DEVOTO, Giacomo
Nacque il 19 luglio 1897 a Genova da Luigi, clinico e patologo prima a Genova poi trasferitosi a Pavia e quindi a Milano, e da Luigia Cortese. Conseguita la maturità al liceo "Giuseppe Parini" di Milano, si iscrisse nel 1915 alla facoltà di lettere di Pavia, dove insegnavano Carlo Pascal, Giuseppe Fraccaroli, Plinio Fraccaro, Ettore Romagnoli, Luigi Patroni, Luigi Suali. Interrotti gli studi per la guerra mondiale, alla quale partecipò come ufficiale degli alpini (Scritti minori, I, p. 6), si laureò nel 1920con una tesi basata sul confronto tra lo svolgimento fonetico dell'India e della Romània. Dalla tesi, decurtata e rielaborata, derivò poi il volume Adattamento e distinzione nella fonetica latina (Firenze 1923). Passò quindi a Berlino nel 1920, dove seguì i corsi di Wilhelm Schulze, Julius Pokorny, Heinrich Luders, rispettivamente dedicati al lituano, all'irlandese, al sanscrito. Nel 1923 a Basilea fu particolarmente vicino a Jakob Wackernagel e poi a Max Niedermann, Gunther Jachmann, Peter von der Mühll, seguendo corsi di iranico, lituano, greco e latino arcaico. Nel 1923-24 fu a Parigi, dove strinse legami con Antoine Meillet, Joseph Vendryes, Jules Bloch, seguendo corsi di lessicologia indeuropea, di irlandese, di oscoumbro.
Nel 1922 Giorgio Pasquali era fautore della chiamata del D. per incarico alla cattedra già di E. G. Parodi, su uno sdoppiamento dell'indirizzo indeuropeo dall'indirizzo romanzo (affidato questo a Carlo Battisti); nel 1924conseguiva la libera docenza. Nell'ambiente fiorentino fu tosto spinto allo studio dell'etrusco dal Battisti e da Antonio Minto, direttore del Museo archeologico di Firenze, animatore dell'etruscologia dell'epoca, fondatore e organizzatore dell'Istituto di studi etruschi e della rivista Studi etruschi. Il D. vinceva il concorso a cattedra nel novembre del 1926; contro le proprie aspettative (Scritti minori, I, pp. 11-12) non fu chiamato a Firenze bensì a Cagliari (dal gennaio al giugno 1928), passando quindi a Firenze (1929-1930), poi per ragioni personali a Padova (1930-1935), e di qui definitivamente a Firenze (1935-1967). Negli anni Cinquanta affiancò per incarico all'insegnamento di glottologia quello di sanscrito, che divenne una specie di Privatissimum da cui sono usciti tutti gli allievi delle più giovani generazioni.
Sotto gli auspici dell'Istituto per l'Europa orientale, cui si era avvicinato grazie a Paolo Emilio Pavolini, professore di sanscrito all'università di Firenze, aveva fondato la rivista Studi baltici (1931), che apriva un nuovo ambito nell'indeuropeistica italiana; grazie alle conoscenze personali del D. intervennero i nomi della allora giovane linguistica europea (J. Kurylowicz, L. Hjelmslev, E. Benveniste, G. Bonfante, ecc.). Nell'autunno del 1933, fino a dicembre, il D. aveva insegnato all'università di Kaunas.
Il 1943-44 lo trovò impegnato nella lotta di liberazione, in cui maturò riflessioni poi pubblicate (Pensieri sul mio tempo, Firenze 1945; riedito, ibid. 1955, col titolo Civiltà del dopoguerra). Nel 1944, dopo la liberazione di Firenze. il Comitato di liberazione nazionale lo designò alla carica di assessore nella giunta municipale; vi rimase fino alla nomina (giugno 1945) a presidente del Consiglio provinciale dell'economia, in seguito ridenominato Camera di commercio, carica tenuta fino al 1959.
Nel 1945 fondò il Circolo linguistico fiorentino, che sentì sempre più come sua creatura e che pose come centro del suo magistero (Scritti minori, I-III, passim). Nel 1949 fu nominato presidente della Colombaria, restandovi fino alla morte, e agendo per uno svecchiamento della antica istituzione. Nel 1954 venne nominato presidente dell'Istituto di studi etruschi. In quest'ufficio rimase fino al 1964 quando, per i nuovi impegni datigli dall'Accademia della Crusca di cui era stato eletto presidente (1963), e per difficoltà interne all'istituto stesso, fu costretto a dare le dimissioni. Dal 1963 l'impegno del D. fu volto a riorganizzare la Crusca in vista della ripresa del Vocabolario. In questo periodo si intensificò l'opera di revisione e sistemazione di scritti precedenti; sempre più frequente fu la collaborazione di allievi (G. Giacomelli, M. L. Altieri Biagi, G. Buti, A. L. Prosdocimi, A. Nocentini).
Nel 1967, anno di abbandono dell'insegnamento per raggiunti limiti di età, fu eletto rettore dell'università di Firenze. Si trovò così ad affrontare la contestazione del 1968, a Firenze precocemente scoppiata nell'autunno del 1967, con lo spirito del liberale illuminato, e con una fattiva volontà di intervento politico presso gli organi centrali (Scritti minori, III, pp. 3-5, e Nencioni, in Per G. D.). Il 31 ott. 1968 rassegnava le dimissioni da rettore, ma per l'impossibilità di trovare un successore dovette restare in carica, come dimissionario, ancora per un anno.
