CAUCO (Cocco, Cocho, Coco), Giacomo (Iacopo)
Nacque a Venezia verso l’anno 1490 da Antonio e da Cecilia Giustiniani. Apparteneva ad una nobile famiglia veneziana, che era annoverata tra quelle patrizie al momento della serrata del Maggior Consiglio nel 1297. Iniziò fin da giovanissimo la carriera ecclesiastica, ottenendo nel 1505 il beneficio arcipretale di S. Maria di Albaredo in diocesi di Verona, che mantenne per tutta la vita. Nel 15 19 si trovava a Roma, dove iniziava la sua scalata curiale sotto la protezione del cardinale Giulio de’ Medici, divenendo protonotario apostolico. Viveva ancora a Roma nell’ottobre del 1526, quando la città fu assalita dai Colonnesi.
“Tra le prime case saccheggiate – scriveva Girolamo Negri a Marcantonio Micheli – fu quella del povero Messer Giacomo Cocco, il quale, oltre a tutta la roba, e denari, e la mula, che gli tolsero, lo tormentarono, perché si mettesse taglia, et erano per menarlo via prigione, se non sopraveniva un suo servitore con certi compagni compatrioti suoi, soldati de’ nimici, i quali fingendo aiutare a menarlo prigione, lo trafugarono in giubbone per mezo i nimici ...” (Lettere di principi, I, p. 91v).
In seguito a tale episodio il C. interessava il Senato veneto perché intervenisse, tramite l’ambasciatore a Roma, in suo favore presso il papa per ottenere un risarcimento per i danni subiti. La questione del risarcimento era probabilmente ancora pendente, quando il C. si trovò coinvolto nel Sacco di Roma del 1527, da cui riuscì a scampare dietro il pagamento di una taglia e sotto la protezione della marchesa di Mantova, Isabella d’Este, presso la quale si era rifugiato insieme con l’ambasciatore veneto, Domenico Venier. Dai drammatici episodi romani il C. derivò certamente quella ripugnanza a esporsi ai pericoli di guerra, che lo caratterizzerà anche in seguito nel suo soggiorno tridentino. Continuva intanto la sua ascesa nella carriera ecclesiastica: nel gennaio del 1522 aveva ottenuto un ricco canonicato a Padova, delle cui rendite però entrò in possesso solo nel 1525, a causa di una disputa con la Repubblica veneta, che gli aveva contrapposto un altro candidato, Girolamo Bollani. La disputa si risolse in favore del C. grazie alla mediazione del Bembo, che intervenne presso il nunzio pontificio a Venezia, Tommaso Campeggi; la mediazione fruttò al Bembo 200 ducati. Un’altra disputa con la Signoria di Venezia, ben più grave in quanto coinvolgeva l’intera politica giurisdizionalistica tradizionale della Repubblica, riguardò l’arcivescovato di Corfù, che il C. ottenne il 20 nov. 1528 da Cleemente VII, ma che era già stato dato nel 1527 da Venezia al primicerio di S. Marco, Girolamo Barbarigo.
La disputa si protrasse per ben cinque anni, e, tra l’altro, il C. ebbe a Venezia l’appoggio di Gasparo Contarini che, nell’aprile del 1530, riferendosi alla propria recente ambasceria romana lo lodava in Senato, “dicendo, questo protonotario Coco è degno prelato, nostro zentilhomo et cubiculario del papa, dal qual in questa soa legation lui ha auto da esso molti boni avisi...” (Sanuto, LIII, col. 126). Al Contarini obiettava Alvise Mocenigo, uno tra i più rigidi sostenitori della politica giurisdizionalistica di Venezia: “Se il Coco ci ha dà boni avisi, anche il Coco ha dà boni avisi al papa, che è suo cubiculario, perché l’haveva spesso lettere di Venetia, et di terra l’è stà alzà in cielo; l’ha ducati 1200 d’intrada. Messer Gaspare, avè promesso al papa; aponto per questo non se dia voler la parte, chè li oratori non pol prometter” (ibid.).
Soltanto il 12 luglio 1533 la disputa si concluse in favore del C., che poteva così prendere possesso della sua diocesi, facendovi una breve apparizione nello stesso anno.
Non resta traccia di un’attività del C. nella sua diocesi, dove del resto non risiedette mai, come doveva egli stesso ammettere nel 1546, cercando invano di ottenere la diocesi di Ceneda rimasta vacante. Scriveva infatti il cardinal Cervini, nel raccomandarlo, che il C. la desiderava “non per conto dell’entrata... che... c’è poca differentia, ma solo per poter resedere, il che mostra non poter fare in Corfù” (lettera al cardinale camerario del 6 ott. 1546, in Concilium Tridentinum, X, p. 687 n. 6). La lettera riflette in modo evidente come ormai, nel clima conciliare, anche personalità lontane da interessi autenticamente religiosi come il C. sentissero il bisogno di mostrarsi sensibili al problema della residenza, anche se poi si servivano di tale argomento per interessi assai più concreti.
Nel 1543 il C. partecipò alla prima sessione del concilio di Trento. Una grave malattia contrattavigli fece concepire una viva avversione per quella città, così da renderlo uno dei più intransigenti sostenitori del trasferimento o della sospensione del concilio. Segnata da notevoli intemperanze provocate dal costante desiderio di lasciare Trento fu, infatti, la sua partecipazione alla seconda sessione del concilio.
