Leopardi, Giacomo
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) ricevette nell’infanzia un’educazione tradizionale, affidata a istruttori ecclesiastici. L’analisi linguistica degli scritti del periodo 1809-1810 non a caso rivela, specie per alcune scelte grafico-fonetiche e morfologiche, «la presenza di consuetudini formali della scuola dei Gesuiti» (Corti 1993: 10). Alcuni di questi tratti (uso del grafema j, troncamenti della vocale finale, ecc.) sarebbero scomparsi negli anni successivi; altri (come la prima persona dell’➔imperfetto indicativo in -a, il tipo per lo, per li davanti parola con iniziale consonantica, alternante con pel, pei), mantenuti in ogni genere di scrittura, con qualche infrazione più frequente negli usi epistolari: per es., per il passato compare in una lettera autografa del 22 luglio 1825; il tipo io ero è molto raro, ma i pochi esempi sono concentrati proprio nelle lettere, in particolare in quelle indirizzate ai familiari (Ricci 2003: 103-104).
La formazione del classicista, maturata da autodidatta con l’ausilio della ricca biblioteca paterna (studi di filologia classica, traduzioni di autori greci e latini, ecc.; Timpanaro 19973), si integra presto con lo studio dell’italiano letterario della tradizione tre-cinquecentesca. In questo ambito, che segna un passo decisivo per affinare il laboratorio linguistico delle opere maggiori (Canti, Operette morali), va segnalata l’attività di antologista e di commentatore: due antologie di testi in prosa e in poesia (la Crestomazia italiana del 1827 e la Crestomazia italiana poetica del 1828) suddivisi secondo generi tematico-testuali (narrazioni, descrizioni e immagini, allegorie, comparazioni e similitudini, ecc.), e un commento essenziale di tipo stilistico-grammaticale al Canzoniere petrarchesco (Le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, 1826), modernissimo nell’impostazione linguistica indirizzata ad ‘attualizzare’ la lingua di un autore antico a vantaggio di lettori stranieri o di lettori colti che non avessero una specifica formazione letteraria.
Una lingua molto scelta, ispirata ai modelli della tradizione e sapientemente bilanciata tra antico e moderno, è alla base delle poesie e delle prose letterarie maggiori: i Canti, pubblicati a Firenze nel 1831 e poi, in una seconda edizione accresciuta, a Napoli nel 1835 (vi compare per la prima volta “Il passero solitario”, ma non “La ginestra”, uscita postuma nel 1845), e le Operette morali, una raccolta di ventiquattro prose filosofiche di taglio e argomenti diversi pubblicata a Milano nel 1827, e in seguito, con lievi varianti linguistiche, a Firenze nel 1834 e a Napoli nel 1835.
Il carattere non convenzionale delle scelte linguistiche di Leopardi è testimoniato dalle prese di posizione contro il modello normativo della Crusca. Nelle “Annotazioni” alle dieci Canzoni (1824), che costituiscono il nucleo primitivo dei Canti, la difesa di alcune parole non registrate dalla Crusca nel suo Vocabolario (per es., l’esclamazione evviva! invece di viva!) o di ➔ latinismi particolari (erompere, equo, improbo, incombe, fratricida invece di fraticida, ecc.) avviene sulla base di «quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani […] incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole» (per Leopardi studioso del lessico, e a sua volta lessicografo e collaboratore del Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, cfr. Nencioni 1983; ➔ accademie nella storia della lingua).
Ma la vera e propria officina filosofica e linguistica leopardiana è senza dubbio lo Zibaldone di pensieri, composto di 4526 pagine autografe compilate dal 1817 al 1832 (ma ben 3500 sono concentrate nel periodo 1821-1823). Pubblicato postumo alla fine dell’Ottocento (un’antologia commentata di passi linguistici si trova in Leopardi 1998), raccoglie molte osservazioni di linguistica generale, per es., la distinzione modernissima tra parole e termini, il concetto di europeismo lessicale (➔ europeismi), di arcaismo, ecc., e altre più mirate alla componente grammaticale e al lessico dell’italiano che saranno messe a frutto sia dal poeta sia dal prosatore: si pensi all’impiego dell’ausiliare avere con i verbi transitivi pronominali (o riflessivi apparenti) nel tipo io me lo aveva dimenticato per io me lo era dimenticato (Zibaldone 4084); oppure alle numerose pagine dedicate all’uso aggettivale del participio passato con valore attivo, che ritroviamo spesso nei Canti, per es., negli sguardi innamorati di “A Silvia”, cioè «che innamorano», «che fanno innamorare».
