LOMELLINI, Giacomo
La compresenza nelle ascrizioni alla nobiltà di Genova di due omonimi con lo stesso patronimico (di Agostino) rende problematica la corretta individuazione: riferimenti reciproci, ancorché di opposta valutazione sulle qualità del personaggio, consentono di riconoscere nel L. sia l'"inadeguato" asentista che perse Tabarca nel 1741 sia il coraggioso e "illuminato" protagonista delle giornate della sollevazione popolare antiaustriaca di Genova nel dicembre 1746.
Dei due omonimi, il primo, Giacomo Maria Lorenzo, di Agostino fu Giacomo, fu battezzato il 17 ag. 1682 nella chiesa delle Vigne e ascritto alla nobiltà il 27 giugno 1684; il secondo, figlio di Agostino Maria fu Giacomo e di Bianca Lomellini fu Stefano, nacque il 23 genn. 1705 e fu ascritto alla nobiltà il 31 genn. 1723 insieme con il fratello Stefano Gregorio, che era nato il 17 nov. 1708.
Il problema dell'identificazione si pone, poiché un Giacomo fu Agostino risulta essere stato a capo del gruppo dei Lomellini che nel 1718 rassegnò al re di Spagna Filippo V il mandato su Tabarca e, poco dopo, il 7 maggio 1719, subaffittò la "fattoria" di Tabarca a un'altra società genovese, costituita da Giacomo Filippo Durazzo e Giovanni Battista Cambiaso. Nella stessa persona si può identificare quel L. che, il 29 giugno 1729, per fine contratto subentrò alla ricordata società come unico responsabile dell'azienda di Tabarca fino alla caduta dell'isola, nel 1741, nelle mani del bey di Tunisi. Lo stesso riceverà nel 1756 l'offerta di reintegrazione da parte del nuovo bey di Tunisi.
A questo punto si può ragionevolmente ipotizzare che il Giacomo Lomellini del 1718-19 e quello del 1729 siano diversi: il primo coincidendo con quello nato nel 1682 e il secondo (poi protagonista delle "giornate di Genova" del 1746, e oggetto di questa biografia) con il L. nato nel 1705. L'uno e l'altro sono collegati alla storia di Tabarca e all'insediamento dei Genovesi, e in particolare della nobile famiglia Lomellini, nell'isola posta davanti a Tunisi e tradizionalmente ritenuta importante fonte economica per la pesca e per la lavorazione del corallo. Studi recenti - anche con la pubblicazione di fonti inedite e la segnalazione di abbondanti materiali sparsi in biblioteche e archivi in particolare spagnoli e francesi, ma anche tunisini, algerini e turchi (cfr. le segnalazioni bibliografiche in Bitossi, 1997) - hanno aperto scenari molto più ampi attorno all'impresa mercantile dei Lomellini, dei quali, tuttavia, manca proprio l'archivio del ramo che gestì "l'impresa del corallo". L'asiento con cui la Spagna aveva consentito ai Lomellini e soci l'appalto del corallo - che la tradizione giustificava come compenso del bey di Tunisi per la liberazione del leggendario corsaro Dragut - risaliva a metà Cinquecento, e certamente costituì la base della fortuna economica di questo ramo della famiglia di "nobiltà vecchia", con importanti ricadute anche sul territorio metropolitano: tanto più che gli utili ricavabili da Tabarca non riguardavano solo il corallo, ma l'olio, l'orzo e soprattutto il grano. Tuttavia, all'inizio del Settecento, lamentando le continue insidie francesi e la gestione troppo costosa, i Lomellini asentisti (il gruppo era allora costituito da Giacomo Lomellini fu Agostino - il primo dei due sopra indicati -, Giacomo fu Filippo, Carlo fu Stefano, Stefano fu Giovan Francesco, Giuseppe fu Carlo, e un Francesco M. Balbi) si rivolsero al re di Spagna per rescindere il contratto e restituirgli l'isola. Di fronte al silenzio della corte spagnola si decise, come già detto, con polizza privata del 7 maggio 1719 per un subappalto a G.F. Durazzo e a G.B. Cambiaso, della durata di dieci anni rinnovabile per altri cinque, con onere di manutenzione e paghe del presidio militare. Rivelatosi svantaggioso, il subappalto non fu rinnovato e, con atto del 29 giugno 1729, subentrò il L., che sarebbe stato l'ultimo della famiglia a tenere la "fattoria" di Tabarca.
