DE FRANCHI, Giacomo
Nacque a Genova nel 1590 da Federico De Franchi Toso, doge nel 1623-25, e da Maddalena fu Gerolamo Durazzo. La potenza politica ed economica della famiglia (una delle più cospicue della cosiddetta nobiltà "nuova"), la ottima formazione culturale (compì in gioventù studi letterari che lo misero in grado di stilare orazioni apprezzate tra i retori del tempo), il carattere, che tutte le fonti descrivono risoluto e fiero, fecero del D. un protagonista della vita politica genovese, vivace nel suscitare ammirazione e inimicizie. Ma al di là dell'efficiente durezza che sempre dimostrò nella risoluzione dei problemi che a mano a mano gli si posero nella sua intensa carriera, per il D. (come per la maggior parte dei nobili della sua generazione, nata dopo i grandi conflitti sociopolitici del secolo XVI), risulta meno definita la collocazione politico ideologica. Probabilmente, seguendo la tradizione familiare, fu assertore di una politica di neutralità autentica, equidistante cioè da Spagna e Francia. Di conseguenza, contrario alle posizioni filospagnole della nobiltà assentista, di cui non condivideva gli interessi, fu favorevole alla politica del riarmo marittimo. Inoltre la sua linea repubblicano aristocratica di rigore nella applicazione delle leggi esistenti sembra ricalcare le posizioni del suocero, Alessandro Giustiniani, doge dal 1611 al 1613.
Il D. ricoprì il primo incarico di rappresentanza a 25 anni, quando, insieme con un altro giovane nobile, Cesare Durazzo (con cui, anni dopo, avrebbe avuto motivo di screzio), fu inviato ad incontrare al largo di Genova l'ammiraglio della flotta francese per accompagnarlo in città. Quindi, tra il 1615 e il 1620, venne più volte assegnato al magistrato dei Rotti (o fallimenti). Nel 1620 fu eletto al magistrato degli Straordinari, con funzione di giurisdizione civile e, l'anno successivo, capitano della città e tra i conservatori del Mare. Nel 1622, eletto capitano di Rapallo, rinunciò adducendo motivi di salute; ma l'anno dopo vi si trasferì con la carica di sindacatore, mentre il padre veniva eletto doge. La guerra, mossa a Genova dal duca di Savoia, alleato del re di Francia (nel quadro della guerra dei Trent'anni), fece richiamare il D. a Genova. Il magistrato di Guerra straordinario, formato e presieduto dal padre, allora doge, nominò trenta capitani tra i giovani delle varie famiglie nobili, con l'incarico di far leva di soldati e di provvedere alla difesa della città, assediata per mare e per terra. Il D. fu uno di loro. Contemporaneamente, tra il 1623 e il 1624, eletto padre del Comune, diresse in porto i lavori di ricostruzione del molo vecchio, che era fortemente deteriorato dall'azione delle acque: una lapide, incastrata nelle pareti, rimase a testimoniarne la zelante operosità. Alla fine del 1625, dopo che Genova fu liberata dal blocco navale, il D. venne inviato in Corsica come commissario straordinario insieme a Giovanni Andrea Gentile, per mantenere sotto controllo la situazione nell'isola, che Carlo Emanuele aveva cercato di coinvolgere nella guerra appena conclusa. Nel 1628, riapertesi le ostilità franco-spagnole per la seconda guerra di Mantova e Monferrato, il D. fu nominato capitano e commissario della città di Sarzana. L'anno successivo, ritornato a Genova, fu eletto preside della Sanità, mentre dilagava anche in Liguria l'epidemia di peste. Dopo pochi mesi, spento il contagio, nel 1630 il D. venne inviato a Savona come governatore, per riorganizzare e riattivare l'economia della città (porto e commerci), dopo la destabilizzante esperienza della peste.
La missione del D., apertasi con la sua partecipazione e offerte votive alla solenne processione di ringraziamento per la fine del contagio al santuario della Madonna di misericordia, ebbe concrete realizzazioni, specie in materia fiscale: ridusse alla somma di 60.000 lire una tantum le pesanti tasse che la Repubblica aveva imposto alla città in occasione della guerra del '25. Tale provvedimento era dettato al governo centrale non solo dalle oggettive necessità di ripresa economica della città, ma dal timore che guerre e recenti congiure filosabaude esercitassero in Savona più consistenti suggestioni in favore del Piemonte.Ritornato a Genova nel 1632, il D. venne eletto priore del magistrato dei Poveri, proseguendo anche in questo campo l'opera del padre, e nel magistrato di Banchi; nel 1633 commissario generale contro i Banditi. Nello stesso 1633, il 4 agosto, il Senato lo elesse ambasciatore ordinario al re di Spagna.