Legate alla filosofia sensistica del Settecento sono alcune note dello Zibaldone risalenti al periodo 1820-1821. Mettendo a punto un’osservazione di Cesare Beccaria (Ricerche intorno alla natura dello stile, 1770), secondo cui «i termini delle arti e i termini tecnici tutti […] debbono fuggirsi da chi scrive per dilettare e per persuadere vivamente l’animo», Leopardi oppone le voci scientifiche o termini «perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti» e «presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto», alle parole che «esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti» (Nencioni 1983: 270-271; per le fonti illuministiche, Gensini 1984: 103-124); ai termini appartiene la precisione della lingua e il suo essere geometrica e razionale, alle parole la proprietà, cioè la sua originalità, che si discosta «dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale e del discorso umano regolato dalla dialettica».
Le parole sono dunque più adatte alla letteratura (soprattutto alla lingua poetica) che i termini denotativi propri del linguaggio filosofico e scientifico. Così parole come lontano, antico, notte, notturno, oscurità, profondo, solitudine, silenzio e simili sono «vaghe» e «indefinite» (aggettivi usati spesso in coppia) cioè «piacevoli» e «leggiadre» (vago non nel senso di «incerto, impreciso» che ha assunto nella lingua di oggi), perché producono sensazioni «indeterminate» e «indefinite».
All’opposizione tra termini e parole, Leopardi aggiunge, in un passo dello Zibaldone datato 26 giugno 1821, un terzo elemento, che chiama voci europee o (con un neologismo da lui coniato) europeismi, formato da voci comuni a tutte le lingue colte d’Europa, specialmente «in politica e in filosofia», ma appartenenti «a quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato» (cfr. Tesi 1994: 17-19, dove si precisa la distinzione tra i termini delle scienze e gli europeismi). Tali parole – Leopardi ne cita alcune, attinte ora dal nuovo vocabolario affettivo postrinascimentale o dei comportamenti individuali (sentimentale, originalità), ora dal lessico tecnico di scienziati e filosofi (analisi e analizzare), ora dal vocabolario della sfera politica (demagogo, dispotismo, fanatismo) – si differenziano dai termini tecnico-scientifici perché «esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli» e sono comuni nell’«uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta».
Anche in questo caso l’aspetto non convenzionale delle posizioni di Leopardi nei confronti di molti suoi contemporanei è sottolineato dal rifiuto di censurare gli europeismi o di definirli ➔ barbarismi o gallicismi (cioè francesismi), in nome di una concezione antipuristica della lingua (comune, per es., a quella di ➔ Melchiorre Cesarotti) che ha salde radici nell’Illuminismo europeo.
In campo linguistico l’interesse teorico di Leopardi si coniuga spesso con la prassi dello scrittore. È il caso, per es., della nozione di arcaismo (➔ arcaismi). In una nota del 1821 Leopardi scrive: «Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorché chiarissime, ancorché espressivissime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa» (Zibaldone 1099). Questo rifiuto però ammette delle eccezioni, per es., la facoltà di recuperare dall’uso degli scrittori antichi «parole e modi oggi disusati», i quali
oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio a usarli, e in somma così freschi […] che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca (ibid.).
L’«arcaismo moderato» (Zibaldone 3868), cioè l’uso conveniente di parole antiche (nozione assai vicina a quella di cultismo; ➔ cultismi), è per Leopardi fonte di eleganza e adatto a uno stile letterario elevato, antico-moderno, distinto impercettibilmente dalla lingua corrente.