La perdita di amici carissimi come V. Santoli e, più ancora, un ictus che lo colse in viaggio il 25 febbr. 1971 ("la grande svolta": Scritti minori, III, p. 6) lo portarono, una volta ristabilito, a due atteggiamenti complementari: da una parte a un pensoso ripiegamento volto alla meditazione, dall'altra a un rinnovato impegno esterno: nel 1972 organizzava il X Congresso internazionale dei linguisti (Bologna 28 agosto - Firenze 5 sett. 1972). Il declino fisico, mai mentale, si accentuò verso la fine del 1974: in condizioni di salute pessime volle partecipare ad una seduta della Crusca (18 dicembre), passando di lì all'ospedale, sempre a Firenze dove moriva il 25 dic. 1974. Per sua volontà fu sepolto a Borzonasca (prov. di Genova) nella tomba di famiglia, dove lo raggiunse poco dopo la moglie, Olga Rossi, la cui presenza era stata essenziale nella sua vita, privata e pubblica.
Era socio dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia della Crusca, dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", dell'Istituto di studi etruschi ed italici, del Cercle linguistique de Paris, dell'Institut de France, dell'Istituto archeologico germanico di Roma; era socio corrispondente dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, dell'Accademia delle scienze di Torino, dell'Istituto lombardo di scienze e lettere, ed era socio straniero delle Accademie delle scienze di Argentina, Austria, Baviera, Belgio, Danimarca, Finlandia, Iugoslavia, Norvegia e Svezia. Gli erano state conferite, inoltre, sette lauree honoris causa: dalla Sorbona e dalle università di Basilea, Berlino (Humboldt), Cracovia, Lima (San Marco), Strasburgo, Zagabria. (Mastrelli, in Per G. D.).
Il D. non è inscrivibile nell'ambito di una sola scienza, la linguistica; come scienziato gli è pertinente piuttosto la qualifica di storico. Ciò oltre, e in modo più pregnante, l'etichetta del "neo-storicismo linguistico" che lo stesso D. aveva coniata per la propria posizione teoretica (Scritti minori, I, p. 27).
Dall'autobiografia (1957) si hanno indicazioni per la formazione scientifica a partire dagli anni del ginnasio, ma specifiche solo a partire dalla tesi di laurea (1919-20), che giudicava con severità: "...racconto romanzato, indizio di un certo livello di estrosità; ma anche ... intrinsecamente pericolosa e fuorviatrice nel tema, inaccettabile nella esecuzione". Già "devotiana" negli stili e nei contenuti è la prolusione del 1924 Glottologia indeuropea e glottologia classica (Scritti minori, I, pp. 29-30;inedita fino al 1958 ss.; tutti gli scritti segnalati solo da titolo e data della prima apparizione sono riuniti negli Scritti minori I-III). Il richiamo ai maestri, specialmente Wackernagel e Meillet, offre il destro per focalizzare compiti da assegnare alla glottologia indeuropea "oggi" (cioè negli anni Venti): "a) nella determinazione dei contrasti dialettali indeuropei; b) nella progressiva coordinazione dei caratteri antichi attestati nelle singole lingue"; in altre parole nella risposta alla domanda: "in che cosa consiste la differenza che ha condotto il greco ad essere greco, il latino ad essere latino?". Sono già posti il tema della dialettologia indeuropea che maturerà in Italo-greco e italo-celtico (1929), negli Antichi Italici (Firenze 1931; altre ediz. profondamente rimaneggiate: ibid. 1951 e 1967), e poi nelle Origini indeuropee (Firenze 1962), e il tema della storicità delle singole lingue che maturerà nella Storia della lingua di Roma (1ediz., Bologna 1939, che corrisponde ad un volume della Storia di Roma promossa dall'Istituto di studi romani: 2ediz. con lievi modifiche, 1943-44, e successive ristampe; trad. tedesca Geschichte der Sprache Roms, Heidelberg 1968, con aggiornamenti; ristampa anastatica, con "Premessa" di A. L. Prosdocimi e "Appendice bibliografica" di A. Franchi De Bellis, Bologna 1983), e poi nel Profilo di storia linguistica italiana (Firenze 1953) e nel Linguaggio d'Italia. Storia e strutture linguistiche italiane dalla preistoria ai nostri giorni (Milano 1974).
Dopo l'esordio-programma della prolusione del 1924 l'attività scientifica del D. si può infatti ripartire in filoni ideali, in parte cronologicamente sovrapposti ma ben distinguibili nei loro nuclei genetici e nelle fasi dell'elaborazione originaria.
