CARRADORI (de Acoretoribus, Garatori), Giacomo
Nacque da Andalò in data ignota, comunque vicina all'inizio del sec. XIV, ad Imola.
La famiglia Carradori, appartenente alla piccola nobiltà locale, comincia a comparire in atti pubblici imolesi a partire dal 1230; nell'Estimo del 1312 (Imola, Arch. comunale, mazzo VI, f. 51) insieme a vari altri rappresentanti della famiglia (Nanne, Francesco, Sante), aventi tutti le loro case in "cappella" di Sant'Egidio, è ricordato anche il padre del C., Andalò, che risulta ancora vivente nel 1334 (Ibid., Statuti, I, rub. 41).
La vicenda biografica del C. è avvolta in un buio profondo, su cui gli scarsi dati certi in nostro possesso consentono di fare una luce troppo fioca. Una tradizione annalistica locale, confluita nell'opera di F. Mancurti e da essa discesa ai successivi biografi ottocenteschi, afferma che il C. fu allievo di un Anselmo da Cuspignano, magister da lui venerato e con munifica gratitudine sostentato, quando, divenuto vecchio, ebbe a soffrire la solitudine e la povertà. Successivamente si sarebbe recato a studiare prima a Bologna e poi a Padova, donde sarebbe passato ad Avignone, incontrandovi la benevolenza di Benedetto XII e l'amicizia del Petrarca: in seguito agli sconvolgimenti provocati da un "teterrimum bellum" (da identificare forse con i primi episodi della guerra dei Cent'anni) sarebbe tornato nella città natale, ove trascorse il resto dei suoi giorni facendo parte, in qualità di ascoltato consigliere, dell'entourage diBertrando Alidosi.
Se non esistono serie ragioni per respingere questa ricostruzione biografica, non esistono neppure tracce documentarie, che ci autorizzino ad attribuirle un credito abbastanza fiducioso: si può solamente dire che, mentre il succedersi di tappe quali Bologna, Padova ed Avignone non è privo di un vago sapore di topos panegiristico, la tradizione locale trova un argomento a suo favore nel fatto che nei documenti imolesi la prima presenza sicuramente attestata del C. si ha solo al 5 luglio 1352, allorché compare come possessore di beni fondiari in curte Silustre (cfr. Imola, Archivio notarile mand., caps. E, n. 45).
Ad Imola, dopo il ritorno, il C. ebbe legami molto stretti con l'ambiente francescano: l'11 apr. 1359 era sindaco apostolico dei frati minori e comperava a loro nome ed a loro spese una casa posta nella "cappella" Sant'Egidio, adiacente alla sua stessa abitazione; il 25 ottobre dello stesso anno donava ai medesimi frati la sua casa con tutto il circostante terreno, onde permettere la costruzione del nuovo convento e della nuova chiesa di S. Francesco. In cambio gli venne concesso l'usufrutto di una casa posta in "cappella" San Donato, in precedenza appartenuta al magister Tonio Calzolari; beneficiò dell'usufrutto, oltre al C., anche la moglie di lui, l'imolese Caterina di Tondo de' Binietti: nell'atto rogato da Compagno di Anchibene (il padre di Benvenuto da Imola) non sifa menzione alcuna di eventuali figli.
La notizia tramandata secondo cui il C. avrebbe fatto parte della cerchia di Bertrando Alidosi trova conferma in un documento del 3 marzo del 1371, in cui egli compare come testimone della concessione all'Alidosi, vicario generale per la città, della patente di ufficiale familiare del Sant'Uffizio dell'Inquisizione: la cerimonia avvenne nel chiostro dei frati minori, alla presenza del francescano Lorenzo da Rimini. Dieci anni dopo, il 14 maggio 1381, ritroviamo il C. ancora sindaco e procuratore dei frati minori, in rappresentanza dei quali è citato in giudizio dall'abate di S. Maria in Regola (Gaddoni, p. 51). Il 9 marzo 1383 dettò testamento nelle mani del notaio Berto della Volpe: mediante tale strumento (ora nell'Arch. notar. di Imola, armadio I, scaff. 1, II, 10) il C. elegge la propria sepoltura nella chiesa di S. Francesco, alla quale dona una somma il cui esatto ammontare sarà determinato dai curatori testamentari. Alla moglie Bartolomea lascia, oltre all'intero ammontare della dote, una parte decorosa delle sue sostanze: evidentemente Caterina di Tondo de' Binietti era morta ed il C. si era risposato. Neppure nel testamento viene fatta menzione alcuna dell'esistenza di figli: si può, forse, ipotizzare che nessuno dei due matrimoni sia stato allietato da prole.
Poiché il testante si dichiara languens corpore si può ragionevolmente congetturare che la morte sia sopravvenuta non molto dopo la data del testamento stesso: se sia stata provocata, o meno, dalla peste, come vuole la tradizione locale, non si può appurare con certezza.