Per limitarci alla prosa letteraria delle Operette morali – nei Canti, al contrario, gli arcaismi sembrano in apparenza più marcati (Mengaldo 2006: 85-87), data la tradizione elitaria del linguaggio poetico – si possono individuare due tipi di arcaismi moderati:
(a) lessico-semantici:
(i) parole correnti impiegate con un significato desueto (soprattutto latinismi semantici): per es., divertire «distogliere» sul modello del lat. devertĕre («divertire la mente dal pensiero di quel bene»), carità della vita «amore della vita» modellato sul significato del lat. caritas;
(ii) parole desuete, o comunque poco frequenti nell’italiano dell’Ottocento, ma di significato, forma e suono affini a parole correnti: per es., i latinismi nutricare «nutrire», cruciare «angustiare» affini a crucciare, e a croce, ecc.;
(b) sintattici, cioè costrutti non più in uso nella lingua corrente, ma attinti dal repertorio letterario tre-cinquecentesco, e sfruttati a fini stilistici in particolari contesti: per es., l’uso del modo indicativo nelle proposizioni concessive, la ripetizione della congiunzione che dopo una proposizione incidentale («hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano?»), ecc.
Gli arcaismi moderati contribuiscono a dare una ‘patina antica’ alla lingua letteraria di Leopardi, che voleva apparire non antiquata né tantomeno anacronistica, come accadeva invece per la lingua dei «moderni che scrivono all’antica» – stigmatizzati in una nota dello Zibaldone del 1822 (cfr. Zibaldone 2395, a proposito dello storiografo Carlo Botta). E si noti che, al contrario di quanto faccia nella sua prosa maggiore, Leopardi ricorre di frequente all’impiego di arcaismi crudi (pricissione «processione», giuca «gioca», fussono «fossero», ecc.) per ottenere un effetto falso-antico in alcuni testi parodici scritti in una lingua pseudo-trecentesca (sul Martirio de’ Santi Padri, cfr. Serianni 2002: 38-44).
È bene sottolineare in linea generale che nelle Operette (ma anche nella prosa argomentativa dello Zibaldone) l’arcaismo non investe né la resa grafica (per es., il nesso ‹ns› in instituto), né la fonetica (per es., il tipo scuopre / cuopre costante in prosa), né la morfologia (per es., il pronome personale eglino «essi», la desinenza dell’imperfetto indicativo io era, il condizionale saria, ecc.) o la morfosintassi (per es., l’ordine dei clitici in se gli «gli si», l’enclisi facoltativa con i verbi di modo finito del tipo narrasi, ecc.): gli aspetti più propriamente strutturali della lingua leopardiana rimangono infatti legati all’uso scritto letterario del primo Ottocento e non possono definirsi in alcun modo scelte stilistiche individuali dell’autore.
Per Leopardi, come per altri autori del primo Ottocento, il binomio ‘lingua e stile’ costituiva un’entità ben più stretta che non sia al giorno d’oggi (Tesi 2009: 85-94). Nello Zibaldone la lingua letteraria italiana viene considerata non un repertorio chiuso di forme e costrutti, ma un complesso aperto e molto dinamico di opzioni stilistico-linguistiche che il singolo autore poteva accordare via via all’argomento:
la lingua italiana […] è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili e caratteri degli scrittori […] che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole (Zibaldone 321).
In mancanza di modelli normativi di riferimento, dipendenti dalle tradizioni stilistiche proprie di ciascuna lingua, l’argomento, per così dire, rimaneva scoperto e allo scrittore si ponevano due scelte: rintracciare modelli stranieri che colmassero la lacuna oppure rinunciare in favore di settori meglio coperti da testi esemplari.