La sua gestione è stata giudicata incompetente e negligente ma forse, soprattutto nei primi anni, fu segnata anche da oggettive complicazioni. Prima fra tutte un'annosa controversia giudiziaria con Durazzo e Cambiaso, che di loro iniziativa avevano preso in affitto anche la località di Capo Rosso, accordandosi direttamente con il re di Spagna e il bey di Algeri sulla base di una contribuzione annua rispettivamente di 1000 e di 300 lire. La circostanza era stata taciuta al L. al momento del contratto e gli fu comunicata solo il successivo 20 dicembre, alla scadenza del pagamento, dal governatore dell'isola nominato dai subaffittuari, Nicola Speroni. Il L. sollevò Speroni dall'incarico e lo sostituì con Giovanni Antonio Giano, inviato nell'isola con l'ordine di non riconoscere alcuna spesa riguardante Capo Rosso. Ma le intimazioni del bey, che in data 2 luglio 1730 reclamava il pattuito, indifferente al cambio di affittuari (mentre sull'intera zona si stavano appuntando anche gli interessi della francese Compagnie d'Afrique), costrinsero il L. a dare a Giano l'ordine di pagare. E invano si rivolse al Senato di Genova, da cui riuscì a ottenere solo il sequestro di ciò che nell'isola era rimasto di pertinenza degli affittuari. Al di là delle autogiustificazioni di circostanza, sembra sincero il tono della lettera con cui il L. da Genova, il 5 ag. 1738 (Bitossi, 1997, p. 234), descrive al segretario di Stato spagnolo, don Sebastian de la Quadra, le sue preoccupazioni sulla "infelicissima isola" destinata a cadere sotto il "barbaro africano", e il rammarico perché le sue "forze esauste da tante gravissime spese" non gli consentono di difendere "la forte rocca da me abbandonata". È vero che nella stessa lettera, lamentando il persistente silenzio del re di fronte alle sue richieste di aiuto, il L. insinua la possibilità di trasferire l'isola sotto la "protezione" offerta da altra potenza (cioè la Francia), protezione che "sarebbe di maggior vantaggio per me e per l'isola". E in effetti sarebbero state proprio alcune lettere sequestrate dal bey a bordo di una nave francese, nelle quali si trattava della possibile cessione dell'isola da parte del L. alla Compagnie d'Afrique, a giustificare l'attacco di Alì pascià il 20 giugno 1741.
L'isola di Tabarca fu presa e 900 tabarchini furono catturati e condotti schiavi a Tunisi (dove sarebbero rimasti per quasi dieci anni, fino al riscatto operato dal capitano marittimo genovese Giovanni Porcile per conto del re di Sardegna Carlo Emanuele III).
Tre o quattro anni prima, circa 500 tabarchini avevano lasciato la loro isola e si erano trasferiti in quella di San Pietro in Sardegna, che era stata allora concessa da Carlo Emanuele III in feudo al marchese della Guardia, don Bernardino Genoves, con il patto che la popolasse. L'iniziativa, nata da un progetto del 1736 di Agostino Tagliafico e dalla mediazione di Giacomo Rombi per impiegare gli esperti coralliferi tabarchini in una nuova residenza sicura, aveva avuto a Genova l'approvazione ufficiale del L., che a Rombi forse fornì anche i dati dei vecchi contratti Lomellini. Rombi, infatti, inviò all'intendente generale di Sardegna, che lo trasmise il 29 sett. 1738 al governo di Torino, un "Progetto per l'acquisto dell'isola di Tabarca" con descrizione dell'isola, del contratto Lomellini e con dettagliato calcolo degli utili ricavabili, compreso il possibile recupero del credito di 300.000 scudi d'oro che i Lomellini vantavano nei confronti della Corona spagnola per le spese militari sostenute a difesa dell'isola.