L'attenzione alle lingue classiche si sposta tosto dal latino della tesi (e di Adattamento e distinzione) al greco con la descrizione del dialetto greco di Cirene (1928). A una frequentazione che continuerà fino alla morte sia in lavori scientifici sia, anche più profondamente, nei risvolti didattici: una parte del corso annuale del D. era sempre dedicata ad almeno una lingua classica. Espressione di questa didattica, ma anche portatori di idee originali, furono La lingua omerica (Firenze 1936; nuova ediz. rielaborata, ibid. 1963;ultima ediz. aggiornata da A. Nocentini, col titolo La lingua omerica e il dialetto miceneo, ibid. 1973) ed i Problemi ed orientamenti di grammatica e di storia delle lingue classiche, in Introduzione alla filologia classica (Milano 1951; nuova ediz. aggiornata a cura di A. L. Prosdocimi, ibid. 1973).
Qualche anno prima, anche per l'incoraggiamento di colleghi fiorentini, affrontava temi di linguistica etrusca e, a fianco, partecipava attivamente ai due convegni di studi etruschi (nazionale del 1926e internazionale del 1928) e alla costituzione del Comitato permanente per l'Etruria che si trasformerà poi nell'Istituto di studi etruschi. La consuetudine con l'etrusco lo accompagnerà fino alla fine della vita (Ilvalore di un colloquio [di Studi etruschi], 1974). In una prima fase l'etrusco è visto essenzialmente nell'aspetto formale (fonetica e morfologia) e lo strumento euristico è il contatto-contrasto con altre lingue. Nelle Tendenze fonetiche etrusche attraverso gli imprestiti dal greco (relazione al I Convegno nazionale etrusco del 1926, comparsa in Studi etruschi, I, 1927) il D. affronta un tema già trattato (W. Deecke e E. Fiesel), ma la novità e la bontà dei risultati apparvero ai contemporanei come una svolta (e come una tappa fondamentale, anche se datata, resta tutt'oggi). Restano pure validi (storicizzati, ma non datati) i lavori immediatamente successivi: L'etrusco come intermediario di parole greche in latino (1928), Rapporti etrusco-italici (1929), Contatti etrusco-iguvini (1930). In seguito il D. si rivolge all'ermeneutica: Il cippo di Perugia, 1934; L'iscrizione di Pulena, 1936; Le lamine di Pyrgi, 1966. E vi si rivolge secondo una rigorosa applicazione del metodo combinatorio, che in D. è più che in altri chiaro delle sue matrici di approccio strutturale al testo, come risulta nell'enunciazione esplicita: "rinunciare a fissare dei particolari e pensare invece punti di partenza certi. I particolari possono essere circoscritti in modo approssimato, ovviamente una volta definiti i punti generali, cioè le basi di partenza" (Studi etruschi, 1936, p. 277). La base metodologica era stata tratta da un libro (recensito nel 1927) di E. Goldmann, Die Duenos-Inschrift (Heidelberg 1926) e si condensa nel principio che l'interpretazione - ogni interpretazione - va dal generale al particolare. Erano gli stessi principî ermeneutici che il D. andava applicando nello stesso tempo (1928-1937) alle tavole iguvine. In occasione di questo testo princeps dell'Italia antica e, quale testo rituale, di tutto il mondo classico, egli affina e matura una concezione ermeneutica globale; l'esito a stampa, le monumentali Tabulae iguvinae (Roma 1937;riediz., ibid. 1940, 1952, e 1962con supplemento), sono la testimonianza di un rigore metodologico esemplare (si può dissentire sul metodo, o parte di esso, ma non sulla coerenza: Prosdocimi, in Onoranze a G. D.): vi è qui il principio della "riprova interna", l'esaltazione del metodo combinatorio, magistralmente da lui applicato: Per la "riprova interna" è necessario un "esterno" cognito, importato nello "interno" incognito; il limite del D. è di non importare nuovo "esterno", il merito grandissimo è di portare alle estreme conseguenze tutto lo "esterno" precedentemente importato in una costruzione in cui tout se tient e che chiude (e apre) un'era. L'interpretazione, intesa e praticata come "edificio interpretativo", è stata esplicitata metodologicamente più volte (per tutte si veda l'articolo-recensione del 1962 al Dialect ombrien di A. Ernout del 1961, in Scritti minori, II, pp. 305-306).
Sulle tavole iguvine, come su altri testi italici, il D. tornerà in seguito con interventi volti a ribadire le proprie interpretazioni o i propri principî metodologici nei confronti di altri studiosi (oltre al citato Emout, V. Pisani, E. Vetter, G. Bottiglioni) ma pure per rivederle, anche in punti essenziali, ove il punto di vista altrui o proprio, nel frattempo maturato, portasse a soluzioni più convincenti: qui, come sarà sua caratteristica, il D. arrivava presto a maturare una tematica nella forma che poi avrebbe seguito per tutta la vita, ma ciò non impediva di rivederne aspetti anche fondamentali, come è, per esempio, il caso degli Antichi italici del 1931 nelle due successive edizioni (1951, 1967). Quest'opera, insieme con Italo-greco e italo-celtico, pone da una parte il risvolto linguistico e storico dell'attività ermeneutica delle tavole iguvine; dall'altra pone al D. l'occasione di focalizzare quella concezione storicizzata dell'indeuropeo che nella prolusione del 1924 era solo programmatica: tutte le sue opere posteriori di ambito indeuropeo hanno qui le radici, come, più in generale, quasi tutte le tematiche successive.
