LOREDAN, Giacomo
Primogenito del procuratore Pietro di Alvise e di Campagnola Lando di Vitale di Pietro, nacque a Venezia nella prima metà del 1396 e, come il padre, si sposò per tempo, contrariamente alla prassi allora in uso presso i concittadini: nel 1419 prese in moglie Beatrice Marcello di Francesco, da cui ebbe diversi figli.
In gioventù si dedicò probabilmente alla mercatura (il 2 marzo 1430 fu nominato patrono delle galere di Fiandra e nel 1443 suo figlio Luca era a Damasco) ma senza troppo successo, visto che tutte le fonti concordano nel sottolinearne la perdurante povertà. Ben presto, pertanto, affiancò, o forse addirittura sostituì, l'attività privata con quella pubblica e il 2 febbr. 1432 gli venne affidato il comando di una galera nell'armata guidata da suo padre contro i Genovesi nel Tirreno; qualche mese dopo (16 dicembre) fu eletto sopracomito in Golfo.
Per i cinque anni che seguirono non abbiamo notizie sul L., ma è probabile che abbia continuato a servire nella flotta; il 26 nov. 1437 accompagnò il padre in una delicata missione presso Gianfrancesco Gonzaga marchese di Mantova, nel tentativo di impedirne il passaggio nel campo avversario. C'era la guerra, infatti, tra Venezia e Milano e gli eventi non volgevano a favore della Serenissima, le cui forze erano duramente impegnate nel Bresciano; il 3 apr. 1438 il L. mancò l'elezione a vicecapitano in Golfo, ma l'11 luglio fu nominato provveditore delle trenta barche armate che dovevano operare sull'Adige, mentre suo padre assumeva il comando dell'armata sul Po. Di lì a poco, tuttavia, il 28 ottobre, Pietro morì; il 26 ottobre anche il L. aveva ottenuto il rimpatrio, con ogni probabilità per stargli accanto nei suoi ultimi giorni e provvedere alla sepoltura.
L'iscrizione funebre indica esplicitamente l'avvelenamento quale causa della morte di Pietro Loredan e molti autori individuano il mandante nel doge Francesco Foscari, di cui era nota l'inimicizia con lo scomparso procuratore; è difficile pensarlo, tuttavia questa eventualità contribuirebbe a spiegare come gesto di sdegno contro la Signoria il rifiuto opposto dal L. il 18 dicembre ad assumere il comando della grossa nave del Comune che si stava allestendo.
L'anno dopo, peraltro, il L. riprendeva servizio nella flotta; nel maggio 1439 condusse in Palestina l'imperatore Federico III e il 20 agosto ottenne il comando della "muda" di Fiandra; il lungo viaggio, che toccò anche Southampton, si concluse il 21 luglio 1440. Nell'ottobre 1440 il L. subentrò come capitano di Brescia al cognato Francesco Barbaro, che aveva animato la difesa della città nel corso del memorabile assedio sostenuto contro le truppe viscontee. Vi si trattenne a lungo, sino alla primavera del 1442, dopo di che fu consigliere per il sestiere di S. Marco e il 1° ottobre entrò a far parte del Consiglio dei dieci per un anno; il 29 ottobre, inoltre, fu nominato provveditore all'allestimento di cinquanta nuove galere. Nell'ottobre 1443, come si è detto, suo figlio Luca si trovava in Siria a esercitare la mercatura, sicché è probabile che anche il L. fosse coinvolto in tale attività; questo spiegherebbe l'assenza del suo nome dalla politica sino al 23 giugno 1446, quando venne eletto capitano in Golfo in luogo di Lorenzo Minio. Si trattava di mantenere Ancona nell'alleanza con Venezia e di sostenere le ragioni di Francesco Sforza su Pesaro, taglieggiando nel contempo i commerci di Fano e Rimini, allora sotto il dominio di Sigismondo Malatesta. Il L. trascorse tutta l'estate scorrendo il litorale adriatico, poi, il 1° ottobre, entrò nuovamente a far parte del Consiglio dei dieci e in tale veste il 31 maggio 1447 fu incaricato di istruire il processo contro Andrea Donà, genero del doge, accusato di tradimento, proprio come lo era stato, due anni prima, Jacopo Foscari.