Sono gli stessi "grandiosi e liquidi suoi crediti" che il L. ricorda al re di Spagna nella lettera con cui, nel luglio 1741 (Bitossi, 1997, p. 236), gli comunica il suo dolore per la perdita dell'isola, che proprio il mancato sostegno finanziario da parte della Corona spagnola gli avrebbe impedito di difendere adeguatamente (e per la quale dichiara che stava mettendo alla vela nel porto di Genova una nave armata a proprie spese). Eppure anche le lettere di solidarietà inviategli dal console olandese a Tunisi e da quello genovese a Cagliari danno una sensazione di credibilità dell'impegno del L.: del resto, quindici anni dopo, sarà a lui che il nuovo bey di Tunisi offrirà la restituzione di Tabarca.
Il L., intanto, stava maturando una personalità non priva di coraggio e di aperture riformistiche, come dimostrano sia il ruolo attivo svolto nelle giornate del 1746 sia i suoi interventi nel Minor Consiglio. Nei verbali di ottobre e novembre - mentre i Collegi in continue sedute discutevano sulle richieste del generale Jan Karel Chotek, inviato da Maria Teresa d'Austria per esigere le contribuzioni di guerra imposte a Genova dopo la "capitolazione" del 6 settembre (la Repubblica, coinvolta nella guerra di successione austriaca, era stata poi abbandonata dagli alleati gallo-ispani) - il L. caldeggiava una linea di fermezza e una serie di proposte per favorire un rapporto solidale tra governo e popolo. Mentre molti nobili abbandonarono la città e altri proposero di ottemperare pienamente alle richieste austriache e di reprimere severamente i focolai di disordine popolare, il L. esortò ad "accomunarsi un poco più con i cittadini per renderli benevoli", a una più equa ripartizione delle tasse e a "togliere il segreto" agli atti di governo (Arch. di Stato di Genova, Guerra, filza 97, verbale del 10 ott. 1746). Di fronte all'ultimatum posto il 25 novembre dal generalissimo Antonio Botta Adorno - arrivato con l'esercito alle porte della città e acquartierato a Sampierdarena, seguito da quello di Chotek il 30 novembre - il L., insieme con Matteo Franzoni, Domenico Spinola, Gerolamo Pallavicino, insistette nel rifiutare agli Austriaci qualsiasi contribuzione in denaro e in forniture militari. L'irrigidimento dei due generali servì a far prevalere, nella riunione del Minor consiglio del 1° dic. 1746, la proposta del L. e del suo "partito" circa l'opportunità di rendere pubblica la politica seguita dal governo. In quella del giorno dopo, nell'elenco dettagliato degli argomenti su cui doveva essere tolto il vincolo del segreto, il L. escluse quello dei prelevamenti dal Banco di S. Giorgio "subìti" dalla nobiltà per l'emergenza comune in atto, perché "ben si sa che alcuno più zelante ha levato tutto il suo denaro da S. Giorgio". Fu ancora più esplicito nella concitata seduta del 6 dicembre, immediatamente successiva al tumulto popolare esploso attorno al mortaio austriaco impantanato nel fango di Portoria (l'episodio del leggendario Balilla): il L., con Franzoni e Giuseppe Brignole, propose di dare le armi al popolo, barricare le strade, chiamare in aiuto gli uomini della Valbisagno. Prevalse la proposta più morbida di Francesco M. Grimaldi di "lasciar fare il popolo" senza compromettere il governo, e dissuadere Botta Adorno da atteggiamenti repressivi, delle cui conseguenze sarebbe stato interamente responsabile. Ma, mentre la rivolta popolare proseguiva e si organizzava un quartier generale con la magistratura dei Difensori della libertà, nella seduta dell'8 dicembre, il L., convinto che Botta Adorno, quand'anche fosse stato clemente con il popolo, avrebbe ritenuto responsabile il governo e su di esso si sarebbe vendicato, ribadiva di "dar mano al popolo e favorirlo con capi, ma sempre nascostamente"; occupare porte e cannoni, provocare l'insurrezione nelle valli, proibire l'esportazione di grano dalla città o dal porto, "chi può, offra denaro" dietro promessa di reintegrazione; gli Austriaci "o farseli amici o ammazzarli tutti [sic] o mettere le cose in modo che le vendette possano tardare assai". Le misure, condivise e ampliate da Gian Domenico Spinola e da Brignole, furono in buona misura attuate, nonostante le rassicurazioni del governo a Botta Adorno. E il giorno 10, popolani e volontari forniti di armi e munizioni fatte uscire dall'arsenale, costrinsero gli Austriaci alla ritirata, liberando Genova.
Difficile non immaginare il L. tra quei nobili che presero parte attiva all'insurrezione, fornendo direttive e strategie. Di certo, nei giorni successivi, nell'anarchia dilagante cui il quartier generale del popolo cercò di contrapporsi, insieme con il Minor consiglio, invitando i patrizi a formare una milizia urbana insieme con il popolo, fu sempre il L. a caldeggiare la proposta e a spiegare che proprio i capipopolo, tanto temuti da una parte dei suoi colleghi, erano gli unici in grado di garantire l'ordine pubblico. Alla fine di dicembre, l'Assemblea popolare, tra i cui componenti serpeggiavano reciproci sospetti, elesse il L. e Giovanni Battista Grimaldi a sostituire i due capi, Carlo Bava e Tommaso Assereto, che erano stati imprigionati sotto l'accusa (poi risultata falsa) di appropriazione indebita. Nel gennaio 1747, nelle alterne fasi di festose celebrazioni comuni per la cacciata degli Austriaci e di tensioni interne cittadine, il L. fu protagonista di un gesto clamoroso e coraggioso, poi immortalato in una fascia ad altorilievo sulla parete di palazzo Gavotti nell'attuale via S. Lorenzo (e riprodotto in foto da Costantini). Il 14 gennaio, alla notizia che l'esercito austriaco, complice il sospettato tradimento dei nobili, stava per scendere in città, scoppiò un nuovo tumulto popolare e due cannoni furono trascinati e puntati da gruppi di rivoltosi contro Palazzo ducale, sede del governo. Il L. riuscì a farsi largo tra gli assedianti per persuaderli a desistere; quando un gruppo di irriducibili si apprestava a dar fuoco alla miccia, egli, collocatosi davanti al cannone, fece scudo con il proprio corpo all'integrità del palazzo e del governo stesso della Repubblica. Dal giorno successivo il governo collaborò apertamente con le ricomposte forze popolari, riconoscendo all'Assemblea generale quel ruolo di difesa civile e militare di fronte a cui l'Austria, dopo sei mesi di inutili tentativi, sarebbe stata costretta ad abbandonare i territori della Repubblica.
