CASOLO, Giacomo
Non si conoscono i dati biografici relativi alla sua nascita e alla sua famiglia.
Di origine milanese, il C. sarebbe stato analfabeta, secondo quanto afferma il gesuita A. Alberti, suo confessore e che ne scrisse una sorta di biografia (cfr. Guerrini). Giovane, si era dedicato per sei anni all'assistenza degli infermi nell'ospedale di Milano e aveva manifestato il proposito di entrare nella Compagnia di Gesù per recarsi a svolgere attività missionaria nelle Indie, ma fu dissuaso dallo stesso Alberti, che lo convinse della maggiore utilità dell'opera che egli avrebbe potuto svolgere da laico. Il C. volle, tuttavia, professare i voti di povertà, castità e obbedienza nelle mani del suo confessore, voti che avrebbe poi osservato con notevole rigore. Rinunciò, infatti, alla eredità patema e rifiutò una pensione di 100 scudi che gli voleva assegnare l'arcivescovo di Milano Cesare Monti. Per penitenza digiunava frequentemente, portava cilici e si imponeva dure discipline. Dai suoi parenti si era del tutto estraniato e malgrado avesse a Milano una sorella non volle essere da lei visitato neppure quando era malato.
Tra il 1640 e il 1650 il C., che già godeva tra il popolo fama di santità, fondò un oratorio nella chiesa di S. Pelagia di Milano, in cui si radunavano soprattutto giovani che, sotto la sua direzione, si dedicavano a pratiche di pietà e attendevano in comune all'orazione mentale. I seguaci del C. presero il nome di pelagini dal titolo della chiesa in cui si riunivano ed in essi si può ravvisare uno dei casi di diffusione popolare delle dottrine e delle pratiche quietistiche.
Il C. aggiunse al suo nome di battesimo quello di Filippo in onore di s. Filippo Neri, il che è sintomatico dell'origine oratoriana di certo quietismo. Non è un caso che ricevesse le simpatie e l'appoggio dei preti della Pace di Brescia che da poco tempo avevano accettato le costituzioni di s. Filippo e che si occupavano soprattutto dell'educazione dei giovani. In particolare, egli fu legato da amicizia con due padri della Congregazione bresciana, Alessandro Pavoni e Maurizio Lazzari. Nel luglio 1647 fece visita ai preti della Pace di Brescia, i quali, data la fama di santità di cui il loro visitatore godeva, pare avessero conservato come reliquie del pane ed un tovagliolo di cui egli si era servito durante il suo soggiorno. Il C. ebbe anche la protezione e l'incoraggiamento dei gesuiti, che nel metodo e nella diffusione dell'orazione mentale vedevano, secondo le regole degli Esercizi spirituali di s. Ignazio, un mezzo sicuro per dare nuovo fervore alla vita religiosa ed alle pratiche di pietà.
Dopo la fondazione dell'oratorio di S. Pelagia il C. si dedicò largamente al soccorso dei bisognosi e per svolgere questa missione non ebbe esitazione a rivolgersi anche ad autorevoli personalità milanesi, favorito dalla sua fama e dalla sua singolare capacità di conquistarsi il consenso altrui. Anche se ciò, beninteso, non bastò ad evitargli contrasti e difficoltà, anzi la sua attività lo espose più volte,. secondo l'Alberti, al rischio della vita. Operò molte conversioni e si adoperò per pacificare parecchie inimicizie.
Il C. fondò, in Valcamonica, presumibilmente nel 1652, alcuni oratori sotto;il titolo di S. Filippo Neri, che costituivano una sorta di filiali dell'oratorio milanese di S. Pelagia. L'iniziativa ebbe nei primi tempi l'approvazione del vescovo di Brescia Marco Morosini, che la riteneva un mezzo per elevare nel popolo il livello della pietà, ma già nel 1653 lo stesso vescovo ordinava, senza successo, la soppressione degli oratori. Uguale atteggiamento negativo assunse l'Ottoboni, successore del Morosini, con una uguale assenza di risultati, fino a che fu necessario richiedere l'intervento dell'autorità secolare, nel 1657, per provvedere all'arresto di alcuni pelagini e alla dispersione degli altri. In effetti, fin dal 1653 costoro erano stati sospettati di eresia e nel 1655 il nunzio a Venezia, Carlo Carafa, scriveva alla Congregazione del S. Uffizio esponendo le sue preoccupazioni per le pratiche non ortodosse cui si dedicavano i seguaci del Casolo.
Su costui si esprimevano, tuttavia, positivamente, nel 1655, i commissari inviati in Valcamonica dal governo di Brescia. La loro opinione era che il C., spinto da lodevoli intenzioni, avesse diffuso tra le genti della valle certo tipo di devozione, in particolare la frequenza dell'orazione mentale, che, però, invece di produrre frutti positivi aveva dato luogo, data la rozzezza di quella popolazione, a forme di superstizione e d'eresia. Si ritiene che intorno alla metà del sec. XVII i seguaci del C. ammontassero a circa 600.
Per la propaganda delle teorie quietistiche da lui svolta negli oratori che aveva fondato e diretto nelle diocesi di Brescia e Bergamo il C. fu posto sotto processo dai locali tribunali dell'Inquisizione. Non è certo che sia stato in carcere. Morì a Milano, mentre era ancora sotto processo, il 16 giugno 1656.
Il suo biografa Alberti afferma che egli fu avvelenato da persone intolleranti della sua intransigenza nel perseguire ogni sorta di scandalo e di ingiustizia. Queste stesse persone, sempre secondo l'Alberti e per le stesse ragioni, avrebbero fatto nascere nei confronti del C. il sospetto di eresia che lo aveva poi condotto al processo. I funerali si svolsero con grande solennità per la presenza di molti esponenti della nobiltà e della burocrazia milanesi e per la grande partecipazione popolare. Secondo la testimonianza di uno dei suoi seguaci, successivamente alla morte si sarebbero verificati fatti miracolosi sui quali, però, era stato imposto il silenzio a causa del processo avviato nei suoi confronti. Per questa stessa ragione si era evitato di pronunziare un'orazione celebrativa del Casolo. Fu sepolto nella chiesa di S. Pelagia senza che sulla sua tomba fosse posta alcuna iscrizione. Dopo la morte i processi a suo carico in corso presso i tribunali dell' Inquisizione di Brescia e di Bergamo furono sospesi.
Bibl.: P. Guerrini, I Pelagini di Lombardia. Contributo alla storia del Quietismo, in La scuola cattolica, L (1922), pp. 269-271, 274-285, 359 s., 364-366; M. Petrocchi, Il quietismo ital. del Seicento, Roma 1948, pp. 32-34; P. Pirri, Alberti, Alberto, in Diz. biogr. d. Italiani, I, Roma 1960, p. 681.