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Leopardi, Giacomo

di Alessandro Capata - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Leopardi, Giacomo

Alessandro Capata

Poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo, nato a Recanati il 29 giugno 1798 e morto a Napoli il 14 giugno 1837. Nonostante le diversità e le distanze di prospettiva culturale e politica che sembrerebbero separarlo da M., L. nutrì uno specifico interesse machiavelliano per un lungo arco di tempo, dal 1820 a dopo il 1832, ovvero dalle osservazioni dello Zibaldone su M. e sul «machiavellismo di società» (23 ag. 1820 - 9 maggio 1829) fino all’elaborazione dei Pensieri (dopo il 1832) passando per l’operetta Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello (ag.-sett. 1820) con l’aggiunta Per la novella Senofonte e Machiavello (giugno 1822) e vari elenchi di letture e disegni letterari a tematica machiavelliana. L’interesse di L. per il pensiero di M. è concentrato più sugli aspetti umani e sociali che su quelli propriamente politici. Il poeta recanatese infatti estende alla sfera dei rapporti privati le verità e i precetti esposti da M. che vengono a costituire, così, un solido quadro di riferimento per il vivere sociale e civile postsettecentesco, senza ricadute strettamente politiche. Il materiale leopardiano relativo a M. si può agevolmente suddividere in tre blocchi: a) giudizi espressi nello Zibaldone; b) delineazione della categoria di «machiavellismo di società» nello Zibaldone e suo reimpiego nei Pensieri; c) M. personaggio e autore nella Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello e Per la novella Senofonte e Machiavello. A questi tre blocchi concettuali e di genere vanno aggiunti – come repertori dell’immaginario leopardiano su M. – gli Elenchi di letture, la Crestomazia in prosa, i Disegni letterari.

Il primo riferimento a M. contenuto nello Zibaldone (da qui in avanti abbreviato in Zib.) è del 23 agosto 1820 ed è contemporaneo alla Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, a dimostrazione dell’insorgenza di un interesse machiavelliano in quell’estate del 1820 che precede la lettura sistematica delle opere di M., che avverrà, come testimonia il IV Elenco di letture (Zibaldone, a cura di G. Pacella, 3° vol., 1991, pp. 1143-64), solo a partire dal novembre 1823. L’esordio del M. zibaldoniano è modellato sui Discorsi III i: in Zib. 222 (23 ag. 1820) si legge infatti: «Dice Machiavelli che a voler conservare un regno, una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i loro principii», con evidente richiamo al titolo del primo capitolo del terzo libro dei Discorsi. L. trova in M. un appoggio concettuale della bontà della natura, centrale nel pensiero leopardiano del periodo 1818-20 e fondata sul contrasto tra natura (portatrice di felicità) e civilizzazione (fautrice di corruzione e decadimento). La successiva menzione machiavelliana contenuta in Zib. 882 (30 marzo - 4 aprile 1821), dopo la stesura della Novella, è in linea con il primato degli antichi (più vicini alla natura) e fa riferimento al contrasto tra l’antico che idealizza il ruolo politico e il moderno che educa alla realtà pratica. Il profilo del «buon re» nella Ciropedia di Senofonte prevede umanità e liberalità con i «nazionali» e spietatezza verso gli stranieri, mentre il «buon principe» di M. presenta caratteri di crudeltà tanto con i propri sudditi quanto con gli stranieri. I due modelli (Senofonte e M.) per L. non vanno assolutamente confusi: «Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all’idea che egli ebbe del buon Principe». La concezione politica machiavelliana si pone per L. come simbolo della corruzione moderna, intesa come opportunismo de-idealizzato.