Tra l'autunno 1447 e l'autunno 1448 fu podestà a Padova, una città difficile, al centro di appetiti economici da parte dei governanti veneziani, ma anche di risorgenti trame filocarraresi; il 10 dic. 1448 venne eletto provveditore in campo nelle operazioni volte alla riconquista di Crema; il 19 gli furono date le commissioni e si portò a Orzinuovi, presso le truppe comandate da Sigismondo Malatesta, recuperato alla Serenissima. In un inverno particolarmente rigido il L. dovette provvedere ad assicurare alle truppe i necessari approvvigionamenti e i mezzi per sostenere l'assedio ("Per la invernata granda fu bisogno guastar tutte le ville circostante a Crema", cit. da Soldo, p. 92), che tuttavia risultò inconcludente. Il L. si trattenne in Lombardia sino agli inizi di luglio 1449, alla vigilia della pace, che fu stipulata nel successivo settembre.
L'8 luglio 1449 il L. era a Venezia, dove assunse il saviato del Consiglio sino al 30 settembre, allorché divenne consigliere ducale per il sestiere di S. Marco; il 24 ottobre risultava eletto provveditore a Crema, che il trattato di pace aveva assegnato a Venezia, ma rifiutò. Accettò invece, il 6 genn. 1450, di andare con Tommaso Duodo, entrambi con il doppio titolo di ambasciatore e provveditore in campo, presso il capitano generale delle milizie venete Sigismondo Malatesta, ove già operava Andrea Dandolo, col compito di rifornire Brescia dal Veronese e di portare a termine la difficile trattativa con Francesco Sforza, che mirava a insignorirsi di Milano, come di fatto sarebbe avvenuto di lì a poco. Nel frenetico evolversi degli eventi si intrecciavano gli intrighi e le ambizioni dei condottieri: si spiega così il rimprovero rivolto dal Senato al L. e al Duodo, il 29 gennaio, per non essersi sufficientemente contenuti con Bartolomeo Colleoni ("favores sibi dandi non erant dilatanti, respectu periculi": Arch. di Stato di Venezia, Senato, Delib., Secreta, reg. 18, c. 159r), nonostante le precedenti istruzioni di osservare ogni possibile risparmio. Il 23 marzo 1450 il L. era a Bergamo insieme con Andrea Dandolo, ma ormai la partita era risolta a favore dello Sforza e il 2 luglio si venne alla pace. Due giorni dopo il L. risulta essere savio del Consiglio, ma di lì a poco fu eletto luogotenente nella Patria del Friuli, dove si fermò fino al settembre 1451, poi (1° ottobre) entrò a far parte del Consiglio dei dieci. Il succedersi degli incarichi proseguì intensamente; il 20 maggio 1452 rifiutò la nomina a provveditore nel Veronese; tre giorni dopo figurava tra i savi del Consiglio pur facendo parte contemporaneamente dei Dieci: il 1° luglio, infatti, il Maggior Consiglio lo sostituì in questa seconda magistratura, avendo il L. accettato la nomina (19 giugno) di provveditore a Brescia, insieme con Antonio Diedo. Era ripresa, infatti, la guerra con Milano e i contrapposti eserciti si fronteggiavano nel Bresciano, saccheggiando i villaggi e devastando i raccolti; mentre Diedo rimaneva in città, il L. si portò al campo per tenere i contatti col comandante delle truppe venete, Gentile da Leonessa. Pur inclinando a favore dei Veneziani, il conflitto si protrasse ancora a lungo, ma intanto nel Levante Costantinopoli stava per cadere in mano ai Turchi. Il 7 febbr. 1453 la Signoria eleggeva pertanto Girolamo Barbarigo come provveditore in luogo del L., che il successivo 2 marzo fu nominato capitano generale da Mar, la stessa carica che suo padre aveva tante volte ricoperto con onore.
Soltanto il 7 maggio, però, gli furono consegnate istruzioni ispirate alla maggior prudenza; in sostanza la Signoria inviava Bartolomeo Marcello quale mediatore di pace, sperando in un accordo; ma il L. non fece in tempo a giungere a Costantinopoli: la notizia della caduta lo raggiunse a Negroponte. A questo punto, mentre il Senato trattava con Maometto II, fu ordinato al L. di procedere alla conquista di alcune isole e di danneggiare gli insediamenti ottomani negli Stretti; la squadra veneziana incrociò nell'Egeo per tutto il 1454, poi riparò a Modone, mentre il L. rimpatriava per prendere posto tra i savi del Consiglio: il mandato avrebbe dovuto coprire il primo semestre del 1455, invece si prolungò ben oltre.
