DURAZZO (Grimaldi Durazzo), Giacomo
Nacque a Genova, probabilmente nel 1503, da Giovanni e Margherita Monsa.
Apparteneva ad una famiglia "popolare" di lontana origine albanese (il capostipite Giorgio "de Duratio" sarebbe giunto a Genova sul finire del Trecento), già abbastanza importante da essere compresa tra quelle che nel 1528 costituirono il corpo della nobiltà genovese. Poiché, tuttavia, secondo le leggi di riforma di quell'anno (che intendevano promuovere un artificiale accorpamento del ceto dirigente in un numero limitato di "alberghi", cioè consorzi gentilizi) occorrevano sei case aperte in città, perché una famiglia potesse costituire "albergo" col proprio cognome, i poco numerosi Durazzo confluirono nell'"albergo" Grimaldi: nei documenti, com'era uso, il D. si trova perciò citato come Giacomo Grimaldi Durazzo (o Durazzo Grimaldi). Le risorse della casata, fondate sull'arte della seta e sul commercio di questa, erano molto cospicue; già il padre Giovanni fu figura di rilievo in città, ricoprendo diverse cariche pubbliche; testimonia il suo peso economico (del resto confermato dal testamento: nel 1545 possedeva sei case, una volta da seta e una bottega) la statua che il Banco di S. Giorgio gli fece erigere nel palazzo delle Compere. Nel corso del '500 lo stesso D. e i fratelli (Pietro, Antonio, Bernardo, Nicolò, Vincenzo) accrebbero ancora le fortune familiari inserendosi con successo nella diaspora mercantile genovese: Pietro mori nel 1545ad Anversa, dove tre anni dopo si trovava il fratello Vincenzo; Nicolò si trasferi (e si ammogliò con una Contarini) a Venezia.
Non sembra che il D., probabilmente il primogenito della famiglia, abbia svolto attività fuori di Genova. In patria percorse il cursus honorum ricoprendo incarichi onorifici e responsabilità politiche. Nel 1533 fu incluso tra i quattro nobili che andarono a Portovenere ad omaggiare, in rappresentanza della Repubblica, Clemente VII in viaggio per mare diretto a Marsiglia a incontrare Francesco I. Nel 1538 assolse un compito analogo, andando a Piacenza ad incontrare Paolo III che si recava a Nizza.
Tra il 1556 e i primi anni '70 fu ripetutamente senatore; nel 1573 si trovava tra i supremi sindicatori. In quello stesso anno coronò la sua carriera ascendendo al dogato, primo degli otto del suo cognome, in circostanze assai difficili.
Da alcuni anni il contrasto tra la nobiltà "nuova" (gli antichi "popolari") e quella "vecchia" andava acutizzandosi. I "nuovi", più numerosi, si ritenevano penalizzati dal "garibetto", come era chiamata la riforma alle leggi del 1528 introdotta nel 1547, dopo la congiura dei Fieschi, per attribuire maggior peso nel governo alle casate più influenti, cioè alla nobilta "vecchia". I "nuovi" volevano perciò che il "garibetto" fosse soppresso; e si appoggiavano all'élite del popolo grasso, che chiedeva l'ascrizione alla nobiltà, e al malcontento artigiano e plebeo per i gravami fiscali introdotti per sostenere la guerra di Corsica. Dalla fine degli anni '60 il contrasto tra "vecchi" e "nuovi" esplose apertamente anche nelle aule consiliari e in occasione dei rinnovi delle cariche pubbliche. Una di queste occasioni fu proprio l'elezione dogale del 1573, quando al doge uscente "vecchio", Gianotto Lomellini, doveva subentrare un "nuovo" ("secunduni consuetudinem electionis dal 1528 in qua costumata, se ben non legge scrittac cosi Marco Gentile, p. 3). Una parte del gruppo dirigente "nuovo" sperava di far eleggere un candidato combattivo e apertamente favorevole agli interessi della fazione. I "vecchi" miravano all'obiettivo esattamente opposto, cioè all'elezione di un esponente "nuovo" moderato.
Il D. era in realtà il candidato dei "vecchi" (M. Gentile, p. 5, ne espose le ragioni: "per essere stato in governo quattro anni dolcissima, et ottima persona et siando de Supremi sempre amoroso alla patria et alla quiete, oltre l'essere ricchissimo, il quale non vorrà né mai ha voluto alteratione"). I "nuovi" misero avanti inizialmente le candidature di David Vaccà e Francesco Tagliacarne (due uomini di legge, il primo dei quali più tardi doge a sua volta), e soprattutto quelle di Giacomo Senestraro, cognato di uno dei capi della fazione "nuova", l'ex segretario della Repubblica Matteo Senarega, e di Tommaso Carbone, di li a poco esponente dell'ala radicale dei "nuovi". Le votazioni andarono per le lunghe, tanto che il Senato intervenne ad imporre che i quattro prescelti per il ballottaggio venissero senz'altro proposti al Maggior Consiglio per l'elezione. Tre dei cinque supremi sindicatori, la magistratura preposta al controllo di conformità dei provvedimenti dei Collegi e dei Consigli alle leggi del 1528, tentarono invano di opporsi. Il D. fu pertanto eletto con una sorta di colpo di mano il 16 ott. 1573, "con grandissima sodisfattione di quelli che vogliono quiete e bene alla città et alla Republica", cioè i nobili "vecchi" (Gentile, p. II ma cfr. anche Spinola, p. 301). Con eguale soddisfazione la notizia fu ricevuta in Spagna, dove il D. venne definito "cristiano, pacifico, rico y de muy buena intención".