Dopo queste menzioni machiavelliane legate al contrasto antico-moderno, L. prende in considerazione M. da altri punti di vista, per così dire più ‘oggettivi’ e meno legati alla ricerca di appoggi estemporanei ai propri percorsi filosofici, in via di rapidatrasformazione. È il caso di Zib. 1317 (13 luglio 1821), dove L. loda lo stile di M. considerandolo, al pari di quello di Galileo Galilei per la prosa scientifica, uno dei rari esempi italiani di «buona lingua» applicata al genere filosofico. Ma soprattutto è il caso di Zib. 1531-1532 (20 ag. 1821), dove L. rilancia il parallelo tra M. e Galilei riconoscendo la portata fondativa del pensiero di questi due scienziati:

Facciamo conto che la scienza politica da Machiavello in poi abbia fatto venti passi, dieci per opera di Machiavello, e gli altri dieci distributivamente per opera degli altri successivi scrittori. Chi fu uomo più grande? Machiavello o i suoi successori? [...] Figuriamoci lo stesso della fisica in ordine a Galileo.

Nell’ottobre del 1821 L. cita di nuovo M. accanto a pensatori moderni come Cartesio, Isaac Newton e John Locke, che hanno introdotto mutazioni irreversibili nella concezione dell’uomo: in Zib. 1858 L. unisce a questo specifico elogio anche una sottolineatura dell’identità italiana di M. da contrapporre a quella tedesca: «Machiavelli fu il fondatore della politica moderna e profonda. In somma lo spirito inventivo è così proprio del mezzogiorno, riguardo all’astratto ec. come riguardo al bello e all’immaginario». Successive menzioni riguardano osservazioni sullo stile machiavelliano intriso di latinismi (Zib. 3920, 26 nov. 1823), negligenze linguistiche (Zib. 4013, 4018, 4030, 4033 del periodo genn. 1824 - ott.1825) e osservazioni sui detti di Castruccio Castracani riconducibili in realtà a Diogene Laerzio (Zib. 4368, 5 sett. 1828). Molto probabile che per lo smascheramento dei detti di Castruccio abbia agito su L. la fonte di Francesco Algarotti, Lettere sopra la scienza militare del segretario fiorentino (1759), come evidenziato da Francesca Fedi (2010, p. 160) sulla scorta di studi precedenti. Da notare che l’interesse per la Vita di Castruccio era già comparso nella Crestomazia della prosa dove L. ne antologizza un brano, dei tre complessivi machiavelliani (Crestomazia italiana. La prosa, a cura di G. Bollati, 1968, pp. 427-34).

Ben più feconda è invece la questione del «machiavellismo di società» trattata nello Zibaldone e riutilizzata in una consistente parte dei Pensieri, dopo l’acquisizione di una maggiore dimestichezza da parte di L. con le opere di M., intervenuta a partire dal novembre 1823. Una dimestichezza che, tuttavia, non divenne mai vera conoscenza approfondita, al punto che Mario Martelli (1978, pp. 277-81) arrivò a sostenere, iperbolicamente, che L. non aveva letto per niente i Discorsi. La comparsa del «machiavellismo di società» – definito in prima istanza semplicemente «machiavellismo» – risale al settembre del 1826 e si trova in Zib. 4197-4198:

Che gli uomini abbiano a trovare e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti egualmente le apprendano ed usino [...], questo ha dell’assurdo; perché se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de’ due? [...] Il simile dico della politica, del machiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili.

