importante per ricostruire le idee del L., il quale, nel solco della linea tracciata in quel periodo dai principali teologi gesuiti, prendeva le distanze dai moderni peripatetici - persi in dispute tanto sottili quanto inutili, divenuti ormai "magis philologi quam philosophi" - e faceva sua l'interpretazione di Platone come anticipatore di molti temi cristiani.
Dal 1660 si stabilì definitivamente nella casa professa di Napoli, da cui si allontanò solo per brevi periodi, sempre per viaggi legati al suo ruolo di predicatore. La sua fama si consolidò nel tempo, tanto che fu incaricato di recitare un'orazione funebre per il re di Spagna Filippo IV nel duomo di Palermo.
L'orazione, pronunciata il 12 febbr. 1666, fu pubblicata con il titolo L'anfiteatro della costanza vittoriosa all'interno del volume miscellaneo Le solennità lugubri e liete in nome della fedelissima Sicilia nella felice e primaia città di Palermo (Palermo 1666), curato da G. Matranga, che vi definiva "famoso dicitore [(] di pellegrina eloquenza" il Lubrano. Si trattava di una celebrazione particolarmente ricca e complessa, come d'altronde l'occasione richiedeva.
Negli anni successivi, comparvero a stampa alcuni suoi scritti latini: un epigramma e un elogio nelle Savie sciocchezze tradotte da L. D'Anna (Lecce 1669), e due odi, una nelle Prediche di P. Carrafa (Venezia 1673) e una nella Notizia de' vocaboli ecclesiastici di D. Magri (ibid. 1675). L'attività oratoria del L. si fece frenetica, e tale rimase per molti anni: si hanno notizie di decine di suoi cicli di prediche, in particolare di quaresimali, tenuti in molte città d'Italia, soprattutto del Meridione. La sua reputazione doveva essere notevole anche a Venezia, dove predicò il quaresimale nel 1675. In quell'occasione conobbe lo scrittore Cristoforo Ivanovich, con il quale dette vita a un carteggio non intenso ma protratto nel tempo.
Si tratta di quattordici lettere che l'Ivanovich pubblicò, con le proprie risposte, all'interno del suo epistolario (Minerva al tavolino, Venezia 1681). Il carteggio, che copre con frequenza irregolare un periodo di quasi sei anni (dall'agosto 1675 al marzo 1681), è prezioso per ricostruire alcune vicende della vita del L., del quale non sono note altre lettere.
Segno della stima provata per il L. da molti letterati veneziani sono due raccolte miscellanee di componimenti in suo onore, uscite nel 1675 (rimane traccia solo della Seconda corona intrecciata da varij letterati co' fiori de' loro ingegni). Ma nello stesso periodo cominciarono a manifestarsi - soprattutto a Napoli ma anche a Venezia - segnali di dissenso verso lo stile oratorio del L., caratterizzato dalla concettosità tipica della predicazione barocca, in cui la ricerca di soluzioni espressive preziose e argute poteva dar luogo ad artifici retorici anche più arditi di quelli riscontrabili nella poesia coeva.
In particolare, circolavano scritti satirici in cui tale stile era parodiato (tra di essi un sonetto il cui attacco suonava significativamente "Nuovo idioma, iperbole volante"); in una lettera all'Ivanovich dell'agosto 1675, il L. dichiarava di volere mutare stile, ma già pochi giorni dopo rivendicava l'importanza delle "acutezze di concetti" per una predicazione che voglia colpire efficacemente l'attenzione dell'uditorio. Le polemiche si fecero particolarmente vive nel 1678, con l'arrivo a Napoli di F.M. Casini, predicatore toscano la cui oratoria si inseriva con nettezza nella reazione antibarocca che in quegli anni si stava diffondendo negli ambienti culturali di molte zone d'Italia: furono numerose le composizioni satiriche che esaltavano la figura del Casini in opposizione ai predicatori che operavano da tempo a Napoli.
Le polemiche non impedirono comunque al L. di essere ancora molto ricercato come oratore. Nessuna difficoltà gli derivò dalla decisa campagna, condotta nel 1680 da papa Innocenzo XI, contro gli eccessi della predicazione, accusata di prestare attenzione più alla forma che alla sostanza; segno che il suo stile oratorio non era giudicato sospetto dalle gerarchie ecclesiastiche.
Nel 1679, mentre predicava a Palermo, fu colpito da una forma di paralisi alla lingua da cui non guarì mai, e che gli rese estremamente difficoltosa la parola; nonostante ciò continuò, almeno saltuariamente a predicare. Le sue condizioni di salute peggiorarono col tempo, e nei suoi ultimi anni, su cui le testimonianze certe sono scarsissime, dovette vivere in modo appartato.
Il rispetto di cui godeva negli ambienti culturali napoletani è testimoniato da un passo dell'Autobiografia di G.B. Vico, che rievoca un incontro, avvenuto forse nel 1686, con il L. - definito "gesuita d'infinita erudizione e credito a que' tempi nell'eloquenza sacra" - al cui giudizio aveva sottoposto una sua canzone.