Il dogato del D. trascorse all'insegna dei preparativi delle due fazioni per la guerra civile; né sembra che l'azione del doge, tra l'altro già anziano, fosse tenuta in gran conto. Genova era al centro dell'attenzione delle maggiori potenze europee (Spagna, Francia, Papato), che seguivano gli sviluppi dei contrasti di fazione. Appena eletto il D. al dogato, giunse a Genova un ambasciatore straordinario spagnolo, Juan de Idiaquez (più tardi ambasciatore residente del re Cattolico presso la Repubblica). Le fazioni si equilibravano nel Senato attraverso elezioni attentamente bilanciate (ad ogni rinnovo semestrale di un quarto del Senato venivano eletti un "vecchio" e un "nuovo"). Ma di fatto alla fine del 1573 la conduzione effettiva della politica cittadina si trasferi nelle due deputazioni che prima i "vecchi" e poi i "nuovi" costituirono, che davano direttive ai colleghi di fazione nel Senato, e che erano impegnate a discutere le possibili modifiche istituzionali.
Nel febbraio 1574 il D. accolse il duca d'Alba e il cardinale Pacheco di passaggio a Genova (dove il duca suscitava apprensione tra gli stessi nobili "vecchi", filospagnoli); nel novembre successivo ricevette don Giovanni d'Austria, che trovò una situazione ormai incandescente: secondo un agente del duca di Savoia "li populi andavano in caccia di Spagnoli come fanno li cacciatori alle lepri" (Savelli; le due occasioni cerimoniali vennero rappresentate negli affreschi della villa Durazzo presso S. Bartolomeo degli Armeni, poi trasferiti nell'atrio di palazzo Tursi, sede del Comune di Genova). Il corso degli eventi era però del tutto fuori del controllo del governo.
Per il carnevale del 1575 i nobili "nuovi" organizzarono un torneo che servi a proporre pubblicamente, in maniera simbolica, gli obiettivi della fazione. Il 15 marzo, dopo alcuni giorni di agitazione, con le botteghe chiuse e le strade percorse dalle squadre armate degli opposti schieramenti, i "nuovi" e il loro alleati del popolo grasso e delle corporazioni artigiane (in prima linea i numerosi e potenti tessitori) ottennero dal governo l'accoglimento delle loro richieste: abolizione del "garibetto", nuove ascrizioni, aumento del salario ai tessitori, abolizione della gabella sul vino, che colpiva soprattutto il popolo minuto. I "vecchi" cercarono invano di staccare il popolo grasso e la plebe dai "nuovi"; poi, sempre invano, cercarono di far registrare da un notaio il loro dissenso per provvedimenti presi sotto costrizione; alla spicciolata cominciarono a lasciare la città e a prepararne la riconquista militare con l'aiuto di Gian Andrea Doria, nominato capo militare della fazione, e del re di Spagna. In città rimasero i nobili "nuovi" (ma anche un centinaio di "vecchi") e nel governo sedettero i senatori della sola parte" nuova", mentre un apposito ufficio di Guerra (costituito ai primi di luglio e denominato tale a metà settembre) diventava il punto di riferimento dell'ala radicale della fazione. Poiché la pacificazione interna di Genova importava tanto alla Spagna quanto al pontefice e all'imperatore, Gregorio XIII inviò in città (dove giunse il 16 aprile) il cardinale Giovanni Morone, col compito di fare da mediatore tra le fazioni. Nella prima metà d'agosto giunse in città un secondo mediatore, a nome del re di Spagna, il duca di Gandia. Ma i "vecchi" fuorusciti dichiararono ufficialmente di non riconoscere più l'autorità del governo, considerandolo illegittimo.
In settembre cominciarono ufficialmente le ostilità, che durarono circa un mese, l'ultimo del mandato dogale del Durazzo. Il 12 ottobre le fazioni concordarono una tregua; il 17 il D. usci di carica, mentre veniva rapidamente eletto a suo successore un altro nobile "nuovo", Prospero Fattinanti Centurione, anch'egli moderato e favorevole all'accordo con i fuorusciti.
Il D., divenuto procuratore perpetuo (com'era diritto degli ex dogi), partecipò assai poco alla vita politica cittadina: fu delegato insieme con un altro perpetuo, Luca Spinola, a seguire un processo, e incaricato di rivedere le scritture del marchese Alfonso Del Carretto riguardanti la città di Ventimiglia.
Fece testamento il 14 dic. 1577; mori nel 1579, entro il 7 settembre, data alla quale la moglie risulta già vedova. Venne sepolto nella cappella dell'Assunta della chiesa di S. Ambrogio.
Dal matrimonio (piuttosto tardivo, a giudicare dai dati anagrafici certi dei suoi figli) con Maria Maggiolo di Vincenzo nacquero i maschi Giovanni, Pietro (doge nel 1619-21) e Agostino, che acquistò il feudo di Gabiano, rispettivamente sposati con una Giustiniani (sorella di Alessandro, doge nel 1611-13), una Saluzzo e una Brignole Sale (sorella di Giovan Francesco, doge nel 1635-37), e le femmine Lucrezia, Maddalena, Battina e Laura: la prima e la terza sposate a dei Balbi, la seconda a un De Franchi (poi doge). Il reticolo di parentele della progenie del D. rendeva evidente l'influenza raggiunta dalla casata, al centro del gruppo di famiglie "nuove" che campeggiava largamente nella politica genovese insieme con le più antiche e celebri casate.
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C. Bitossi