Mentre per L. è comprensibile che si utilizzino delle «arti» per soggiogare la natura, risulta inconcepibile come l’uomo possa procedere attraverso l’uso strutturale della simulazione a combattere i propri simili, dal momento che «tutti gli uomini» simulano, al pari di schermitori, annullando così vicendevolmente le proprie simulazioni in un continuo gioco di finzioni (concetto che verrà ripreso e articolato in Pensieri 38). Il rinnovato interesse leopardiano per M. durante l’ultima fase del soggiorno bolognese, nel settembre del 1826, segna il definitivo tramonto della giovanile ‘morale dell’astensione’, dopo l’apertura dei suoi orizzonti ai salotti letterari e ai circoli culturali italiani (Roma, Milano, Bologna) e l’amara osservazione dei reali comportamenti sociali che dominano la scena del mondo. Nel 1827, a Firenze, L. rilegge e organizza lo Zibaldone allestendo tra il luglio e l’ottobre l’Indice del mio Zibaldone, all’interno del quale introduce per la prima volta la voce Machiavellismo di società con riferimenti a ben settantadue pagine autografe del diario che raccolgono osservazioni sulla condotta umana in società, analizzata nel suo inarrestabile gioco di apparenze contro il quale L. propone un uso rivoluzionario e paradossale della schiettezza. Tra il gennaio e il maggio del 1829 L. torna a riflettere sul «machiavellismo di società»: in Zib. 4440 (18 genn. 1829) annota beffardo: «Machiavellismo di società. Chi si crede un coglione al mondo lo è, e lo comparisce», in Zib. 4500-01 (8 maggio 1829), scrivendo su ispirazione delle Pensée di Jean-Jacques Rousseau, L. sostiene – in contrasto con il filosofo svizzero – che è necessario usare una «finta politezza» per ottenere benevolenza in società, dispensando a tutti parole e attestazioni di stima, dal momento che «gli uomini si curano assai meno di essere benvoluti che stimati».

La deprecazione leopardiana della simulazione sociale, maturata senza dubbio attraverso la scoperta personale dell’inaffidabilità umana e filtrata, secondo Luigi Blasucci (1989, p. 191) anche dalla voce Machiavellisme dell’Encyclopédie méthodique, si inserisce in ogni caso nella più ampia polemica di L. contro l’individualismo competitivo della collettività borghese: un tratto che esaspera e stravolge la prospettiva originaria della ‘simulazione’ in M., con un’addizione di malvagità non contemplata dalla pur «invida natura umana» machiavelliana.

Il materiale zibaldoniano sul machiavellismo sociale trova una successiva utilizzazione nei Pensieri. In particolare, torna nell’aforisma 38 l’immagine degli schermitori (utilizzata in Zib. 4197-4198) con ulteriore approfondimento teorico:

Come l’arte dello schermire è inutile quando combattono insieme due schermitori uguali nella perizia [...] così spessissime volte accade che gli uomini sono falsi e malvagi gratuitamente [...] la malvagità e la doppiezza non sono utili se non quando o vanno congiunte alla forza, o si abbattono ad una malvagità o astuzia minore, ovvero alla bontà. Il quale ultimo caso è raro; il secondo, in quanto a malvagità non è comune; perché gli uomini, la maggior parte, sono malvagi a un modo, poco più o meno. Però non è calcolabile quante volte potrebbero essi, facendo bene gli uni agli altri, ottenere con facilità quel medesimo che ottengono con gran fatica.

Evidente è qui il ricordo di Principe xviii a proposito della congiunzione tra i «lacci» della «golpe» e la forza del «lione». Ma l’argomentazione di L., tolto il debito verso M., vira verso una contestazione radicale di questa modalità fondata sulla «malvagità». Il machiavellismo sociale innerva in realtà i Pensieri fin dal primo aforisma quando L. parla del mondo come di una «lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi», e si può rintracciare in molti altri casi, come nel pensiero 55 («il mondo ordina di parere uomo da bene, e di non essere»), con nuovo rinvio all’opposizione tra apparenza e realtà contenuta in Principe xviii, o nel pensiero 56: «la schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede», con richiami a Principe xvi e di nuovo a Principe xviii.