Più una lingua aveva proprie risorse stilistiche che coprissero il maggior numero di argomenti e generi, più si poteva definire, secondo giudizi sparsi in molte pagine dello Zibaldone, «ricca», «varia», «variabile», «potente», e simili. Al contrario, più una lingua si presentava poco dinamica e aperta alle varie opzioni stilistiche, più decresceva la libertà dell’autore di attingere al repertorio e più aumentava la possibilità di trovarsi a descrivere, per es., uno stesso argomento con identiche parole o successioni di idee di un altro scrittore: una cosa che accade normalmente nelle lingue di oggi, ma che era altrettanto eccezionale rintracciare in passato. La moltiplicità degli stili genera, per es. nelle Operette morali e nei Canti, modalità stilistico-sintattiche diverse da argomento ad argomento, da situazione a situazione.
Contribuivano a tale variabilità i precetti classicistici della varietas linguarum ac stilorum, a cui corrispondeva, sul piano delle scelte lessicali, la copia verborum, cioè la possibilità di usare lingue e vocabolari diversi secondo l’argomento trattato. Questa capacità dinamica della lingua italiana, secondo Leopardi, si era perduta a causa del contatto col francese moderno, che da parte sua aveva iniziato a ridursi a medium strumentale di comunicazione universale, poco adatto per questo, nel giudizio di Leopardi, a essere una lingua di tipo letterario, «variabile», «aperta», «ricca», ecc. La scelta leopardiana privilegiò dunque la lingua e lo stile del secolo o dei secoli precedenti al contatto col francese (sempre più intenso a partire da metà Seicento), in partic. quelli del Cinquecento, che Leopardi considerava l’apogeo della lingua e della letteratura italiana (Zibaldone 691-692).
L’aspetto complessivo della lingua delle Operette morali, l’opera più rappresentativa della prosa letteraria leopardiana, si presenta conforme per scelte grafico-fonetiche e morfologiche all’italiano letterario di primo Ottocento, con una lieve preferenza rispetto alla media degli usi generali e alle oscillazioni interne dello stesso epistolario per alcune forme, per es., cuopro / scuopro, il tipo io era, debbe e dee «deve», ponghiamo / supponghiamo, ecc., avvertite più in linea con la tradizione scritta di livello sostenuto o formale (cfr. Vitale 1992). Nel settore lessicale, la presenza di latinismi, soprattutto semantici, contribuisce a innalzare il tasso di aulicità di alcune operette, ma senza provocare quell’effetto indesiderato di «un moderno che scrive all’antica».
Anche la formazione delle parole si allinea a questo profilo: per es., il suffisso -mento, al di là di poche espressioni tradizionali di marca tradizionale o letteraria del tipo conoscimento «conoscenza», incominciamento «inizio», nascimento «nascita», e simili, concentrate nelle operette di tono più aulico, si presenta in prevalenza in lessemi possibili anche nella lingua di oggi: abbattimento, accrescimento, aggiramento, allettamento, conseguimento, decadimento, patimento, ritrovamento, sfinimento, ecc.
Nella sintassi del periodo i numerosi costrutti tradizionali (proposizioni al participio o al gerundio collocate di preferenza a sinistra della principale, coniunctio relativa, ➔ accusativo con l’infinito, ecc.) testimoniano l’adesione al modello della prosa cinquecentesca più ricercata (➔ Baldassarre Castiglione; ➔ Torquato Tasso ; ecc.), riproposta in una versione più lineare e moderna. L’analisi complessiva della sintassi del periodo (cfr. Tesi 2009: 15-84) non rivela un tipo periodale standard che corrisponda a un ipotetico ideale ‘medio’ di realizzazione sintattica valido in ogni operetta. Nelle Operette infatti la scelta tra periodi brevi o complessi, tra paratassi e ipotassi, risulta ancora condizionata dalla situazione comunicativa, variabile da testo a testo, e in stretta relazione col contenuto di ogni singola operetta. Così si passa dai periodi ipotatticamente complessi della Storia del genere umano, del Parini, dell’Ottonieri, che riproducono il tipo di prosa aulica di matrice cinquecentesca, alle soluzioni sintattiche intermedie (Frammento apocrifo, Plotino e Porfirio, ecc.) fino ad arrivare, nelle operette a carattere dialogico, al susseguirsi di periodi poco sviluppati, perlopiù mono o bifrastici, arieggianti il tono spigliato e a volte concitato della lingua parlata.
