GIACOMO II, re d'Inghilterra (VII di Scozia)
Nacque il 15 ottobre 1633 a Londra, da Carlo I e da Enrichetta Maria di Francia. Coinvolto ancora giovane nella rivoluzione e arrestato egli stesso, riusciva a fuggire e a porsi in salvo in Francia, dove visse fino alla restaurazione di Carlo II, suo fratello, prendendo costumi e abitudini francesi. In Francia egli servì nell'esercito del re sotto il comando del Turenne. Avvenuta la restaurazione, il fratello Carlo II salito al trono lo richiamò in patria e lo nominò, col titolo di duca di York, grande ammiraglio d'Inghilterra. Si occupò attivamente di marina, ma nel tempo stesso fece vita galante, fino a che, probabilmente prima del marzo 1672, fece il gran gesto della sua vita, convertendosi al cattolicesimo. Non era, certo, se non un atto formale che sanzionava ufficialmente la posizione da lui assunta già da qualche anno. L'anno seguente (1673) egli sanzionava il suo ritorno alla chiesa cattolica romana, sposando in seconde nozze Maria Beatrice di Modena. Da quel momento G. fu violentemente osteggiato sia dalla chiesa anglicana, sia dai Whigs; e specialmente aspro contro di lui fu il partito di Shaftesbury, il quale riusciva anche nel 1678 a farlo escludere dal consiglio del re e a costringerlo a un esilio di un anno nel Belgio. Tuttavia, alla morte del fratello, riuscì a succedegli senza difficoltà (6 febbraio 1685). Ma ai suoi primi atti apparve subito l'incertezza e la contraddizione della sua politica, obbligata a conciliare la propria fede cattolica romana con la religione anglicana che non poteva senza pericolo essere soppressa. E così il popolo di Londra doveva assistere contemporaneamente alle cerimonie cattoliche cui il re assisteva con pompa e ostentazione, e alle cerimonie anglicane cui il re doveva partecipare per legge dello stato. I primi atti del regno, sebbene G. non avesse pressoché in nulla mutato i ministri e i funzionarî nominati da Carlo II, mostrarono da parte del nuovo re che si sarebbe particolarmente incrudelito contro i residui della rivoluzione; soprattutto non lasciava dubbî sulle intenzioni del re la permanenza accanto a lui di una sinistra figura di giudice sanguinario, George Jeffreys. Appena infatti apparve sicuro l'atteggiamento cattolico del re, ribellioni scoppiarono in varie parti del regno, alcune delle quali assai gravi come quella di Monmouth, soffocata nel sangue. Questo successo, a cui seguirono altri costituiti da processi e da condanne, diede a G. la convinzione di poter continuare nel suo atteggiamento tendente alla restaurazione del cattolicesimo in Inghilterra, a ciò incoraggiato dal pontefice e dalla Corte di Francia che in quel periodo aveva inasprito la sua ostilità contro i riformati. Si può dire che ogni giorno segna un episodio di omaggio al cattolicesimo e di umiliazione per gli anglicani: dal ricevimento del nunzio papale a palazzo reale, fino alla rinnovata libertà di propaganda e di predicazione dei monaci. Così che il nunzio poteva pubblicamente informare il papa che l'anglicanismo era in decadenza e non era "ormai che una ridicola setta che affettava una certa moderazione nell'eresia". Gli arcivescovi anglicani che si vedevano ormai sopraffatti, tentarono un passo presso il re, richiedendo cioè che la legislazione religiosa sulla quale il re si arrogava piena libertà fosse rimessa alla competenza del parlamento. Il re respinse la petizione, ma la notizia si sparse in tutta l'Inghilterra. Altri vescovi aderirono alla petizione e lo stato di eccitazione del paese intero parve preludere alla vicina rivoluzione. Anche la piazza di Londra dava segni evidenti della sua ostilità: un corteo passò fin sotto le finestre del palazzo reale con un carro portante un fantoccio con un'ascia, allusione evidente alla fine di Carlo I, ma il re continuò nella sua politica, affrontando i rischi evidenti di una nuova rivoluzione. I ribelli inglesi fecero capo a Guglielmo d'Orange che, genero del re per averne sposato la figlia Maria e riformato, non faceva mistero della sua simpatia per gli anglicani ai quali offrì il suo aiuto. Negli uuimi mesi del suo regno G. inasprì le sue spaventose persecuzioni a mezzo del suo fido Jeffreys sperando di soffocare la ribellione, ma senza risultato. Chiamato dai ribelli, Guglielmo d'Orange nell'ottobre 1688 sbarcava in Inghilterra con un seguito di armati e con numerosissimi nobili inglesi che si erano rifugiati presso di lui. Alcune città quali Oxford e Plymouth mandarono deputazioni dichiarandosi per lui: G. informato ebbe forse solo allora la sensazione dell'inutilità della resistenza e fuggì. S'imbarcò per la Francia abbandonando il regno mentre il parlamento fra la gioia del popolo proclamava re Guglielmo d'Orange.
Con questa breve rivoluzione, che ha dato luogo a piccoli e insignificanti fatti d'arme ma che ha avuto ripercussioni enormi nello svolgimento della vita costituzionale inglese, e del pensiero politico, non solo inglese, bensì europeo, scompare dal trono d'Inghilterra la casa degli Stuart. G. si recò a Saint-Germain-en-Laye circondato da pochi fidi e da parecchie favorite che nutrivano vane speranze di restaurazione (v. giacobiti). Tentarono infatti con pieno insuccesso due volte di provocare moti in Inghilterra. Morì il 17 settembre 1701, quasi dimenticato. G. dovette senza dubbio la sua rovina all'assoluta incomprensione degli avvenimenti che avevano mutato la vita inglese in seguito alla rivoluzione e al governo di Cromwell. Lo scarso coraggio suo e dei suoi risparmiò fortunatamente una guerra civile anche se non valse a risparmiare innumerevoli supplizî durante le feroci persecuzioni da lui ordinate.
Bibl.: Per maggiori indicazioni G. Davies, Bibl. of British Hist. Stuart Period, Oxford 1928. Oltre le classiche opere di T. B. Macaulay, History of England, voll. 10, Londra 1849 e di L. Ranke, Engl. Gesch., voll. 9, Berlino 1874, cfr. Life of James II, ed. da J. S. Clarke, voll. 2, Londra 1816; H. Belloc, James II, Londra 1928. Per un punto particolare riguardante l'Italia v. U. Dallari, Il matrimonio di G. Stuart con Maria d'Este, voll. 2, Modena 1896.