DE MARTINO, Giacomo
Nacque il 21 sett. 1849 a Londra da Giacomo, diplomatico del Regno delle Due Sicilie e da Amata Ehrenhoff.
Dopo alcuni anni di permanenza in Gran Bretagna, rientrò in Italia per compiervi i suoi studi. Disponendo inoltre di grandi mezzi finanziari (il padre, oltre che alto funzionario della monarchia borbonica, era anche impegnato in attività industriali), poté soddisfare il suo grande amore per i viaggi, recandosi in molti paesi europei ed extraeuropei. Due vanno ricordati in modo particolare: quelli in Eritrea e in India, perché rafforzeranno la sua passione coloniale e gli forniranno nozioni e insegnamenti che poi gli saranno utilissimi quando intraprenderà la carriera di amministratore di colonie. Ih India, ad esempio, soggiornò parecchio tempo per studiare le istituzioni amministrative di quell'immenso dominio britannico.
Tra un viaggio e l'altro, intanto, il D. aveva cominciato ad occuparsi di politica. Nel 1890 fu eletto deputato nel collegio di Napoli, elezione confermata per altre quattro legislature sino al 1904. Ebbe inoltre incarichi di governo: nel marzo 1896, subito dopo la disfatta di Adua, entrò a far parte del gabinetto di A. Starabba di Rudini come sottosegretario ai Lavori pubblici, mantenendo tale carica anche nei due successivi ministeri di Rudinì fino al 16 genn. 1898; nel 1901 fu sottosegretario agli Esteri, nel ministero Zanardelli, ma il suo mandato non durò che sei mesi (febbraio-3 agosto), poiché si dimise per insanabili contrasti con il titolare degli Esteri, G. Prinetti. Il 4 marzo 1905 fu infine nominato senatore per la categoria terza (deputati con più di tre legislature) e prestò giuramento il 23 dello stesso mese. Per le sue benemerenze gli fu anche conferito il titolo di conte.
La sua vera vocazione, però, non era la politica, anche se aveva dimostrato un notevole impegno e una indiscussa competenza in tutti gli incarichi che gli erano stati affidati. Predominante era, invece, l'interesse per lo sviluppo del colonialismo italiano in Africa, che in quegli anni, dopo la sconfitta di Adua, aveva più denigratori che sostenitori. Nel 1905 ritornò infatti in Eritrea, dove prese parte, ad Asmara, al primo congresso coloniale, e l'anno successivo fondò a Roma l'Istituto coloniale italiano, che sarebbe diventato, sotto la sua presidenza, l'organismo più efficiente per il rilancio degli ideali e delle rivendicazioni del colonialismo nostrano.
Per dare l'esempio e intanto indicare una delle vie dell'espansionismo italiano, nel 1907, in compagnia dell'ingegnere Dante Baldari, intraprese un lungo viaggio in Libia e Tunisia, i cui risultati raccolse nel libro Cirene e Cartagine (Bologna 1908).
Anticipando quello che poi avrebbero fatto giornalisti e scrittori nel 1911, alla vigilia dell'invasione della Libia, il D. accusò la Turchia di precludere l'accesso della Cirenaica agli Europei e di mantenerla nella "più completa barbarie". Dinanzi a questa situazione, il D. penso invece quale trasformazione il paese avrebbe potuto subire se l'Italia avesse potuto mandare i suoi coloni su "quella terra feracissima, robusta, di un bel rosso scuro, col sottosuolo ricco d'acqua". Con notevole esagerazione, vide stupendi e ubertosi giardini là dove c'erano soltanto la sabbia e la steppa, e, pur senza consigliare l'occupazione militare della Libia, spronò il governo italiano a completare quella preparazione diplomatica che avrebbe almeno consentito all'Italia di esercitare un ruolo preminente in campo economico nel paese africano così male amministrato dalla Sublime Porta.
Dopo il viaggio in Libia le dedicò, tra il 1908 e il 1911, numerosi articoli di carattere politico ed economico. Ma anche se aveva additato la Libia come una meta irrinunciabile all'attenzione dell'opinione pubblica italiana, non toccò al D. di partecipare alla sua conquista quando Giolitti, soggiogato dalla "fatalità storica", vi mandò nell'ottobre del 1911 un ingente corpo di spedizione. Da più di un anno era stato infatti inviato, per i suoi meriti coloniali, a governare la Somalia, la più povera e remota fra le colonie italiane, e per di più ancora quasi tutta da occupare.