Tra i fattori sintattici che contribuiscono a connotare il carattere decisamente paratattico e lineare del ‘parlato ricreato’ delle Operette, modellato sulla tradizione comica quattro-cinquecentesca, si possono notare:
(a) l’uso in successione del che subordinante ‘seriale’: «Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte […] ma che io sono assordata dal suono stesso»;
(b) l’impiego del ➔ che polivalente con ripresa pronominale: «come si dice di Ermotimo, che [= al quale] l’anima gli usciva del corpo»;
(c) la ripresa della congiunzione che dopo una subordinata ipotetica: «che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi», «Non si racconta egli di un vostro matematico antico, il quale diceva che se gli fosse dato un luogo fuori del mondo, che stando egli in quello, si fidava di smuovere il cielo e la terra?», ecc.; si osservi nell’ultimo esempio l’uso dell’imperfetto indicativo nell’apodosi del periodo ipotetico dell’irrealtà («si fidava [avrebbe avuto la speranza] di smuovere il cielo e la terra»), un altro tratto sintattico sfruttato in funzione mimetica dello stile colloquiale.
Nei Canti il confronto con la lingua poetica tradizionale si articola in scelte molto varie di lessico e soluzioni stilistiche calibrate sul genere del componimento (patriottico, idillico, sepolcrale, introspettivo, ecc.), secondo una norma classica applicata anche nelle Operette morali.
Il dato più rilevante nella distribuzione dei fenomeni grammaticali e lessicali è l’esistenza di una vera e propria ‘grammatica diversa’ che seleziona forme e parole da utilizzare in poesia, a cui corrispondono forme e parole diverse impiegate nella prosa. La distinzione tra forme poetiche e forme prosastiche, canonizzata nelle grammatiche cinquecentesche e mantenuta artificiosamente in vita fino al primo Ottocento da vari repertori grammaticali (cfr. Serianni 2009: 19-20), si fondava sull’uso consuetudinario di particolari generi testuali, e non sul riferimento alla lingua corrente (Nencioni 1988: 385). Si spiega così – valutando le scelte leopardiane su un parametro che esclude il confronto con la lingua d’uso – la preferenza in poesia per alcune forme più moderne come il tipo copre / scopre, o per l’aggettivo indefinito nessuno, a cui fa riscontro in prosa l’uso esclusivo di cuopre / scuopre, e di niuno (alternante peraltro con nessuno), cioè di varianti fonetiche o morfologiche ancora in uso, ma in forte regresso nell’italiano scritto di primo Ottocento. Analogo il caso della selezione di vocaboli avvertiti come tipici o esclusivi della lingua poetica e del suo codice tradizionale: sempre arbore invece di albero, augello invece di uccello, chioma o crine invece di capelli, reina invece di regina, spirto invece di spirito, ruina invece di rovina; mentre l’alternanza tra alcune parole come aere e aria è stabilita sulla base del genere poetico: per es., aria prevale nella sezione degli idilli, aere nelle prime dieci Canzoni, stilisticamente di tono più sostenuto (Nencioni 1988: 384).
Numerose sono le varianti rispetto all’ultima versione, a testimonianza di un lavoro continuo per raggiungere il risultato di una estrema, apparente, semplicità. Per es., frequenti sono gli scambi tra aggettivi particolari prodotti dall’inserimento di una variante che si ripercuote nell’assetto generale del testo, provocando spostamenti a catena e riscritture: in “A Silvia”, «gli studi miei dolci» (v. 15) sostituisce il precedente «gli studi miei lunghi» (per poi passare definitivamente a «gli studi leggiadri»), spostamento che provoca l’eliminazione della variante «dolce avvenir» (v. 12) in favore di «vago avvenir» del testo definitivo, ecc. (Contini 1979: 41-52). Altre varianti hanno interesse linguistico: per es., il passaggio dalle preposizioni analitiche con grafia staccata del tipo «de gli avi nostri», «ne la fausta sorte», «a gli ultimi nepoti», a quelle sintetiche con grafia unita «degli avi nostri», «nella fausta sorte», «agli ultimi nepoti», avvenuto nell’edizione del 1835, a eccezione della preposizione su, che continuerà a rimanere con l’articolo separato (Girardi 2000: 65-69).
