Leopardi, Giacomo
Il canto dell’infelicità
La poesia di Giacomo Leopardi, testimoniata nei Canti, si collega a un’approfondita riflessione sulla condizione e il destino dell’uomo nella civiltà moderna. Sulla traccia di una concezione radicalmente pessimistica dell’esistenza, confermata dal suo capolavoro in prosa (Operette morali), Leopardi anticipò molte delle idee che saranno al centro del pensiero filosofico del Novecento europeo
Giacomo Leopardi nacque nel 1798, a Recanati, primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. I primi studi letterari e filosofici, condotti inizialmente con la guida di precettori privati, non tardarono a dimostrarne l’eccezionale precocità.
S’immerse presto nella lettura dei classici, oltre che degli autori italiani, approfondendo la sua conoscenza del latino; apprese da solo il greco e l’ebraico; si dedicò a ricerche erudite e filologiche; compose versi e tradusse dalle lingue classiche (Orazio, Virgilio, Omero tra gli altri). Un’attività sorprendente, anche dal punto di vista soltanto quantitativo. Il poeta ne parlerà attribuendo al suo studio «matto e disperatissimo» la responsabilità di avergli rovinata per sempre la salute.
Leopardi si affermava intanto come filologo ed erudito. Nel 1817 strinse amicizia con Pietro Giordani, uno scrittore in quel tempo di grande fama, che conobbe dapprima solo per lettera e dal quale ricevette incoraggiamento a seguire la sua vocazione letteraria. Nel frattempo, innamoratosi della cugina Gertrude Cassi, scriveva l’elegia Il primo amore e compilava un diario in prosa sulla sua passione di adolescente. Da una passione civile e morale nascono invece le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, con le quali il giovane poeta prende apertamente posizione rispetto alle idee reazionarie del padre.
Contro il progetto di Monaldo e dello zio materno, Carlo Antici, che lo destinava alla carriera ecclesiastica, andava maturando intanto la sua decisione di abbandonare Recanati e la famiglia. Nel 1819 un tentativo di fuga, facilmente scoperto, si risolse in un nulla di fatto e Leopardi dovette desistere. Solo a ventiquattro anni gli fu dato di allontanarsi dal paese natale, ospite dello zio a Roma.
La poesia leopardiana è inseparabile dall’assidua riflessione sui vari problemi dell’esistenza. Documento fondamentale ne è lo Zibaldone di pensieri, redatto nel periodo 1817-32 in forma di appunti. A una fitta serie di annotazioni linguistiche e filologiche Leopardi ne unì altre di carattere psicologico e morale, in cui rispecchiò le due fasi principali del suo pensiero.
Inizialmente persuaso che gli uomini avessero conosciuto un’età felice, vivendo allo stato di natura, nell’ignoranza del vero e al riparo dagli effetti disastrosi della ragione e della civiltà, giunse alla conclusione che essi, in realtà, non furono mai felici. Preoccupata unicamente di conservare la specie umana, la natura si sarebbe disinteressata della felicità individuale dei viventi. È questo il punto d’arrivo della filosofia leopardiana.
Al ritorno da Roma, dopo un’esperienza che lo lasciò del tutto insoddisfatto, Leopardi accettò nel 1825 l’invito a Milano dell’editore Stella, il quale gli affidò l’incarico di curare per lui una collana di classici latini e italiani. Si trasferì quindi a Bologna, poi a Firenze, dove conobbe letterati e patrioti come l’editore Giovan Pietro Vieusseux e Gino Capponi (in seguito ebbe l’occasione d’incontrare Manzoni e lo scrittore francese Stendhal), e infine a Pisa, dove trascorse il periodo forse più sereno della sua vita.
Aveva già scritto le canzoni, fra le quali erano Bruto minore, Alla Primavera e l’Ultimo canto di Saffo: tutte ispirate, nei temi e nel linguaggio, a quel classicismo di cui, in polemica coi romantici (Romanticismo), il poeta si dichiarava (e si sarebbe sempre dichiarato) erede; e aveva scritto gli Idilli, compreso il maggiore, L’infinito, con cui s’inaugurava la fase più originale della sua poesia.
La composizione della canzone Alla sua donna (1823) segna l’inizio di un lungo periodo di silenzio poetico. Leopardi si dedica alle Operette morali, la cui stesura per la maggior parte risale al 1824.
Alla luce di una concezione rigorosamente antispiritualistica e materialistica dell’esistenza, il discorso leopardiano tocca qui i temi della vita e della morte, del piacere e del dolore, della felicità e della noia di vivere.
Li tratta in forma ora mitica (Storia del genere umano) ora ironica e satirica, con l’occhio all’incorreggibile vizio degli uomini di credersi al centro dell’Universo (Dialogo di Ercole e di Atlante, Dialogo di un folletto e di uno gnomo); ora con riguardo all’esclusiva esigenza di un’esistenza liberata dall’inerzia e dalla noia (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez).
Fra le punte più alte del libro saranno da annoverare il Dialogo della Natura e di un’anima e il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie; mentre in posizione di particolare spicco si colloca il Dialogo della Natura e di un islandese, energica affermazione del più maturo pessimismo leopardiano.
Il ritorno alla poesia avviene nel 1828. Leopardi compone tra Pisa e Recanati i suoi canti forse più intensi: Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Accogliendo l’offerta di un sussidio per un anno da parte di alcuni amici toscani, rimasti anonimi, il poeta poté tornare a Firenze, lasciando definitivamente Recanati; in compagnia dell’esule Antonio Ranieri si recò quindi a Napoli nel 1833, dove trascorse gli ultimi infelicissimi anni di vita.
L’amore per la fiorentina Fanny Targioni Tozzetti gli ispirò i canti del cosiddetto ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A sé stesso, Aspasia); l’emarginazione sofferta nell’ambiente napoletano si rispecchiò nell’immagine autobiografica del Passero solitario e nella satira politica dei Paralipomeni alla Batracomiomachia. Ma fu con La ginestra, insieme a Il tramonto della luna, che Leopardi raggiunse il culmine della sua poesia di questo periodo.
La coscienza dell’infelicità umana resta la base di una protesta che, diretta contro la malvagità della natura, sollecita la solidarietà degli uomini contro il comune nemico. Il poeta, ribadendo la sua ferma avversione allo spiritualismo, rifugge da ogni forma di consolazione religiosa, e da ogni facile ottimismo riguardo al progresso tecnico-scientifico. Sulla scia del Dialogo di Tristano e di un amico, un’ultima operetta morale risalente al 1832, il poeta torna così a insistere sul modello di un eroismo tragico, consapevole del vero e tuttavia non rassegnato al destino che ci è riservato. Leopardi morì a Napoli nel 1837.