GIACOMO da Piacenza (Iacopo Piacentino)
Nacque a Piacenza probabilmente nell'ultimo decennio del XIII secolo da un non meglio identificato Giovanni il cui nome si ricava dalla presenza del patronimico nelle sottoscrizioni degli atti rogati da Giacomo. Le notizie su G. - da identificare, secondo L. Simeoni (1931), con "Iacobinus de Placentia" di S. Salvatore - sono numerose a partire dal 1317 quando egli, che già da qualche tempo si trovava a Venezia, divenne notaio ducale. Nel 1319 il Maggior Consiglio deliberava di impiegarlo nella Curia maggiore con un salario adeguato al mantenimento della sua famiglia. All'epoca quindi G. aveva già moglie - forse una certa Armerenda - e figli, due dei quali sono stati identificati col notaio ducale Pietro e con Gabriele, rettore delle scuole di S. Fosca. Negli anni seguenti e fino al 1339 G. compare di frequente negli atti delle istituzioni veneziane sia in veste di scrittore della documentazione sia in quella di testimone; egli inoltre fu utilizzato in alcune ambascerie tra cui spiccano quelle inviate ai Carraresi e una missione che lo vide in Sicilia nel 1335.
La carriera pubblica di G. si concluse nel 1340 quando egli fu processato e condannato per aver accettato cospicue somme di denaro durante l'adempimento dei propri uffici. Il procedimento iniziò in seguito alla scoperta di una somma che G. ricevette dai da Camino per favorirli in una disputa con il vescovo di Ceneda (ora Vittorio Veneto); ma durante il processo emersero episodi analoghi e più gravi, tra i quali quello relativo alla grossa somma che G. accettò da Mastino Della Scala durante le trattative che portarono alla pace che concluse la guerra veneto-scaligera. Riconosciuto colpevole, G. fu allontanato dalla Cancelleria e costretto al pagamento di una penale; tuttavia non gli fu interdetto l'ufficio del notariato che continuò a esercitare fino al 1346.
Dopo questa data non si hanno altre notizie di G.; sembra però lecito identificarlo con un Iacopo di Piacenza, rettore delle scuole di S. Pantaleone, ucciso in una rissa nel 1349.
Il nome di G. è legato a una cronaca (Bellum Venetum Scaligerum) che costituisce il puntuale resoconto delle vicende della guerra condotta da Venezia e Firenze alleate contro gli Scaligeri dal 1336 al 1339, che si riallaccia alla produzione storiografica veneziana del Trecento caratterizzata dalla presenza di alcuni "notai-cronisti" provenienti dalle città padane che svolsero la loro attività nella Cancelleria della Serenissima, come Bonincontro dei Bovi, Castellano da Bassano, Rafaino Caresini e, appunto, Giacomo da Piacenza.
Lo scritto è introdotto da un denso prologo in cui G. espone i fondamenti del proprio lavoro storiografico. In primo luogo egli richiama l'autorità del doge Francesco Dandolo e, riproponendo una prassi che ebbe una certa diffusione durante quel dogado, gli dedica lo scritto. In seconda battuta ricorda il proprio lungo impegno negli uffici veneziani e soprattutto il rilievo delle mansioni di pubblico notaio ricoperte durante tutte le fasi della guerra veneto-scaligera. Questo è il momento centrale del prologo poiché qui G. ha rivendicato il proprio diritto a raccontare in una cronaca la vicenda che lo ha avuto testimone privilegiato in quanto scrittore della documentazione ufficiale veneziana. L'impegno nella Cancelleria gli avrebbe permesso di seguire lo sviluppo dei fatti da un osservatorio particolare, mettendolo in grado di fornire un resoconto che superi la mera ricapitolazione di quanto si è svolto sotto gli occhi di tutti, per allargarsi a comprendere i retroscena. Per corroborare tale assunto, G. ha ritenuto di associare alla propria testimonianza quella del cancelliere grande Nicolò Pistorino, egli pure accuratamente informato sui fatti grazie all'ufficio ricoperto. A conclusione del prologo, G., richiamando in causa il Pistorino, pone l'accento sulla veridicità di quanto si appresta a narrare: la sua opera servirà a mantenere il ricordo del reale svolgimento dei fatti, impedendo che la tradizione orale lo deformi. Quest'ultimo passo svela una componente rilevante nell'economia dell'opera scritta per giustificare la condotta veneziana soprattutto durante le trattative che condussero alla pace separata con gli Scaligeri.