Una vicenda tutta particolare riguarda l’invenzione da parte di L. di un M. personaggio narrativo, protagonista della Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello (ag.-sett.1820), e dell’aggiunta Per la novella Senofonte e Machiavello (giugno 1822). Sia la novella sia l’aggiunta videro la luce solo nell’edizione Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi, dalle carte napoletane, a cura di Giovanni Mestica (1906), e non entrarono mai a far parte delle edizioni delle Operette morali licenziate da L., né dell’edizione postuma del 1845 curata da Antonio Ranieri. La Novella non è ancora influenzata dal modello satirico di Luciano e presenta tratti di autonoma originalità rispetto al futuro corpus delle Operette, risentendo semmai, per l’ambientazione infernale e burlesca e per lo svolgimento satirico-paradossale, dello stesso modello machiavelliano della Favola di Belfagor. «Senofonte» e «Machiavello» sono candidati per istruire un figlio di Plutone e Proserpina destinato a venire in terra non si sa bene quando, ma certamente con il ruolo di «gran principe». Due modelli si fronteggiano, uno perdente l’altro vincente: L. abbandona il pedagogo antico alla sconfitta (Senofonte è modesto, puntiglioso, amante della patria, confida nel diavolo per sfiducia negli uomini) e fa trionfare il moderno M., teorico di un più pragmatico egoismo, la cui orazione è concepita da L. in modo incisivo, incalzante, con autobiografico risentimento per la necessità del male insita nella vincente pedagogia machiavelliana. Come è stato evidenziato da Francesca Mecatti (2003, p. 61), M. è presente nella Novella e nella sua aggiunta con una triplice funzione: sia come modello letterario attraverso la Favola di Belfagor sia come personaggio della narrazione che sfida Senofonte sia, infine, come simbolo della morale moderna in quanto autore del Principe (un’opera più utile «di quante ne abbia prodotte la più squisita filantropia», perché fedele al «vero»).

Un ultimo nucleo di interesse leopardiano per M. risiede nei Disegni letterari e negli Elenchi di letture. Questi ultimi contengono i seguenti titoli machiavelliani: Vita di Castruccio Castracani, Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli ecc., Novella di un diavolo che prese moglie (nov. 1823); Istorie fiorentine, Asino d’oro, Capitoli quattro (genn. 1824); Clizia, Mandragora (febbr. 1824); Due decennali (apr. 1824); Il principe (sett. 1824); Commedia senza titolo (sett. 1825). Al febbraio 1829, dunque in prossimità dell’exploit dei Pensieri, risalgono invece i seguenti progetti di opere elencati nei Disegni letterari: Il Machiavello della vita sociale; Il Machiavello della vita civile, o sociale; Discorsi sopra vari punti storici di vari autori, al modo di Machiavello sopra Livio.

Bibliografia: Crestomazia italiana. La prosa, a cura di G. Bollati, Torino 1968; Pensieri e Disegni letterari, entrambi in Id., Tutte le opere, a cura di W. Binni con la collab. di E. Ghidetti, 1° vol., Firenze 1969, pp. 213-46 e 367-73; Novella Senofonte e Niccolò Machiavello, in Operette morali, a cura di C. Galimberti, Napoli 1977, 19904, pp. 545-53; Zibaldone, a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano 1991 (in partic. Elenchi di letture, 3° vol., pp. 113772); Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Roma 1995.

Per gli studi critici si vedano: M. Porena, Scritti leopardiani, Bologna 1959, pp. 251-79; M. Martelli, Leopardi e la prosa cinquecentesca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati 13-16 sett. 1976, a cura del Centro nazionale di studi leopardiani, Firenze 1978, pp. 261-90; E.G. Caserta, La teoria leopardiana del machiavellismo sociale nei Pensieri, «Rivista di studi italiani», 1987, 5, 2, pp. 31-40; L. Blasucci, Leopardi e il personaggio “Machiavello”, in Id., I titoli dei Canti e altri studi leopardiani, Napoli 1989, pp. 175-96; S. Campailla, Machiavelli (e Leopardi) agli inferi, in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Gianvito Resta, a cura di V. Masiello, 2° vol., Roma 2000, pp. 813-23; G. Sangirardi, Il libro dell’esperienza e il libro della sventura. Forme della mitografia filosofica nelle Operette morali, Roma 2000; F. Mecatti, Machiavelli, lo Zibaldone e i Pensieri, in Ead., La cognizione dell’umano. Saggio sui Pensieri di Giacomo Leopardi, Firenze 2003, pp. 59-111; F. Fedi, Leopardi e Machiavelli: figure del disinganno tra politica e morale, in Leopardi e il ’500, a cura di P. Italia, Ospedaletto 2010, pp. 157-71.

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