Come per molti altri vescovi italiani, la sua partenza per Trento era avvenuta solo in seguito alle vive sollecitazioni di Roma. Il suo nome risulta, infatti, in un elenco attribuito a Tommaso Campeggi (Concilium Tridentinum, X, p. 11 n. 6) di prelati scelti per le loro capacità teologiche o per la loro fedeltà alla Santa Sede, come era il caso del C., elenco inviato da Roma al nunzio a Venezia, Giovanni della Casa, perché ne sollecitasse la partenza per Trento. Tuttavia il C., dopo una breve comparsa a Trento nella primavera del 1545, non si decise a lasciare gli agi veneziani che nella primavera successiva.
La sua partecipazione ai lavori del concilio fu di scarsissimo valore dottrinale: nella discussione sulla dottrina della giustificazione (luglio-agosto del 546) rinviò più volte una presa di posizione, allegando la sua scarsa cultura teologica, e solo a fatica si lasciò, infine, strappare una breve e poco compromettente dichiarazione di voto. Nella discussione sulla residenza dei vescovi votò insieme con altri otto prelati italiani contro il decreto moderatamente riformatore che fu poi approvato, con una posizione fortemente conservatrice e aliena da qualsiasi aspirazione di riforma.
La sua partecipazione a questa sessione del concilio è rilevante soprattutto per le sue continue proposte di traslazione del concilio. Si trattava, in realtà, nel suo caso, di una reale insofferenza alle faticose discussioni teologiche, così lontane dai suoi interessi, e ai disagi del soggiorno tridentino, che sfociava in prese di posizione vivaci e clamorose, che venivano accolte con favore dalla maggioranza dei prelati italiani, e che i legati utilizzavano abilmente nel complesso gioco politico che contrapponeva il partito curiale a quello imperiale. Così, per esempio, i legati scrivevano al cardinal Farnese a proposito della polemica suscitata dalla sua proclamata insofferenza alla discussione sulla dottrina della giustificazione: “et tra li altri l’arcivescovo di Corfù (qual è molto bon servitore de Sua Santità) trasportato dal zelo se n’è dolto in modo ch’è bisognato amonirlo, per non mancare all’offitio nostro et per dimostrare che non lo mettevamo su noi. Ma et il suo zelo et la nostra ammonitione è stata bene a proposito, facendo verificare et conoscere... che non se può tenere più il concilio congregato, se quest’articulo della iustificatione non se spedisce” (Nuntiaturberichte..., IX, pp. 402-403). Particolarmente significativa fu, nel luglio dello stesso 1546, in un momento particolarmente drammatico della guerra smalcaldica, la disputa con il cardinal Madruzzo, principe vescovo di Trento e rappresentante del partito imperiale, che gli aveva ingiunto di togliere un’imbarcazione che il C. teneva ormeggiata in Adige per una rapida fuga e che, secondo il Madruzzo, era motivo di scandalo e di panico tra la popolazione. Conseguentemente a questo suo atteggiamento, il C. abbandonò Trento alle prime voci dell’epidemia che diede origine alla traslazione del concilio a Bologna.
Il C. partecipò ancora per brevissimo tempo ai lavori del periodo bolognese; questa sua indifferenza, che ormai aveva perso, dopo la traslazione, ogni utilità per la Curia, gli costò la porpora cardinalizia come scriveva il Giovio nel 1548, dicendo che a Roma si prevedeva che il papa avrebbe creato cardinali tutti gli arcivescovi, tranne il Colonna e il C. “qual per aver la barba canuta e longa attende a mangiare l’ostreghe di Venecia”. Dal 1550 in poi visse prevalentemente a Roma, dove ebbe un ufficio di addetto alle lettere apostoliche. Non fu estraneo al mondo culturale del tempo e fu amico di Girolamo Negri, di Girolamo Angleria e di Alessandro Piccolomini, che gli dedicò nel 1557 il suo Trattato della grandezza della Terra e dell’Acqua. Negli ultimi anni della sua vita si adeguò al nuovo clima controriformistico, tanto che entrò a far parte della Compagnia della grazia fondata da s. Ignazio. Nell’anno 1560 egli ottenne come coadiutore all’arcivescovato di Corfù il nipote Antonio, arcivescovo di Patrasso, in favore del quale aveva rinunziato nel 1544 l’arcipretura dei SS. Nereo, Achilleo e Pancrazio di Montechiaro in diocesi di Brescia, e, nel 1548, il canonicato di Padova.
Morì con ogni probabilità nel 1565 a Roma.
Fonti e Bibl.: P. Bembo, Delle lettere..., I, Roma 1548, p. 277; Lettere di principi..., I, a cura di G. Ruscelli, Venezia 1562, p. 91v; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1890-1903, XXVII, col. 331; XXXII, col. 460; XL, col. 340; XLIII, col. 265; Y.LV, ad Indicem; XLIX, coll. 185, 328; LI, ad Indicem; LIII, ad Indicem; LVII, col. 480; LVIII, ad Indicem; Nuntiaturberichte aus Deutschland (1533-1559), IX, Nuntiatur des Verallo (1546-1547), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1899, pp. 301, 402 s.; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, Friburgi Brisg. 1901-1937, I, Diaria, I, ad Indicem; II, Diaria, 2, ad Indicem; IV, Acta, 1, ad Indicem; V, Acta, 2, ad Indicem; VI, Acta, 3, 1, ad Indicem; X, Epistulae, 1, ad Indicem; XI, Epistulae, 2, ad Indicem; P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, II, 1544-1552, Roma 1958, p. 129; Nunziature di Venezia, I, 1533-1535, a cura di F. Gaeta, Roma 1958, in Fonti per la storia d’Italia, XXXII, ad Indicem; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., V Venezia 1842, pp. 258-262; L. von Pastor, Storia dei papi, V, Roma 1924, pp. 546, 548 s., e ad Indicem; G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, ad Indicem; H. Ledin, Storia del concilio di Trento, II, Brescia 1962, ad Indicem; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, p. 177.