Il decennio che va dal 1929 (Italo-greco...) al 1939 (Storia della lingua di Roma) è il decennio che vede nascere la maggior parte delle opere più significative; lo stesso Profilo di storia linguistica italiana (1953), da alcuni ritenuto il capolavoro del D., prosegue storiograficamente la parte finale della Storia della lingua di Roma. Queste datazioni di "nascita" sono essenziali per capire un certo D., specialmente quello della ricostruzione preistorica culminata nelle Origini indeuropee (1962) e, per altro versante, per qualificare l'idealismo e il crocianesimo come referente della storiografia (di storia linguistica e di storia totale) delle teorie del D.; quello che è apparso inessenziale teoricamente (Ramat, G. D.) trova le giustificazioni nella biografia per cui tutta la tematica successiva si delinea e riceve forma, anche psicologica, nel clima e coi referenti dell'anteguerra; in questo decennio, Italo-greco e italo-celtico e Gli antichi Italici sono, oltre che una chiave della biografia scientifica, un punto di riferimento oggettivo della scienza. Nel primo, contemporaneamente a C. Marstrander, portando alle estreme conseguenze certa dialettologia indeuropea di A. Meillet e di J. Vendryes e la revisione di dialettologia celtica (e italica) di A. Walde, il D. conclude: "II concetto di italo-greco è perciò definitivamente superato; ma quello di italo-celtico, più che erroneo, è inutile; la sua eredità va divisa fra la teoria, puramente linguistica, dei dialetti indeuropei, e la preistoria dei Celti e dei popoli dell'Italia antica, delle loro condizioni sociali, conservatesi per lungo tempo affini. Ma dev'essere aggiunta subito l'affermazione che il distacco dei Latini dagli Osco-umbri non è un fatto italico, ma un fatto dialettale indeuropeo, che in Italia gli indeuropei sono venuti in strati diversi: che l'unità storica che si può essere costituita in Italia è un fatto indipendente dalla loro più antica parentela linguistica. La comparazione linguistica non si limita così a una conclusione puramente teorica, ma offre un contributo di capitale importanza agli studiosi della preistoria italiana".
La proposizione finale (ora in Scritti minori, I, pp. 153-54) è storicizzata negli Antichi Italici (opera che ai fini storiografici va letta innanzitutto nella prima edizione); la storicizzazione della fase preistorica è operata grazie ad un connubio "linguistica-archeologia", nel fissare strati linguistici allo spazio, al tempo, a una determinata cultura tramite l'archeologia. Più che le singole operazioni è da focalizzare il principio operativo che il D. non abbandonerà più e che avrà spesso occasione di rivendicare (Linguistica e archeologia, 1938; Il problema indeuropeo come problema storico, 1941; ecc.) e che troverà una grandiosa applicazione nelle Origini indeuropee (1962).
La prima sezione degli Antichi Italici, preistorica e protostorica, pur basata su precedenti, per chiarezza di formulazione fonda di fatto la successiva dottrina della "scuola italiana" sull'indeuropeizzazione d'Italia in due aspetti caratterizzanti; uno fattuale: latino e italico (osco-umbro) sono due dialetti indeuropei distinti, dove i tratti diversificanti sono antichi, quelli unificanti sono recenti e dovuti a convergenza in Italia; uno teorico: la dialettologia indeuropea è (deve essere) calata in un ipotesi storica per cui - traendo un'implicazione che il D. non ha esplicitato - non si dovrebbe più parlare di latino (o protolatino), italico (o protoitalico), ma di latini (o protolatini), italici (o protoitalici) ancorati nello spazio e nel tempo (nel caso con arrivo in Italia a distanza di millenni).
Questa simbiosi tra classificazione linguistica e ipotesi storiografica è ciò che distingue il D. da altri ricostruttori e classificatori; la distinzione è essenziale perché (trasposto in termini non devotiani) il D. pone una ipotesi "forte", e precisamente la reificazione storica del fenomeno della lingua: l'accaduto avvenimentale è necessario supporto di qualsiasi ipotesi linguistica (e genealogica), che pertanto non può essere solo linguistica. Ciò si collega, si inserisce nel fatto che della lingua il D. ha sempre sentito la storicità, non come il buio in cui tutto è nero e si confonde, ma come la dimensione in cui si deve trovare il limite esplicativo, non senza il tecnicismo o lo specifico linguistico, ma "dopo" e "oltre" il tecnicismo e lo specifico. Per il dato linguistico come "fonte di storia" il D. si è sempre battuto: per la storia, perché non si privasse di fonti alternative a quelle tradizionali; per la linguistica, perché non fosse relegata nel tecnicismo fine a se stesso.