Oltre ai negozi in cui lo abbiamo visto impegnato, il C. si dedicò anche all'attività letteraria, sentita come prosecuzione e coronamento della sua curialitas. Il Mancurti aveva notizia, sia pur solamente indiretta, dell'esistenza di un certo numero di suoi componimenti latini, per lo più in distici elegiaci, indirizzati a vari principi italiani: di tali testi si è perduta, allo stato attuale delle conoscenze, ogni traccia. Più fortunata è stata la tradizione dei componimenti in volgare: ci sono giunti, infatti, due sonetti ed una canzone di paternità pressoché certa, cui deve aggiungersi un sonetto in corrispondenza col Petrarca, che molti, ma forse a torto, sono inclini ad attribuire ad Antonio da Ferrara. Tali testi ci lasciano intravedere una poetica dantescamente impegnata ad esprimere una vigorosa tematica etico-politica in forme letterariamente elaborate sul piano del lessico come su quello della struttura sintattica. I sonetti sono tutti di "corrispondenza" con altri letterati, conformemente ad un uso assai diffuso nel sec. XIV: il più antico ("L'opinion de chi più sa s'accorda") è indirizzato a Pietro Alighieri, al quale chiede di intervenire, con la sua indiscussa autorità, per definire con sicurezza l'opinione dei suo illustre padre a proposito del libero arbitrio, probabilmente per difenderla dagli attacchi di Cecco d'Ascoli. Il sonetto deve essere posteriore all'edizione dell'Acerba e forse risale ai primi tempi del soggiorno veronese di Pietro (1332-33?):non per nulla esso ci è giunto solamente nel cod. 445 della Biblioteca capitolare di Verona attraverso cui ci è pervenuta anche la risposta data dal figlio di Dante ("La vostra sete, se ben mi ricorda"). Meno interessante l'altro sonetto ("Se 'l mio poco saper produtto ha spica"), che risponde con cortese ritrosia ad un'adulatoria richiesta di entrare in corrispondenza avanzatagli da Antonio da Tempo: esso è tuttavia un indice significativo della sicura fama di cui godeva il C., al quale il da Tempo si rivolge da Venezia in un momento in cui è separato dall'Imolese da un "lungo sentier" (non è forse ingiustificato pensare ad Avignone). La prova più complessa e più matura della sua arte il C. la offre comunque in un'ampia e non pedestre canzone ("Nell'ora che la bella concubina") in cui si descrive una visione, durante la quale Roma si vede restituire le sue due "luci" da un "Magnanimo" che risolleva l'Italia tutta, dopo aver ucciso l'idra, causa di ogni male. Il D'Ancona la collegò alla propaganda ghibellina in favore di Ludovico il Bavaro: se così fosse ci troveremmo di fronte al testo più antico del C., ad un frutto, per così dire, giovanile. La sicurezza nella strutturazione della visione e la non banale qualità dello stile farebbero pensare ad una fase più matura: il Magnanimo, del resto, potrebbe coerentemente identificarsi anche con Carlo IV.
Il C. fu in corrispondenza poetica anche col Petrarca: di essa è traccia sicura, fra le petrarchesche Rime disperse, il sonetto "Quella che l' giovanil meo core avinse" (1350-51), in risposta ad uno, ora perduto, del Carradori. Di tale corrispondenza, da parte del C., rimarrebbe unico superstite il sonetto "O novella Tarpea in cui s'asconde", che la tradizione manoscritta attribuisce anche ad Antonio da Ferrara, in ciò seguita dagli studiosi e dagli editori del Beccari. Una decisione definitiva della controversia è forse impossibile, a favore dell'attribuzione al C., tuttavia, depone il fatto che essa appare sicuramente difficilior e che viene sostenuta da codici autorevoli e di età non bassa: la risposta stessa del Petrarca del resto ("Ingegno usato a le question profonde", da collocarsi negli anni compresi fra il 1341 ed il 1348) appare forse più coerente con la musa severa del C. che non con quella più pedestre del ferrarese.
Non esiste ancora un'edizione unitaria dell'esile corpus del Carradori. La canzone ed il sonetto "O novella Tarpea" si leggono, piuttosto malconci, in A. Calogerà, Racc. di opuscoli, XXXVIII, Venezia 1748, pp. 403-416 (con breve nota biografica di F. Mancurti) e in F. Zambrini, Rime sparse di autori imolesi, Imola 1846, pp. 42-51. Il sonetto compare, infine, e con miglior lezione, in A. Solerti, Rime disperse di F. Petrarca, Firenze 1909, pp. 88 s.: il Solerti propende, però, per l'attribuzione ad Antonio da Ferrara. La "corrispondenza" con Pietro Alighieri è in G. Crocioni Le rime di P. Alighieri, Città di Castello 1901 pp. 86-89, mentre quella con Antonio da Tempo è edita da S. Morpurgo, Rime inedite di G. Quirini ed A. da Tempo, in Arch. storico per Trieste, l'Istria e il Trentino, I(1881), pp. 161 s.
Bibl.: Imola, Biblioteca comunale ms. 47: F. Mancurti, Storia letteraria della città di Imola (1741), cc. 18rv; G. Alberghetti, Compendio della storia civile, eccles. e letteraria della città di Imola, Imola 1810, II, p. 34; T. Casini, Sopra alcuni mss. di rime del sec. XIII, in Giorn. stor. d. lett. ital., IV (1884), pp. 116-128 (descrive il cod. 445 della Capitolare veronese); A. D'Ancona La poesia politica ital. ai tempi di Ludovico il Bavaro, in IlPropugnatore, I(1868), pp. 145170 (e poi in Varietà storiche e letter., II, Milano 1885, pp. 75-113); E. Lamma, Ilcodice di rime antiche di G. G. Amadei, in Giorn. stor. d. lett. ital., XX(1892), pp. 151-185; A. Negri, Ilcomune d'Imola, Imola 1907, p. 182; S. Gaddoni, I frati minori ad Imola, Firenze 1911, pp. 192-195; P. Ginori-Conti, Vita e opere di Pietro di Dante, Firenze 1939, pp. 129 s.; E. Giannini, La famiglia Carradori di Imola, in La Rassegna araldica, XXXVIII (1940), pp. 131 s.; D. Bianchi, Intorno alle "Rime disperse" del Petrarca, in Studi petrarcheschi, II(1949), pp. 113-116.