Coadiuvato da eccellenti funzionari come I. Gasparini, R. Piacentini e U. Ferrandi e dall'ottimo comandante delle truppe, colonnello V. Alfieri, il D. riuscì a conseguire, durante i sei anni del suo governatorato, tre obiettivi essenziali: l'occupazione della Somalia meridionale (o Benadir) sin quasi ai confini con l'Etiopia; la pacificazione del paese attraverso una paziente e progressiva penetrazione politica; l'avvaloramento della colonia, grazie alla creazione di un primo assetto amministrativo e a un vasto programma di lavori pubblici, soprattutto per migliorare la ricettività dei porti, per dare al paese una prima, anche se modesta, rete stradale e per collegare Mogadiscio all'Italia con una potente stazione radiotelegrafica. Non affrontò invece il problema dei protettorati della Somalia settentrionale, che godevano di una eccessiva autonomia. La rinuncia ad occupare militarmente i sultanati di Obbia, di Migiurtinia e il Nogal fu dettata al D. da un indubbio buon senso e dalla esatta valutazione dei pericoli che avrebbe incontrato. Scrisse, infatti, nella sua relazione La Somalia italiana nei tre anni del mio governo, Roma 1912: "L'occupazione militare non potrebbe in modo alcuno compensare gli ingenti sacrifici da incontrare. Altra politica non saprei vedere né consigliare, se l'Italia non vuole correre sulla china delle avventure" (p.44).
In seguito alla pacificazione del Benadir, il D. poté anche riordinare il settore agricolo della colonia su basi giuridicamente nuove e scientificamente più solide. In questo settore egli si valse dell'esperienza di Romolo Onor, un agronomo di eccezionali capacità, il quale aveva creato a Genale, lungo l'Uebi Scebeli, un campo sperimentale e aveva compiuto un inventario delle terre disponibili e coltivabili nel paese. Ben presto, però, tra i due uomini si stabilì un insanabile antagonismo. Onor esprimeva infatti un giudizio sostanzialmente negativo sul futuro agricolo della colonia, un giudizio che contrastava nettamente con l'ottimismo senza limiti dell'impaziente governatore. Onor, tra l'altro, era contrario al piano del D. di favorire l'insediamento di coloni italiani in Somalia e suggeriva, al contrario, di affidare la colonizzazione del paese esclusivamente agli indigeni. Angosciato per i contrasti e le incomprensioni, Onor finì per togliersi la vita sparandosi un colpo di rivoltella.
Dopo la positiva esperienza in Somalia, il 16 sett. 1916 il D. fu chiamato a ricoprire l'ancora più ambito incarico di governatore dell'Eritrea. Ma egli giunse nella colonia "primogenita" in piena guerra mondiale e si trovò ad affrontare problemi di particolare gravità. Non soltanto l'Eritrea era sotto la continua minaccia di incursioni turche e tedesche, ma doveva anche fronteggiare una possibile invasione da parte dell'Etiopia, dove il giovane imperatore Ligg Jasu, favorevole agli Imperi centrali, era stato detronizzato e sconfitto in battaglia dal deggiac Tafari Maconnen, ma ancora non si era arreso e costituiva una minaccia permanente. Con appena 10.000 ascari eritrei il D. riuscì a salvaguardare le frontiere della colonia, ma questa continua tensione e la mancanza di finanziamenti gli impedirono di portare a termine il già modesto programma di opere civili, che comprendeva anche il completamento della ferrovia da Asmara verso i confini del Sudan.
Dopo la fine della guerra, il 1º luglio 1919 il D. lasciò l'Eritrea per assumere, ventotto giorni dopo, un altro incarico difficile e delicato, quello di governare la Cirenaica. In questa colonia, a differenza che in Tripolitania, non si era sparato un solo colpo di fucile durante il conflitto mondiale e ciò perché l'Italia aveva potuto concludere con Mohammed Idris, capo della Confraternita senussita e virtuale padrone del paese, il modus vivendi diAcroma. Ma, appena finita la guerra, il gran senusso aveva chiesto a Roma che fossero sistemate in maniera definitiva tutte le questioni lasciate in sospeso dagli accordi di Acroma. Così, al suo giungere a Bengasi, il D. si trovò subito a dover affrontare un problema estremamente arduo, che non offriva che due soluzioni: quella di abrogare il modus vivendi di Acroma ed iniziare una vigorosa campagna militare per occupare l'intero paese (gli Italiani, a quel tempo, non presidiavano che una modesta fascia costiera), oppure quella di trasformare il compromesso di Acroma in un autentico e solido patto concedendo nello stesso tempo agli abitanti della Cirenaica uno statuto liberale, così come era stato fatto per la Tripolitania.