La cronaca si apre con una breve ricostruzione delle tappe dell'espansione scaligera che rese necessario l'intervento militare veneziano. Fedele al carattere monografico dell'opera, G. resiste alla tentazione di estendere il racconto includendo episodi che esulino dalla guerra veneto-scaligera, ma ben presto la materia gli prende la mano e il resoconto si dilata. La cronaca diviene così il puntuale e dettagliato racconto delle circostanze che portarono allo scontro, delle vicende belliche - in queste pagine G. dedica maggiore attenzione alle attività politiche che agli scontri militari - e soprattutto delle trattative che condussero alla pace. Egli si sofferma a descrivere con numerosi particolari gli episodi che si susseguono nella narrazione, riporta, sia attraverso l'uso del discorso diretto sia parafrasandoli, molti colloqui ufficiali e ufficiosi e dedica particolare attenzione a ricordare i nomi di un gran numero di personaggi, soprattutto aristocratici veneziani, che compaiono sulla scena.
Il Bellum fu composto a ridosso degli avvenimenti: è infatti poco probabile che G. si fosse messo all'opera dopo il 1340, quando era ormai caduto in disgrazia, e va ricordato che il Dandolo, cui l'opera è dedicata, morì nell'ottobre 1339; per il suo carattere analitico costituisce una fonte di grande rilievo per la ricostruzione del conflitto veneto-scaligero; tuttavia presenta anche numerose piccole inesattezze. Con ogni probabilità tali imprecisioni non sono dovute alla malafede di G., impegnato a difendere le ragioni di Venezia: più semplicemente, mentre ripercorreva una vicenda cui aveva effettivamente assistito da posizione privilegiata, G. non ha sentito la necessità di cercare conferme ai propri ricordi.
Il Bellum fu edito da L. Simeoni (in Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione veneta di storia patria, s. 4, V, Venezia 1931, pp. 29-138) sulla scorta di un unico manoscritto (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Zanettilat. 394 [=2021]), ritenuto erroneamente autografo dal Simeoni; l'opera non sembra aver goduto di circolazione autonoma: ignorata da Andrea Dandolo per la stesura della sua Chronicabrevis (in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XII, 1, pp. 351-373) in cui pure la guerra veneto-scaligera ha grande spazio, era nota all'anonimo compilatore della Venetiarum historia, attivo negli anni immediatamente seguenti l'esperienza del Dandolo, e fu utilizzata, all'inizio del XV secolo, dal cancelliere cretese Lorenzo De Monacis nel suo Chronicon de rebus Venetis (in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., VIII, Mediolani 1726, coll. 137-150).
Il manoscritto veneziano che conserva l'opera ne contiene anche una redazione in versi, dovuta sempre a G., giunta mutila (forse mai completata) che copre solo il 1346 (edita sempre dal Simeoni, ibid., pp. 141-185). Evidentemente per favorire la diffusione del proprio scritto G. ritenne di comporre una seconda versione: egli tentò in questo modo sia di assecondare i gusti letterari dei notai di Cancelleria, sia di ottenere il favore del pubblico veneziano che in quegli anni sembrava prediligere gli scritti storiografici in versi, come dimostrerebbe il favore incontrato dal poema di Castellano da Bassano Venetianae pacis inter Ecclesiam et Imperum libri duo (a cura di G. Monticolo - A. Segarizzi, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXII, 4, pp. 485-519) sulla pace di Venezia del 1177 che mise in ombra la cronaca di Bonincontro dei Bovi (ibid., pp. 370-411) da cui dipendeva. La stesura in versi dello scritto di G. non sembra aver goduto di particolare circolazione; tuttavia lo sforzo non fu del tutto vano se, come pare, proprio da questa versione attinse Lorenzo De Monacis.
Rispetto all'opera in prosa, la cronaca versificata presenta una rilevante differenza nel prologo dove è mantenuta la dedica al doge, ma non si ripropone più il legame tra scrittura storiografica e impegno negli uffici. Di conseguenza viene a mancare anche il richiamo all'autorità del cancelliere grande, sostituito dalla richiesta d'aiuto rivolta a un "Iohannes" che il Simeoni crede di poter identificare con Giovanni di Cassio rettore delle scuole di S. Moisè. Il testo prosegue poi sulla scia della prima versione, generalmente in forma più sintetica, ma con maggiori attenzioni allo svolgimento degli scontri militari, come implicavano i canoni dei componimenti storiografici in versi.
Fonti e Bibl.: Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 218 s.; L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero (1336-1339) e note sulla condotta della guerra (con appendice di documenti), in Studi su Verona nel Medioevo, III, Verona 1961, pp. 63-129; L. Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso e Venezia, in Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 153; G. Arnaldi, La Cancelleria ducale fra culto della "legalitas" e nuova cultura umanistica, in Storia di Venezia…, III, La formazione dello Stato patrizio, Roma 1997, p. 869; M. Zabbia, I notai e la cronachistica italiana nel Trecento, Roma 1999, pp. 213-224; Repert. fontium historiaeMedii Aevi, VI, pp. 129 s.