Questa prima sezione, preistorica e protostorica, degli Antichi Italici subirà grosse modificazioni - fattuali, non metodologiche - nella seconda edizione (1951): questi cambiamenti sono il portato dei progressi scientifici negli studi sull'Italia antica e del formarsi di una nuova disciplina, l'etruscologia, che era stata formulata esplicitamente da M. Pallottino (anni Quaranta), ma per la quale il D. può essere considerato uno dei padri. La formulazione nell'edizione del 1951 contempla una tripartizione degli indeuropei in Italia (protolatini, "protoveneti", italici), che resiste, anche se modificata, nell'edizione del 1967; nella fase finale anche questa si dissolve in una nuova storicizzazione secondo il modello elaborato nel Profilo di storia linguistica italiana del 1953 ("tanti italiani quante le pievi"). Ad una critica a questa evoluzione il D. precisa (1972, Quanti Italici): "Ionon mi sono battuto perché i rami fossero due o tre invece di uno unico. Mi sono battuto contro la nozione dei rami. Dicendo "italico" in questo secondo senso, dò una definizione comune a quella massa di tradizioni indeuropee che dall'Oglio all'Adige o sulle teste di ponte del Medio Adriatico o della Puglia si sono assestate, di là irradiate per spazi amplissimi, indipendentemente dalla loro compattezza originaria e dalle affinità che hanno potuto più o meno salvare, e dai contatti che hanno potuto progressivamente stabilire, fino a quello di Roma".
Gli Antichi Italici sono stati discussi e rivisti specialmente per la prima parte, preistorica e protostorica, che costituisce meno di un terzo del libro. Èrimasta in ombra la seconda parte che rappresenta il primo tentativo di una storia italica non romana (e, vedendo a posteriori, non etrusca) secondo un desideratum (si veda, retrospettivamente, Storia italica, in Riv. ital. di filol. classica, 1969).
Così nel 1939 (ma datata 1940) esce la Storia della lingua di Roma: opera compiuta, organica, classica, dove è un fecondo crogiolo di realizzazioni e potenzialità. Oltre all'identificazione del latino come fatto romano, viene identificata nel latino una dimensione "sociolinguistica" (ante litteram): la quadruplice simmetrica partizione (p. 378) che discende da J. A. H. Murray (Old English Dictionary) può essere soggetta a critiche, ma è un caposaldo, una conquista rispetto a quanto precede, specialmente nel tentativo di offrire una spiegazione globale di quel fenomeno complesso e pluristratificato che è una lingua storica. Èstato criticato lo scarso peso dato alla lingua letteraria. Ma la critica non coglie il bersaglio; nel momento in cui era stata scritta l'opera era necessario rivendicare funzioni non letterarie del latino come lingua storica: se accettiamo la reductio a lingua letteraria, questo latino non è, quale lingua storica, una lingua nella completezza delle sue funzioni, di una lingua storica questo latino sarebbe al massimo una faccia, importante e storicamente eccezionale, ma una faccia.
È da porre qui - tra gli Antichi Italici e la Storia della lingua di Roma - la genesi delle Origini indeuropee del 1962; non solo come occasione biografica (indicazione del D. stesso) ma come clima scientifico. Le Origini hanno avuto accoglienze diverse ma, di massima, non adeguate alle aspettative del D., che riuniva qui - in un'opera che si presentava come summa di due filoni portanti della sua personalità - l'esigenza di storicità in generale e la questione indeuropea come problema storico di dati di lingua da storicizzare, in primis ricorrendo all'archeologia preistorica. In questa prospettiva è un libro che va considerato globalmente oltre alle realizzazioni o tesi singole; è la proposizione storiografica angolata dalla linguistica per fare storia dove non c'è storia o per trovare nuove fonti dove c'è storia. Come gli Antichi Italici erano stati l'occasione per individuare la lingua come storia e il "dato di lingua come fonte di storia", la Storia della lingua di Roma pone l'occasione di identificare la posizione della storia linguistica in rapporto alla storia globale; quanto di teorico al proposito è dato come Appendice sarà poi sviluppato in un volumetto autonomo (Ifondamenti della storia linguistica, Firenze 1951).
La fine del decennio in questione vede un D. che accanto ai normali interessi romanistici di un linguista di formazione italiana si accosta come linguista ai testi letterari: questa occasione, congiungendosi con il tema "storia linguistica", informerà il grosso della futura attività del D. fornendo insieme l'impianto teorico e l'occasione di applicazione all'italiano in tutti gli aspetti, fino a dove la lingua, tramite la coscienza della lingua, diventa tutt'uno con la coscienza civile e la moralità nazionale. Èlo stesso D. che descrive (in Scritti minori, I) lo sviluppo teorico degli anni Quaranta: "I motivi teorici, interni alla Storia della lingua di Roma, erano stati illustrati solo nell'appendice. Essi consistevano essenzialmente nella tesi della doppia polarità delle manifestazioni linguistiche, che nell'ambito di una stessa lingua sono ora letterarie e ora popolari, ora tecniche e ora usuali.
"Questi problemi furono approfonditi in un libro importante di Giovanni Nencioni, uno studioso che da allora in poi è stato sempre vicino a me, e così intensamente, proprio anche in queste pagine. Per suggerimento di colleghi argentini, nacquero alcuni anni dopo in italiano e in spagnolo i Fondamenti della storia linguistica nei quali la fedeltà alla distinzione tra "lingua" (collettiva) e "parola" (individuale) è corretta da due novità importanti: la stratificazione della "parola", rispettivamente "agrammaticale" "pre-grammaticale", "grammaticale"; la differenza soltanto quantitativa tra storicità risoluta della osservazione diacronica e quella, rallentata ma non soppressa, della osservazione sincronica. È una posizione non anti-strutturalista, ma solo fino a un certo punto strutturalista (o, almeno, strutturalista con giudizila), su cui dovrò ritornare".