Le istruzioni, in data 12 maggio 1634, ricalcano in buona parte quelle date il 18 sett. 1630 al predecessore del D., Giovan Francesco Lomellini, e, come quelle, hanno il loro fulcro nelle rivendicazioni genovesi sul marchesato del Finale e sul monopolio del sale in quel territorio: tali rivendicazioni, nonostante il trattato di Madrid del 5 luglio 1633, costituivano uno dei nodi da risolvere tra la Repubblica di Genova e il duca di Savoia, e nelle annose trattative il re di Spagna Filippo IV fungeva da mediatore poco sollecito. Oltre alle norme protocollari sull'alloggio in Madrid (al D. è fatto obbligo di mantenere a sue spese venti persone al seguito e due carrozze), sulle prime udienze al re, alla regina, agli infanti e al principali ministri (specie al conte duca d'Olivares), le istruzioni trattano minuziosamente altri problemi ritenuti allora di grande importanza giuridica, quali la questione delle precedenze sugli ambasciatori delle altre nazioni e le trattative svolte dalla Repubblica presso le altre potenze per aver riconoscimento del titolo di Serenissima. Le istruzioni affrontano anche i problemi di un eventuale acquisto di Aulla, Bibola e Montevedai, del servizio delle galee genovesi per la Spagna, dell'aumento dei dazi sulle merci nel porto di Barcellona, che era giudicato assai pregiudizievole al commercio genovese; esse ricordano il divieto d'ingresso nel porto di Genova alle galee spagnole con soldati a bordo e la reiterata concessione di sbarco di truppe spagnole nei vari porti liguri, compresa la spiaggia di Voltri, nonostante le spiacevoli reazioni internazionali subite da Genova per queste concessioni. Infine recano due allegati: una relazione sulle somme che dal 1625 la Repubblica ha pagato per la soldatesca concessa dal re spagnolo per la difesa della città e un memoriale sulla pratica del sale, in cui sono esposti le ragioni del diritto della Repubblica e del Banco di S. Giorgio al monopolio nello Stato del Finale.
Il D., partito con due galee messe a disposizione della Repubblica, arrivò a Barcellona il 27 maggio 1634, a Madrid il 22 luglio e presentò le credenziali a Filippo IV il 19 agosto.
Risale al periodo del suo arrivo a Madrid lo screzio con Cesare Durazzo, che era stato inviato nel marzo 1634 come ambasciatore straordinario per ottenere da Filippo il divieto al vicerè di Napoli di trattenere le terze fiscali spettanti ai cittadini genovesi. Secondo gli ordini ricevuti, il Durazzo era stato ospite dell'ambasciatore ordinario. Dopo la partenza del Lomellini, il Durazzo, avuta notizia dell'arrivo a Barcellona del D., si era fermato a Madrid, disponendo di casa e carrozza del Lomellini, in attesa di trasferirsi dal De Franchi. Ma questi, preso alloggio in Madrid, ricusò di ospitarlo, provocandone le rimostranze. Ciononostante il Durazzo si offrì di presentare il D. a corte, mantenendo il diritto alla precedenza, d'uso per gli ambasciatori straordinari. Ma il D. oppose un altro rifiuto, rivendicando a sé la precedenza come maggiore di età. Il Durazzo, per evitare che il loro screzio desse adito a pericolose illazioni nell'ambiente della corte spagnola, preferì cedere, ricorrendo ad una diplomatica procedura d'emergenza. L'episodio, anche se pienamente giustificato dai codici comportamentistici del '600, suscita il sospetto di più consistenti ragioni di dissidio personale e politico tra i due nobili, anche perché la congiuntura storica appare, particolarmente delicata per la Repubblica.