Quanto al L., la apparente contraddittorietà tra la sua gestione di Tabarca e i "giorni di Genova" porta la fonte a lui più ostile, quella del Luxoro (p. 306), a fraintendere anche l'ultimo coraggioso gesto come difesa di un palazzo di sua proprietà. Del resto, il fatto che nell'ottobre 1756 il nuovo bey di Tunisi, appena succeduto al padre Hasseim ben Alì, chiedesse al L. di rientrare in possesso di Tabarca secondo le antiche norme, può essere interpretato come una prova di stima, al di là del quadro politico-economico che in quel momento al bey interessava salvaguardare. E alla base della rinuncia del L. è più giusto leggere un'intelligente comprensione del problema nella sua complessità e semmai nella sua dimensione anacronistica: una famiglia, un privato cittadino non sarebbero stati in grado - senza adeguato supporto politico-militare alle spalle, nell'evidente disimpegno ormai sia di Genova sia della Spagna - di gestire un'isola al centro di giochi internazionali tra le due sponde del Mediterraneo (peraltro mentre il Banco di S. Giorgio si disfaceva della Corsica). L'intelligenza del problema da parte del L. si desume anche dalle lettere e dai dispacci con cui comunicava ai suoi corrispondenti, tra cui il residente spagnolo a Genova, Juan Cornejo, oltre che dall'offerta del bey e dalla personale intenzione del L. di girare direttamente al re di Spagna, "unico sovrano di Tabarca", amministrazione e difesa dell'isola, "uno dei più forti antemurali per tenere a freno tutte le coste dell'Africa".
Abbandonata forse ogni speranza sulle somme dovutegli dalla Corona spagnola, il L. si dedicò ancora alla politica cittadina e intervenne nelle sedute del Minor consiglio tra il 1761 e il 1762. Allineato con le posizioni dei riformisti, si soffermò, con Brignole e Domenico Invrea, soprattutto sulle forme più opportune per difendere la Corsica ("far leva" tra i Corsi; mandare nell'isola i Corsi che sono in servizio in città; utilizzare in modo appropriato e trasparente i contributi pubblici), in evidente consonanza con uno Stefano Lomellini che è forse il suo unico fratello.
Non risultano altre testimonianze dopo un suo articolato intervento nella seduta del 6 apr. 1762. Non sono noti quindi luogo e data di morte.
Dalla moglie Maddalena Bargelini fu Francesco, di Bologna, aveva avuto tre figli: Lilla, sposa ad Agostino De Mari; Vincenzo, nato il 13 giugno 1737, e Francesco, nato il 12 nov. 1744. Ascritti entrambi alla nobiltà il 10 sett. 1755, chiudono il ramo della famiglia, non avendo avuto figli né Vincenzo (in prime nozze sposato con Maria Cambiaso fu Giovanni Battista, in seconde con Laura Negrone fu Ambrogio, vedova nel 1830) né Francesco, cavaliere di Malta.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Guerra, filza 97, verbali ottobre-dicembre 1746; Ricordi del Minor Consiglio, n. 1641 (1761-62): F.M. Accinelli, Compendio delle Storie di Genova, II, Lipsia 1750, pp. 364 s.; I Libri cerimoniali della Repubblica di Genova, a cura di L. Volpicella, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XLIX (1921), p. 384; Il Liber nobilitatis Genuensis, a cura di G. Guelfi Camajani, Firenze 1965, p. 310; C. Bitossi, Per una storia dell'insediamento genovese di Tabarca, Fonti inedite, in Atti della Soc. ligure di storia patria, n.s., XXXVII (1997), pp. 220-240; F. Podestà, L'isola di Tabarca e le pescherie di corallo, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XIII (1884), pp. 1036-1044; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, II, Genova 1913, pp. 296 s.; L. Levati, Dogi di Genova e vita genovese, I, Genova 1914, p. 98; E. Pandiani, La cacciata degli Austriaci da Genova, Genova 1923, pp. 9, 56, 61, 68, 72, 78 n., 95, 98-101, 108 s., 137, 141-144, 171, 174, 180, 185; V. Vitale, Breviario della Storia di Genova, Genova 1955, pp. 353, 419 s.; E. Luxoro, Tabarca e i Tabarchini, Cagliari 1977, pp. 290 s., 306; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, pp. 448 s.; C. Bitossi, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova tra Cinque e Seicento, Genova 1990, pp. 185-187; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, III, Genova 1833, tav. 43.