A complemento è da dire che gli studi sulla lingua di autori italiani e stranieri (da s. Margherita a Gadda a Proust), raccolti negli Studi di stilistica (Firenze 1950), sono introdotti da un lungo capitolo teorico (ora anche in Scritti minori, III) che in parte anticipa, in parte completa in senso di lingua letteraria (nell'accezione del D., avulsa da giudizi estetici) i Fondamenti del 1951 (sulla tematica "storia linguistica - storia della lingua" si veda Varvaro, in Romance philology, XXVI, 1972).
Il mondo romanzo e specificamente italiano è dunque l'occasione di approfondire il senso della storicità della lingua che per il D. si identifica con l'essere della lingua stessa. L'approccio è tramite la "stilistica" che per il D., a differenza di Spitzer e, per opposte ragioni, di Bailly, consiste in una operazione differenziale tra la norma e le scelte degli autori, senza giudizi di valore letterario ma con giudizi di valore linguistico: quando la lingua di un autore si allontani dalla norma, e quanto di questo scarto abbia esiti nella comunità linguistica; la "stilistica" è un modo di storia linguistica per personaggi, potenziali creatori di lingua. È una concezione diacronica della lingua, che non nega la sincronia, ma che supera quello che nella sincronia è limite e deformazione, la staticità; la stilistica delle scelte è necessariamente diacronica nel senso che può esistere solo con un prima e un dopo, esattamente come l'economia (che il D. invoca spesso, fino a un parallelo tra leggi economiche e leggi linguistiche).
I pericoli insiti in questa concezione sono temperati dal concetto di "lingua come istituto". La lingua come istituto, naturale maturazione della stilistica delle scelte ad esito sociale, è il presupposto storiografico del Profilo di storia linguistica italiana (1953). "Dalla frantumazione della lingua latina, conseguenza del crollo di una unità politica e di una civiltà, il ricostituirsi di focolai culturali, di aggregazioni sociali e politiche, e il costituirsi di koinai linguistiche, fino al conseguimento di una nuova unità nazionale, a carattere culturale dapprima, finalmente politico e sociale, sono seguite con sagace contemperamento dei fattori esterni ed interni, collettivi ed individuali. Accanto ai singoli protagonisti del farsi della nostra lingua, accanto agli "eroi" fondatori, promotori, regolatori della letteraria e accademica lingua italiana, sono individuati eventi e fattori non letterari, quali vie, commerci, esigenze amministrative, guerre, emigrazioni, scuole, livelli sociali, il passaggio del potere a ceti diversi. Il principio che domina la visione di Devoto è che la lingua sia, come il diritto, institutio vitae communis, strumento di coesione sociale. Di qui il valore socialmente costruttivo che egli dà al rispetto della lingua comune, della norma grammaticale, financo al conservatorismo puristico, di contro alla "asocialità" delle ribellioni alla "forma" non già retorica, ma propriamente linguistica" (Nencioni, in Onoranze a G. D.).
Il Profilo, scritto di getto è forse inaspettato, ma non è un fiore nel deserto; dalla metà degli anni Trenta data l'interesse alla lingua nazionale; in ciò è da porre la fondazione di Lingua nostra (1939) col neopurista Bruno Migliorini; l'interesse alla lingua nazionale cresce col tempo fino ad assorbire praticamente tutta l'attività dell'ultimo Devoto. "Il Devoto italianista è quello che dà la norma agli altri, cioè li precede e li domina, se è vero che solo l'esperienza della lingua materna, vissuta dentro la società che la vive, può dare alla riflessione linguistica il senso di ciò che una lingua è nella pienezza delle sue forme comunicative ed espressive e nella sua identità stessa" (Nencioni, ibid.).
L'italiano gli offre il destro per la sua qualità fondamentale di lettore-esegeta di testi; in un clima di sintassi generativa e/o tipologica, cioè di sintassi formalizzata con modelli di analisi precostituiti e cogentemente "oggettivi", le Lezioni di sintassi prestrutturale (Firenze 1974, con "Bibliografia critica" di A. Nocentini) sono reazioni individuali (ma non impressionistiche) ad un solo libro, I promessi sposi. "Esso rispecchia la sostanziale assenza di ambizioni propria di questa ricerca, destinata ad illustrare tutto quello che è possibile ottenere, rinunciando a terminologie troppo specializzate, o ad astrazioni, o a schemi fondamentalmente precisi, ma staccati dalla realtà. Inoltre esso documenta una volontà di ripiegamento e ridimensionamento verso quanto è raggiungibile attraverso l'intelletto umano, non assistito da altro che le sue normali capacità, senza l'ausilio di strumenti o artifici, che permettano di vedere l'infinitamente piccolo o di penetrare nel profondo ... Neppure nel trattare temi di teoria grammaticale (richiamo i notissimi saggi sullo "aspetto" del verbo, sulle preposizioni, sul prefisso s in italiano) il D. si abbandona alla tentazione del formalizzare che poteva venirgli dalla disciplina più prossima, per tradizione secolare, alla grammatica: la logica; ché la logica moderna, per il rigore estremo dei suoi calcoli mentali, ha costruito propri codici simbolici, i quali con la stessa presenza dimostrano l'insufficienza della lingua naturale a quel genere di operazioni" (Nencioni, ibid.). Dopo lunga gestazione, le Lezioni di sintassi prestrutturale escono poco prima della morte, mentre postumo esce l'Itinerario stilistico (Firenze 1975, con introduzione critico-bibliografica di G. A. Papini) che condensa i due precedenti volumi di scritti di stilistica (1952 e 1960), decurtati dalle sezioni teoriche (comparse in Scritti minori, III).