La rottura in guerra aperta del contrasto franco-asburgico nel 1635 rende più tesi anche i rapporti diplomatici con la Spagna, da cui Genova tende a prendere le distanze, magari strumentalizzando episodi marginali. Con lettera del 10 genn. 1635 il governo della Repubblica, nell'informare il D. delle minacce di ritorsione ricevute dai ministri spagnoli, e sopra tutto dal governatore di Milano e dal viceré di Napoli, a causa della cattura di Filippo Spinola (che, arrestato per reati contro magistrature e autorità militari della Repubblica, aveva cercato di sottrarsi alla punizione facendo valere il proprio grado di maestro di campo di Sua Maestà Cattolica), lo incarica di farsi portavoce alla corte spagnola di una dichiarazione che è una delle più fiere affermazioni di indipendenza e sovranità. Della cresciuta tensione tra Genova e Madrid il D. dovette certo sentire le conseguenze, tanto che gli uomini della sua scorta furono più volte assaliti e picchiati. Nel 1637 il D. rientrava a Genova, dopo essersi incontrato il 25 agosto a Barcellona con l'ambasciatore straordinario Luca Giustiniani, che aveva poi modo di lamentare di non aver ricevuto dal D. alcuna indicazione sulla situazione delle varie pratiche.
Dopo il ritorno a Genova, sembra che il D. per qualche tempo non abbia ricoperto cariche particolari; poi, nel 1640, fu eletto conservatore delle Leggi, nel 1644 deputato alle Finanze, nel 1645 contemporaneamente ai Cambi e pacificatore. Nel 1646, durante una fase di carestia, fece parte di una deputazione incaricata di provvedere al "sostentamento dei poveri". Nello stesso anno, il 23 giugno, venne incaricato con Francesco Garbarino di ricevere l'ambasciatore spagnolo a Roma, di passaggio da Genova. Sempre nel 1646 fallì l'elezione a doge, in cui già gli era rivale il fratello Gerolamo: entrambi ottennero lo stesso numero di voti (153), ma per sei voti di vantaggio fu eletto Luca Giustiniani. Alla successiva elezione, la rivalità tra i due fratelli divenne di dominio pubblico; il 1° ag. 1648 il D. ebbe la meglio, con 172 voti contro i 165 di Gerolamo, che, nonostante fosse maggiore di età, dovrà attendere ancora qualche anno per essere eletto a sua volta (un certo disaccordo tra i due sarà confermato anche dal testamento di Gerolamo, che lascia elargizioni a Federico, figlio dell'altro fratello Cesare, e non ai figli del De Franchi).
L'incoronazione si tenne quasi dieci mesi dopo: il 1° maggio 1649 il D. ricevette la benedizione dell'arcivescovo Durazzo. Le orazioni celebrative furono tenute in palazzo ducale da Bendinelli Sauli e in duomo dal padre somasco Carlo Agostino Langueglia: nessuna delle due venne data alle stampe.
Il D. gestì il proprio dogato con una energia gelosa delle prerogative istituzionali, ma forse anche con un personalismo che gli procurò scontri personali e politici. La storiografia dell'epoca tende a ridurre a reciproca intolleranza personale anche l'episodio più clamoroso: quello della "congiura" di Stefano Raggi.
Il Raggi, con Ottaviano Sauli e Tobia Pallavicini, poi suoi accusatori, aveva fatto parte di un gruppo di nobili vicino a Giovan Paolo Balbi, protagonista di una congiura filofrancese nel 1648. Questo gruppo era l'espressione, più che di un autentico "partito di Francia", del riacutizzarsi di vecchie e nuove rivalità tra le famiglie nobili, specie sul problema delle nuove ascrizioni. Una lettera del Balbi aveva comunque compromesso il Raggi, che venne accusato dal Sauli di aver progettato l'uccisione del D. e di tutta la nobiltà riunita in piazza Sarzano per la processione del Corpus Domini. L'enormità dell'accusa spinse il Raggi, messo agli arresti il 28 giugno 1650, a suicidarsi in carcere. Il D. stesso ha lasciato il resoconto della morte del suo attentatore in due lettere inviate a Giovan Battista Lazagna, rappresentante di Genova a Roma. Nella prima, datata 1° luglio, lo rassicura della ritrovata quiete dopo la cattura del Raggi e del figlio di lui Giacomo; nella seconda, dell'8 luglio, racconta del "tentato" suicidio del Raggi effettuato con un rasoio, delle "cure" praticategli per tenerlo "vivo" durante il processo per direttissima che, riconosciutolo reo di lesa maestà, lo condannava all'impiccagione (oltre a bando per i figli, confisca dei beni, distruzione delle case ed erezione di una colonna infame). Il 7 luglio il cadavere dell'impiccato fu esposto al pubblico.