Il L. morì a Napoli, nel collegio di S. Giuseppe a Chiaia, nel 1693, probabilmente nel mese di ottobre.
Subito dopo essere stato colpito dal male, il L. aveva cominciato a raccogliere e rivedere le sue opere in vista di un'edizione complessiva; negli ultimi anni riuscì a concretizzare solo parzialmente il progetto, pubblicando in rapida sequenza alcuni volumi, tutti stampati a Napoli. Nel 1690 uscirono i Suaviludia musarum ad Sebethi ripam, dieci libri di epigrammi scritti in un latino ricco di rarità lessicali e aperto a coniazioni d'autore.
Scopo dichiarato dell'opera era la condanna netta della degenerazione dei costumi, ciò che comportava come conseguenza il rifiuto dei modelli classici più noti, da Catullo a Marziale, e in generale dell'intera tradizione della poesia comica, le cui oscenità sono indicate come opera ispirata dal diavolo; il L. si rifà piuttosto agli epigrammisti gesuiti contemporanei.
Nello stesso anno videro la luce anche le Scintille poetiche o poesie sacre e morali, stampate con lo pseudonimo anagrammatico di Paolo Brinacio. Si tratta di una raccolta divisa in tre libri del grosso della produzione poetica in italiano del L. (sonetti, odi e composizioni per musica), presentata come frutto di svaghi letterari, condotti però tenendo sempre ben presenti le istanze religiose. Nell'avviso a chi legge, firmato S. Di Fusco ma scritto certamente dal L., si dice che l'autore "per alleggiar le fatiche degli studii più serii, si è diportato sovente in Parnasso, senza però perder di mira il Calvario", e si rivendica la possibilità di "scriver poetico e non lascivo".
Nonostante esprima una netta condanna degli eccessi della poesia marinista, il L. delle Scintille si inserisce a pieno titolo in quel filone, di cui estremizza molti aspetti, riuscendo nel compito non facile di dare un'interpretazione molto originale di uno stile ormai giunto al tramonto. Supportato da un'inventività linguistica straordinaria (grazie alla quale conia un grandissimo numero di neologismi), mette in atto un'accorta strategia retorica, avvalendosi di figure già molto sfruttate nella poesia barocca, ma ampliandone le modalità d'impiego (basti pensare agli esiti parossistici raggiunti nella metaforizzazione del reale, come si vede chiaramente a esempio in uno dei sonetti più noti, quello sui cedri fantastici). Il tutto diviene strumento per esprimere una percezione allucinata della caducità di ogni elemento del creato, particolarmente evidente nelle poesie che prendono a tema le calamità naturali, ma presente un po' in ogni zona della raccolta.
Tra il 1691 e il 1693 uscì infine Il cielo domenicano col primo mobile della predicazione( (Napoli 1691-93) che riuniva in due tomi molti panegirici sacri, disposti secondo un ordine studiato, che dava vita a una sorta di gradatio, nell'intento di "tracciare un'ascesi, insieme figurale e mistica" (Ossola, p. 82).
Altri importanti volumi uscirono postumi nel decennio successivo alla morte: le raccolte di panegirici Il fuoco sacro della divinità racceso negl'altari del clero mitrato e religioso (Napoli 1694) e Il solstizio della Gloria divina (Venezia 1703; un'edizione napoletana del 1692 [Sensi, La retorica dell'apoteosi, p. 151], è segnalata nel catalogo della Biblioteca dei gesuiti di Napoli, ma non se ne hanno altre tracce) e delle Prediche quaresimali postume (Napoli 1702; un'edizione notevolmente accresciuta uscì l'anno successivo a Padova). Risulta inoltre che furono stampati cinque volumi ("decadi", secondo i frontespizi) di una Raccolta di varii sagri discorsi, curata da T. Reviglione; i primi due uscirono a Napoli nel 1727, mentre dei tre rimanenti non si sa più nulla.
Dall'intera produzione oratoria emerge costantemente la difesa dell'ordine costituito (in qualsiasi luogo si trovò a predicare, il L. sentì il dovere di omaggiare il potere locale) e una visione religiosa rigidamente controriformista, che si manifesta, per esempio, nelle frequenti durissime invettive contro gli eretici. Molto severo è anche l'atteggiamento verso alcuni aspetti della Chiesa, accusata a più riprese di lasciare spazio alla corruzione e al lusso, e di non esercitare con sufficiente forza un'autorità politica; assai aspra è inoltre la polemica contro certe forme esteriori di religiosità, sentite come pericolosamente devianti dalla vera fede. Il L. appoggiava le sue argomentazioni a una fittissima trama di citazioni da varie auctoritates classiche, tra cui particolarmente importanti appaiono Seneca e Agostino. Dal punto di vista formale va notata la grande ricchezza delle soluzioni retoriche (particolarmente sfruttata è la figura dell'antitesi), ben in linea con la tradizione della predicazione barocca.