Nonostante subisse non poche pressioni perché adottasse la maniera forte, il governatore scelse invece la strada delle trattative e della pace e il 25 ott. 1920 concluse con il gran senusso l'accordo di er-Règima, che gli consentì, tra l'altro, di ridurre le forze militari presenti in Cirenaica da 30.000 a 10.000 uomini, con un enorme risparmio per l'Erario.
In base al nuovo accordo, fu riconosciuta all'Italia la diretta sovranità sulla costa e sull'altipiano, mentre sulle oasi e tutta la regione predesertica e desertica la sovranità era soltanto indiretta, in quanto il governo di Roma aveva affidato a Mohammed Idris l'"amministrazione autonoma" di questi territori. In cambio del riconoscimento della sovranità italiana, il gran senusso ottenne notevoli benefici economici, grandi onori e l'ambitissimo titolo di emiro. A sua volta Mohammed Idris si impegnò a sciogliere i campi militari e ogni altra organizzazione politica, amministrativa e militare nei territori non di pertinenza della sua amministrazione.
Grazie all'accordo di er-Règima e alla collaborazione della Senussia, fu così possibile indire le elezioni in Cirenaica e il 30 apr. 1921, alla presenza del principe di Udine, in rappresentanza di re Vittorio Emanuele III, fu inaugurato a Bengasi il primo Parlamento cirenaico. Va sottolineato.1 a questo punto, che tanto l'esperimento democratico quanto l'azione conciliativa con la Senussia furono portati avanti dal D. con grande coraggio ed innegabile costanza, in mezzo all'avvicendarsi turbinoso dei titolari del ministero delle Colonie e alle loro disposizioni spesso contraddittorie. Successivamente, poiché l'accordo di er-Règima non era stato pienamente rispettato dal gran senusso, il quale, a sua volta, doveva fronteggiare l'ala intransigente della Senussia, che aveva accettato a malincuore la sovranità italiana sulla Cirenaica, il D. continuò a seguire le vie pacifiche giungendo, il 29 ott. 1921, a firmare un nuovo accordo, quello di Bu Mariam, che introduceva il regime transitorio dei "campi misti" italo-senussiti.
Ancora una volta aveva evitato la guerra perseguendo lealmente e ostinatamente il suo programma di pace, nonostante le critiche, soprattutto dei fascisti, che in Italia si preparavano a conquistare il potere. Ma egli non poté raccogliere i frutti del suo operato e neppure difenderlo perché nel novembre, mentre partecipava all'inaugurazione della strada Bengasi-Merg, una delle tante che aveva fatto costruire nel paese, contrasse una polmonite e il 23 nov. 1921 si spense a Bengasi.
Dopo la sua scomparsa, l'accordo con il gran senusso entrò in crisi e quando Mussolini andò al governo ogni idea di compromesso con la Senussia fu scartata e si imboccò decisamente la strada della guerra, una guerra condotta con metodi spietati e che sarebbe durata dieci anni sino alla totale liquidazione della resistenza armata cirenaica.
Oltre a quelle già citate si ricordano ancora le seguenti opere del D.: Le concessioni fondiarie e l'organizzazione del Benadir, Roma 1909; Relazione sulla Somalia italiana per l'anno 1910, ibid. 1910-1911; La Somalia nostra, Bergamo 1913.
Fonti e Bibl.: E. Queirolo, Il conte G. D. e la sua opera in Cirenaica, in Nuova Antologia, 16 genn. 1922, pp. 173 ss.; G. Corni, Somalia italiana, II, Milano 1937, ad Indicem;A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, I, Roma-Bari 1976, ad Indicem;Id., Gli Italiani in Libia, I, Roma-Bari 1986, ad Indicem.