D'altra parte, il duro comportamento nei confronti del "filofrancese" Raggi forse voleva anche rassicurare la Spagna, sempre più irritata nei confronti della Repubblica, che si mostrava sempre più insofferente. L'anno precedente proprio il D. aveva dovuto affrontare un grave incidente diplomatico con la Spagna, che costò per rappresaglia la perdita di Pontremoli.
Il fatto che il capitano di Pieve di Teco avesse concesso il passaggio a truppe sabaude provocò vivissime rimostranze e minacce dell'ambasciatore spagnolo. Il D., d'accordo coi Collegi, spedì truppe genovesi a Teco e richiamò a Genova il capitano. Poiché tali misure furono giudicate insufficienti dalla Spagna, il D., pur sottolineando sotto il profilo giuridico la distinzione di responsabilità, replicò rivendicando la piena sovranità della Repubblica con una durezza che apparve provocatoria a Madrid. Il conte de Fuentes, governatore di Milano, interruppe le trattative di vendita del Pontremolese, avviate con Genova, e, per ordine di S. Maestà Cattolica, la cedette al granduca di Toscana.
La difesa della sovranità della Repubblica sembra guidare tutta l'azione del doge. Anche nei contrasti con la Chiesa, il D. ispira a principî giurisdizionalisti la propria condotta.
Dal 1644 l'archidiocesi di Genova era tornata sotto la guida del "teocratico" Stefano Durazzo, la cui forte personalità aveva già creato problemi politici, tanto che il pontefice lo aveva allontanato per un certo periodo da Genova pur conservandogli la sede. Il D. non solo intervenne personalmente presso la S. Sede, o fece intervenire il Lazagna, per denunziare gli abusi commessi dal cardinale in materia di giurisdizione civile, ma si spinse a censurare in lettere ufficiali le scomuniche impartite dal Durazzo a membri dell'aristocrazia. Per tutta l'estate del 1649 insistette presso il pontefice per ottenere un definitivo allontanamento dell'arcivescovo da Genova.
Il D. concluse il suo dogato il 1°ag. 1650, pronunciando una orazione giudicata assai elegante e con un congedo di effetto. Alla fine della cerimonia ufficiale, fece introdurre nei Collegi riuniti Ottaviano Sauli. Dopo averne tessuto l'elogio per aver salvato la Repubblica e la sua persona dalla congiura del Raggi, gli offrì in premio una pensione annua e l'esenzione perpetua dalle gabelle: offerte prontamente ricusate dal Sauli, che si dichiarò pago del dovere compiuto. Nominato secondo la prassi, procuratore perpetuo, il D., dopo il 1650, si occupò dei rapporti finanziari tra lo Stato e il Banco di S. Giorgio. Nel 1657, scoppiata un'altra tremenda epidemia di peste, come commissario della Sanità si prodigò con l'abituale energia nella organizzazione delle misure pubbliche. Nello stesso anno, morì di contagio.
Venne sepolto in S. Francesco di Castelletto, con gli altri dogi della sua famiglia. Dalla moglie Maria, figlia di Alessandro Giustiniani, aveva avuto tre figli: Livia, che sposò Giovan Stefano Pallavicini; Federico, che sposò Battistina Ariolo; Settimia, moglie di Giulio Spinola marchese di Arquata.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, ms. 495, c. 151; Istruzioni e relaz. degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, Roma 1951, II, pp. 320, 324, 350, 359, 363, 368, 371; III, pp. 58, 62, 73; IV, pp. 193, 251; Saggi cronologici, Genova 1743, p. 27; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, VI, pp. 8, 17, 21; L. Levati, I dogi biennali della Repubblica di Genova dal 1528 al 1699, Genova 1930, pp. 111-122 (con bibl.); V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti d. Soc. ligure di st. patria, LXIII (1934), p. 176 (con fonti di archivio); Id., Breviario della st. di Genova, Genova 1955, p. 273.