La figura del L. cadde rapidamente nell'oblio, e vi rimase per circa due secoli. Dopo la riscoperta ad opera di B. Croce, che pur dando un giudizio severo della sua opera poetica ne parlò in più occasioni e ne accolse alcuni testi nella fondamentale raccolta dei Lirici marinisti (Bari 1910), si registrarono negli anni Cinquanta le aperte rivalutazioni di due importanti studiosi, J. Rousset e G.R. Hocke. Negli ultimi decenni l'interesse per il L. ha conosciuto un incremento notevole, tanto da farne attualmente uno degli scrittori barocchi italiani più studiati.
Opere. Le Scintille poetiche hanno avuto due edizioni, entrambe curate da M. Pieri. La prima (Ravenna 1982), corredata da un'importante introduzione, in realtà non è integrale, dato che del secondo libro si stampa una scelta e del terzo solo un madrigale; la lacuna è colmata dalla successiva (Trento 2002), in cui il curatore ha riprodotto - con una scelta non del tutto persuasiva e peraltro non chiaramente motivata - la terza edizione delle Scintille, e non la princeps come aveva fatto precedentemente (in appendice si dà inoltre il testo della Mutevolezza eloquente, una delle Prediche quaresimali, e una scelta dai Suaviludia); al volume - in cui trovano luogo saggi del curatore e di L. Salvarani - è unito un cd-rom contenente la riproduzione delle Prediche. Un'antologia delle Scintille, molto importante dal punto di vista critico, è stata curata da G. Alfano e G. Frasca (In tante trasparenze, Napoli 2002): vi si raccolgono e commentano 60 sonetti, accompagnati da due saggi dei curatori. Da ricordare anche altre scelte dalle Scintille: Moralità tratte dalla Considerazione del verme setaiuolo, a cura di C. Ortesta, Milano 1980; Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano, a cura di G. Alfano et al., Napoli 2000 (le poesie del L. alle pp. 83-88, 119-123, 143-156). In Sensi, Arcimondo, pp. 155-240, si raccolgono poesie italiane inedite.
Fonti e Bibl.: F. Croce, Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze 1966, pp. 268-322 e passim; P.E. Pieretti, Testi inediti di G. L., in Studi secenteschi, X (1969), pp. 289-300 (notizie sulla vita e le opere); C. Sensi, G. L.: contributi per una biografia, in Italianistica, V (1976), pp. 238-259 (notizie sulla vita e le opere, con indicazioni sul materiale archivistico e sulla bibliografia pregressa); C. Ortesta, G. L.: il tempo del verme, in Paragone Letteratura, XXVIII (1977), 326, pp. 18-27; C. Ossola, Apoteosi ed ossimoro. Retorica della "traslazione" e retorica dell'unione nel viaggio mistico a Dio: testi italiani dei secoli XVI-XVII, in Riv. di storia e letteratura religiosa, XIII (1977), pp. 82-88; C. Sensi, Cultura barocca tra consenso e polemica. Gli epigrammi latini di G. L., in Esperienze letterarie, III (1978), 2, pp. 31-54; Id., L'arcimondo della parola. Saggi su G. L., Padova 1983; Id., La retorica dell'apoteosi. Arte e artificio nei panegirici del L., in Studi secenteschi, XXIV (1983), pp. 69-152; Id., La tralucenza dell'antico: la classicità in L., Parma 1984; A. Duranti, Da un dizionario seicentesco: L., Accetto, Pallavicino, in Paragone Letteratura, XXXV (1984), 414, pp. 11-19; G. Frasca, Il paesaggio del mondo dipinto nella polvere, in Il Piccolo Hans, XXI (1994), pp. 9-39; V. Bonito, Le pieghe del verme. La scrittura anfibia di G. L., in Critica letteraria, XXIII (1995), pp. 153-163; D. Kelly, The apex of the poetics confidence and orthodoxy: heroes of the Church in the odes and sonnets of G. L., in Altro Polo, XI (1996), pp. 125-143; M. Guglielminetti, G. L. poète baroque, in XVIIe Siècle, XLIX (1997), pp. 715-725; B. Croce, Poesia latina nel Seicento, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Napoli 2003, ad ind.; A. Ruffino, Nebbie edificate in mondi. Note su Iacopo L., in Critica letteraria, XXXI (2003), pp. 359-366; V. Guercio, A proposito di recenti edizioni lubraniane, in Testo, XXIV (2003), pp. 95-114; C. Pineau, "Per le rivolture popolari di Napoli nell'anno 1647": les émeutes napolitaines de 1647-1648 dans une ode de G. L., in L'actualité et sa mise en écriture dans l'Italie des XVe-XVIIe siècles. Actes du Colloque international( 2002, a cura di D. Boillet - C. Lucas, Paris 2005, pp. 262-273.