La grammatica per le scuole (Introduzione allagrammatica, Firenze 1941) si poneva su basi sintattiche e contrastive (ante litteram, tra latino e italiano): insieme con la grammatica di Bruno Migliorini, la linguistica militante entrava nella scuola. Parimenti tra militanza accademica e scolastica è la serie di saggi raccolti poi come Dizionari di ieri e di domani (Firenze 1946). Lo sbocco pratico doveva essere nei due volumi del Vocabolario illustrato della lingua italiana (in collaborazione con G. C. Oli) che, nella riduzione scolastica, ha avuto fortuna: se a monte vi è quella miniera che è il Dizionario enciclopedico italiano, dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, non è meno vero che la materia vi è rinnovata e concentrata ("personalizzata", come annota Nencioni).
Contemporaneamente, quasi sezione staccata, esce il dizionario etimologico Avviamento all'etimologia italiana (Firenze 1967). Il culmine dell'attività lessicografica del D. è però la rifondazione del Vocabolario della Crusca (interrotto d'autorità nel 1923), fino ad assumere la presidenza dell'Accademia (1963). Ciò portava a "rifondarlo con una concezione nuova della lingua nazionale e della tecnica lessicografica ... Il nuovo vocabolario della Crusca sarebbe stato, secondo lui, la presa di coscienza che la nazione intera doveva fare dell'intera sua lingua, non di una parte di essa, come in passato; e perciò non la sola lingua letteraria, ma anche quella delle arti, dei mestieri, della scienza e della tecnologia doveva esservi documentata" (Nencioni, Onoranze a G. Devoto). L'avvio del vocabolario è anzitutto un impegno civile, lo stesso che aveva portato alla fondazione, con B. Migliorini, di Lingua nostra e al suo modo di intendere la normatività che si collega alla sua stilistica, la dinamica del farsi del linguaggio (si veda Lingua nostra del 1940): "Storicità, socialità, razionalità sono i tre cardini del pensiero di Devoto; sempre compresenti nel suo argomentare ... Ma la storicità diventa storicismo (o "neo-storicismo", come egli preferiva definirlo) laddove, osservando "il dialogo incessante fra l'individuo e le istituzioni della comunità linguistica cui appartiene", egli ne trae il senso della vita di un popolo per il passato e l'auspicio del suo destino per l'avvenire; come nelle "prospettive" che chiudono nel 1953 il Profilo di storia linguistica italiana, allorché vede i fattori costruttivi del travaglio postbellico nell'innesto di tradizioni locali sulla tradizione letteraria e nella ricerca di una "radice vivente" che saldi la struttura e la funzionalità misurata dell'istituto linguistico alle esigenze concrete dell'espressione e del suo ambientamento (Nencioni, ibid.).
Il linguaggio d'Italia (1974) era nato anni prima come sintesi in vista di una traduzione americana (uscita postuma) della triade Antichi Italici, Storia della lingua di Roma, Profilo di storia linguistica italiana. È una occasione per proporre alcune correzioni, specialmente nella prima parte (preistoria e Italia preromana), ma, più, di ripercorrere la millenaria storia linguistica d'Italia con sicuro occhio di storico, pacato nel dettato ma vibrante nel contenuto; lezione di storia della lunga durata (Folena, prefaz. a Illinguaggio d'Italia, 1974) prima ancora che di storia linguistica.
L'attività elzeviristica dell'ultimo D. ha dato origine - a partire dal 1965 con Civiltà di parole (Firenze) - a raccolte in titoli allusivi e pregnanti che confermano la presenza, l'impegno e il diritto civico a parlare di qualsiasi argomento, il connubio tra linguistica, storia ed etica. È una produzione varia, bisognosa in futuro di una qualificazione storica e storiografica oltre le recensioni e le menzioni in occasioni commemorative. Il D. era una personalità molto complessa e insieme molto semplice. Semplici erano le motivazioni di base: una formazione risorgimentale, con forte senso del dovere e insieme dell'ego, che portava ad intervenire sempre, dove era possibile, col pensiero trasposto in parola: "la mia estraneità - così scriveva - alla vita pubblica, e in particolare politica, è frutto, piuttosto che di delusione, di un inconscio amore di potenza, che mi rende straniero e non interessato a tutto quello che nella vita politica rappresenta rapporto di forza" (Scritti minori, I, p. 26). Questo diritto di intervento del giudizio spiega l'impostazione fortemente autobiografica di molta produzione devotiana, specialmente nell'ultima fase, a partire da Per una critica di me stesso del 1957 scritta in occasione dei sessanta anni e preposta a Scritti minori, I, e continuata nelle due postille per i settanta (ibid., II) e settantacinque (ibid., III) e nelle centinaia di elzeviri in questo torno di tempo.