Il 30 apr. 1455 fu eletto nell'ambasceria "di obbedienza", che si svolse in giugno, al nuovo papa Callisto III, insieme con Ludovico Foscarini, Triadano Gritti e Pasquale Malipiero; poi, il 1° ottobre, entrò a far parte del Consiglio dei dieci, pur continuando a sedere tra i savi del Consiglio.
Incaricato della revisione delle Camere fiscali il 17 apr. 1456, e poi, il 1° giugno, di accogliere il cardinale Isidoro di Kiev, nello stesso mese di giugno fu capo del Consiglio dei dieci, quando ancora una volta il magistrato procedette contro Jacopo Foscari, decretandone la relegazione perpetua alla Canea, nell'isola di Creta. I nomi dei Foscari e dei Loredan dovevano restare legati nell'immaginario popolare a una sorta di faida generazionale, in parte documentata, in parte dovuta a certe forzature storiografiche; e tuttavia è innegabile come, nei momenti cruciali che segnarono l'esistenza di Francesco e Jacopo Foscari, sia stato sempre presente un Loredan.
Savio del Consiglio tra marzo e settembre del 1457, in ottobre il L. entrò ancora una volta nel Consiglio dei dieci e fu proprio lui come capo del mese, il 19 ottobre, a imporre al doge l'abdicazione.
Negli anni che seguirono il L. sedette quasi ininterrottamente fra i savi del Consiglio (lo fu per 22 volte, a detta di Priuli); da rilevare il suo rifiuto (11 sett. 1458) di far parte dell'ambasceria al nuovo papa Pio II (e a questo proposito non si può non rammentare che Enea Silvio Piccolomini era stato in ottimi rapporti col doge Foscari). Nominato podestà a Padova nel dicembre 1460, il L. vi si trattenne sino alla primavera del 1462; fu poi savio del Consiglio per tutto l'anno seguente e fino all'agosto del 1464, poi, benché sessantottenne, fu nominato per la seconda volta capitano generale da Mar.
Eletto sin dal 7 aprile, ebbe le commissioni il 4 settembre, quando già si trovava in Levante; la guerra contro i Turchi, in Morea, dopo uno sfolgorante inizio volgeva male per i Veneziani; compito del L. era di risollevare il morale delle truppe e di fiaccare, nel contempo, quello degli avversari, effettuando razzie e incursioni negli Stretti, che riuscì a bloccare con le sue quarantadue galere; dopo aver svernato a Candia, nel maggio 1465 il L. si riportò nei Dardanelli, ma di fatto queste manovre risultarono inconcludenti, per cui il L. s'indusse a chiedere il rimpatrio che gli fu accordato il 13 settembre a motivo delle precarie condizioni di salute; fu sostituito a Negroponte da Vettore Cappello, il 9 febbr. 1466.
Savio del Consiglio dall'agosto 1466 al marzo 1467, il 15 aprile dello stesso 1467 fu eletto per la terza volta capitano generale da Mar contro l'"insolentissimus hostis" ottomano; stavolta però non si trattava di conquistare la Morea, ma di difendere Negroponte: le sorti del conflitto ormai volgevano decisamente a favore dei Turchi.
Il L. partì subito e rimase in Levante per un anno e mezzo, a organizzare colpi di mano, realizzare effimere conquiste, compiere razzie e combattere i pirati, senza che mai si giungesse a uno scontro decisivo con la flotta nemica; tornato a Venezia il 17 nov. 1468 per disarmare parte della squadra, con sorprendente decisione non gli fu rinnovato il comando, che venne invece affidato all'inetto Nicolò Canal.
Sin dal 6 sett. 1467 il L. era stato eletto procuratore di S. Marco de citra; riprese a far parte dei savi del Consiglio, carica che ricoprì dall'inizio del 1469 sino alla morte, rifiutando però ogni altro incarico, come quello di provveditore in campo contro il duca di Milano (11 ag. 1469) e di ambasciatore "di obbedienza" a papa Sisto IV (22 ag. 1471).
Morì a Venezia il 3 nov. 1471 e fu sepolto accanto al padre, nel monastero di S. Elena; per i molti meriti verso la patria, il suo ritratto fu collocato nella sala del Maggior Consiglio, ove rimase sino all'incendio del 1577. A detta di Priuli era "bello di corpo e molto gagliardo […], prudente, giusto et liberale" (c. 149v); quest'ultima virtù parrebbe tuttavia contrastare con la notoria povertà del L., che il 17 giugno 1469 aveva chiesto, e ottenuto, di poter cumulare gli arretrati dello stipendio di capitano generale con gli emolumenti - per la verità assai modesti - legati alla dignità procuratoria.
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