L’uso particolare della rima e delle assonanze, la scelta costante dell’endecasillabo e del settenario come metri canonici, la struttura della strofa composta da un numero variabile di versi e senza uno schema rimico fisso (canzone libera o leopardiana; ➔ canzone), conferiscono alla poesia maggiore di Leopardi (“A Silvia”, “Le ricordanze”, “L’infinito”, ecc.) una musicalità interna ben diversa da quella della tradizione poetica. Diversamente dalla prosa delle Operette, che non arrivarono a rappresentare un modello linguistico per gli scrittori postmanzioniani (cfr. Tesi 2009: 74-78), l’influenza della lingua poetica dei Canti ha lasciato una traccia, non solo nei poeti delle generazioni successive, ma in una fascia ben più estesa di persone che sono venute in contatto con l’endecasillabo leopardiano durante il periodo scolastico. La pratica didattica del ripetere a memoria ha fatto conservare il ricordo a molti studenti di interi versi delle poesie più note («Dolce e chiara è la notte e senza vento», «Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna», «D’in su la vetta della torre antica», «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», «E il naufragar m’è dolce in questo mare», ecc.), come ne ha impresso nella memoria la scansione ritmica, classica e melodiosa, modulata su alcune posizioni preferenziali dell’accento (Mengaldo 2006: 15-40).
Leopardi, Giacomo (1987-1988), Poesie e prose, Milano, Mondadori, 2 voll. (vol. 1º a cura di M.A. Rigoni; vol. 2º a cura di R. Damiani).
Leopardi, Giacomo (1997), Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 3 voll.
Leopardi, Giacomo (1998), La varietà delle lingue. Pensieri sul linguaggio, lo stile e la cultura italiana, a cura di S. Gensini, con la collaborazione di A. Prato, Scandicci, La Nuova Italia.
Contini, Gianfranco (1979), Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi.
Corti, Maria (1993), Premessa, in Leopardi, Giacomo, Tutti gli scritti inediti, rari e editi, 1809-1810, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, pp. 1-11.
Gensini, Stefano (1984), Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politico-culturali, Bologna, il Mulino.
Girardi, Antonio (2000), Lingua e pensiero nei “Canti” di Leopardi, Venezia, Marsilio.
Mengaldo, Pier Vincenzo (2006), Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi, Bologna, il Mulino.
Nencioni, Giovanni (1983), Giacomo Leopardi lessicologo e lessicografo, in Id., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino, Einaudi, pp. 261-295.
Nencioni, Giovanni (1988), La lingua del Leopardi lirico, in Id., La lingua dei “Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, pp. 369-398.
Ricci, Alessio (2003), Su alcuni allotropi in diacronia nella prosa leopardiana (con particolare riguardo allo “Zibaldone di pensieri”), «Lingua nostra» 64, pp. 89-106.
Serianni, Luca (2002), Italiano antico, italiano anticheggiante, in Id., Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, pp. 38-52.
Serianni, Luca (2009), La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci.
Tesi, Riccardo (1994), Dal greco all’italiano. Studi sugli europeismi lessicali d’origine greca dal Rinascimento ad oggi, Firenze, Le Lettere.
Tesi, Riccardo (2009), Un’immensa molteplicità di lingue e stili. Studi sulla fine dell’italiano letterario della tradizione, Firenze, Cesati.
Timpanaro, Sebastiano (19973), La filologia di Giacomo Leopardi, Roma - Bari, Laterza (1a ed. Firenze, Le Monnier, 1955).
Vitale, Maurizio (1992), La lingua della prosa di G. Leopardi: le ‘Operette morali’, Firenze, La Nuova Italia.