Opere: Una "bibliografia essenziale" del D. è contenuta negli Scritti minori (rispettivamente: I, Firenze 1958, pp. XVII-XXIV; II, ibid. 1967, pp. XVII-XIX; III, ibid. 1972, pp. XVXVI); completa la bibliografia data in Arch. glottologico ital., LX (1975), p. 2 (dedicato alla sua memoria). I tre volumi di Scritti minori contengono i contributi più significativi, rispettivamente: I, Linguistica generale e indeuropea; II, Lingue d'Italia antica; III, Linguistica e dialettologia italiana. Altri lavori all'occasione sono stati rifusi in volumi: gli elzeviri - specialmente quelli pubblicati nei quotidiani La Nazione di Firenze e il Corriere della sera di Milano - sono pure stati raccolti in volumi.
Oltre ai lavori citati in testo, si ricordi: Grammatica italiana (con D. Massaro), Firenze 1952, 2 ediz. Lecce 1962; Altitalien, in Historiamundi, III, Berna 1954, pp. 357-399; Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962; La lingua italiana. Storia e problemi attuali, Torino 1968 (in collaborazione con M. L. Altieri Biagi); Civiltà di parole, Firenze 1969 (raccolta di elzeviri); Dizionario della lingua italiana, Firenze 1971 (con G. C. Oli); Ilmio compito, Milano-Napoli 1972 (raccolta di elzeviri); Gioco di forze, Vicenza 1972 (raccolta di elzeviri); Idialetti delle regioni d'Italia, Firenze 1972 (in collaborazione con G. Giacomelli); La parentesi. Quasi un diario, Firenze 1974; Preistoria e storia delle regioni d'Italia, Firenze 1974 (in collaborazione con G. Buti); Civiltà di persone, Firenze 1975; La lingua come sedimento e come responsabilità, in Atti e mem. dell'Accad. tosc. di scienze e lettere "La Colombaria", XI, (1974) pp. 1-31 (ultimo scritto del D., destinato ad essere letto il 27 dic. 1974come "Lezione" a cinquant'anni dalla prolusione del 1924).
Fonti e Bibl.: L. Caretti, La stilistica di D., in Letteratura (II1950), pp. 49-50;Id., Storia linguistica e storia letteraria, in Società, IV (1953), pp. 615-619;G. Giacomelli, Lingua e civiltà dell'Italia antica negli studi di G. D., in Atene e Roma, XIV (1969), pp. 1-8; C. A. Mastrelli, G. D., in Letteratura italiana. I critici, IV, Milano 1969, pp. 3147-3168; P. Ramat, Die italien. Sprachwissenschaft seit 1945, in Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft, Vorträge, V (1972); G. Gandini, Sul contributo di G. D. alla storiografia della lingua italiana, tesi di laurea, Università cattolica del Sacro Cuore, Milano, anno acc. 1972-73; G. Camporeale, Etruschi ed Italici negli scritti minori di G. D., in Studi etruschi, XLII (1974), pp. 113-122; L. Heilmann, Ricordando G. D., in Studi ital. di linguistica teorica e applicata, III (1974), pp. 525-548 (dallo stesso ripreso in Atene e Roma, XX [1976], pp. 113-134); P. Piovani, L'ultima lezione di G. D., in Atti dell'Acc. Pontaniana, XXIV (1975), pp. 75-81; G. Bonfante, G. D., in Acc. naz. dei Lincei, Celebrazioni Lincee 90, 1976; L. Caretti, D. tra lingua e stile, in Sul Novecento, Pisa 1976, pp. 242-244; Per G. D., Firenze 1976 (contributi di G. Pampaloni, C. A. Mastrelli, D. De Robertis, G. Contini, G. A. Papini, G. Nencioni); G. Giacomelli, L'Italia dialettale di G. Ascoli - L'Italia dialettale di G. D., in G. J. Ascoli. Attualità del suo pensiero a 150 anni dalla nascita, Firenze 1986, pp. 171-183;P. Ramat, G. D. (1898-1974). The man and his work, in Historiographia linguistica, IX (1982), 3, pp. 495-513; Onoranze a G. D. nel decimo anniversario della scomparsa, Borzonasca, 19 ott. 1984 (contributi di G. Spadolini, C. A. Mastrelli, E. De Felice, G. Nencioni, P. Scardigli) e Firenze, 26ott. 1984 (contributi di E. Garin, M. G. Arcamone, L. Bettini Fronzaroli. S. Bucca, G. Buti, E. De Felice, M. D'Elia, P. Fronzaroli, M. T. Gagliano Ademollo, A. Giacalone Ramat, C. A. Mastrelli, G. Mazzuoli Porru, A. Radicchi, P. Ramat, P. Scardigli, R. Stefanini, L. Agostiniani, S. Boscherini, G. Camporeale, G. Firpo, A. Mancini, A. L. Prosdocimi, M. L. Altieri Biagi, G. Giacomelli, A. Nocentini, O. Pollidori Castellani), in Atti e mem. dell'Acc. toscana di scienze e lettere "La Colombaria", LIII (1988), e Firenze 1988.