CALDORA (Candola), Giacomo (Iacopo, Iacopuzzo)
Figlio di Giovan Antonio, titolare di ampi feudi in Abruzzo, e di Rita Cantelmo, nacque a Castel del Giudice nel Sangro nell'anno 1369, se si può prestar fede alla anonima Istoria delRegno di Napoli che gli attribuisce settant'anni al momento della morte nel 1439. Si sposò in data a noi sconosciuta con Medea d'Eboli che portò in dote il contado di Trivento.
Il C. apprese l'arte militare nella compagnia di Braccio da Montone e ben presto acquistò fama di buon condottiero. Nel 1411 fu al servizio di Ladislao di Durazzo nella campagna da questo condotta contro Luigi II d'Angiò e partecipò alla battaglia di Roccasecca presso Cassino nel maggio dello stesso anno. Nel 1415 era al servizio della regina Giovanna II alla guida, insieme con Muzio Attendolo Sforza, delle truppe napoletane inviate in Abruzzo per impedire il ritorno all'Aquila di Antonuccio da Camponeschi. Il suo comportamento in questa occasione fece nascere dubbi sulla sua fedeltà alla regina: per lo scarso impegno dimostrato lo si sospettò infatti di segrete intese con gli Aquilani. Tuttavia il C. prese parte alle trattative con il Comune quale rappresentante del governo regio.
L'episodio del 1415 segna l'entrata del C. nella vita politica napoletana allora turbata dalla grave crisi causata dalla rivolta baronale contro Giovanna II. In questo periodo l'atteggiamento del C. appare incerto: da un canto egli si mantenne formalmente fedele alla regina, dall'altro conservò legami con i baroni ribelli. Nel 1417 Giovanna II decise di vendere alcuni feudi per finanziare l'impresa contro Braccio da Montone che minacciava Roma. Tra i feudi alienati era quello di Agnone ceduto a Carlo Caracciolo detto Carafa. Ma il feudo era saldamente tonuto dagli oppositori del governo regio; Giovanna II si rivolse allora al C. e a Marino da Somma per recuperarlo. Il C. in poco tempo portò a termine felicemente la sua missione e ricevette dalla regina la nomina a capitano di Agnone e Minervino, di castellano e capitano di Manfredonia insieme con il privilegio di incamerare un quarto delle entrate della dogana del frumento giunto nel porto di questa città. Tuttavia subito dopo l'impresa di Agnone non obbedì all'ordine di congiungere le sue truppe con quelle di Muzio Attendolo Sforza che muoveva contro Braccio. Al contrario si unì ad altri baroni abruzzesi e pose il campo presso l'abbazia di Casamala. Lo Sforza, sospettando un'intesa tra il C. e Braccio, spostò rapidamente il suo esercito verso Casamala e attaccò di sorpresa le truppe del C. che si dispersero. Lo stesso C. fu catturato e quindi condotto prigioniero alla rocca di Falvaterra il 1º ag. 1417. Il governo scoprì la trama di una congiura in cui erano coinvolti molti baroni tra cui era anche il C.: a lui, a suo fratello e sua madre vennero espropriate tutte le terre.
I successivi sviluppi della crisi politica napoletana portarono però in breve tempo alla liberazione del Caldora. Approfittando dell'assenza da Napoli dello Sforza, impegnato nella campagna contro Braccio, Sergianni Caracciolo aveva rafforzato decisamente il proprio potere nella corte di Giovanna II. Quando nella primavera del 1418 lo Sforza fece ritorno nel Regno cercò di modificare la nuova situazione collegandosi con potenti famiglie baronali. Il Caracciolo decise allora di attaccare con le armi lo Sforza: liberò il, C. e lo inviò contro il suo rivale. Lo Sforza prevenne però l'attacco del C. e mosse nel settembre verso Napoli. Nell'ottobre un accordo tra i due avversari sospendeva momentaneamente le ostilità: il C. poteva rientrare nel possesso dei suoi feudi e ritornava a svolgere un ruolo importante nella vita politica del Regno.
Il 28 ott. 1419 fu presente alla solenne incoronazione di Giovanna II a Napoli. La crisi napoletana, però, non era affatto risolta, anche perché proprio in quell'anno Luigi III d'Angiò aveva avanzato ufficialmente le sue pretese alla successione nel Regno contro Alfonso d'Aragona. Il C., al pari di molti altri grandi baroni, cercò di inserirsi nella nuova fase della lotta allo scopo di ampliare i propri feudi e quindi accrescere anche la propria forza politica nel Regno. Nel settembre del 1420 Muzio Attendolo Sforza abbandonava Giovanna II e passava al partito angioino al quale aveva aderito la maggior parte dei baroni. Anche in questa occasione il C. si mantenne incerto tra i due parúti. Nell'aprile del 1420 la regina lo aveva nominato capitano dei castelli di Montesisto, Castiglione, Buccio e Casilitto in Abruzzo. Ma quando Braccio da Montone, passato al servizio di Giovanna e di Alfonso, mosse verso Sulmona, il C. fortificò il castello di Pacentro per sbarrargli il passo e quindi sollecitò i Sulmonesi a cacciare i funzionari regi e ad armarsi contro il condottiero. Anche questa volta, comunque, non si trattava per il C. di una decisione definitiva. All'arrivo di Braccio a Pacentro, infatti, gli aprì le porte e Sulmona chiese di accordarsi con la regina. Il C. aderì al partito governativo.
La sua fedeltà a Braccio e ad Alfonso si mantenne anche dopo il settembre del 1423 quando Giovanna II revocò ad Aversa l'adozione dell'Aragonese e nominò suo erede Luigi III d'Angiò. Alfonso era padrone di Napoli, ma non era in grado di resistere all'attacco angioino senza il contributo di Braccio il quale, peraltro, rifiutava di abbandonare l'assedio dell'Aquila. Braccio inviò allora a Napoli il C. che giunse in città con seicento cavalieri il 1º ottobre. Pochi giorni dopo Muzio Attendolo Sforza e il figlio Francesco, che a lui si era riunito, attaccarono Napoli: il C. li affrontò al ponte della Maddalena e riuscì a impedire la loro entrata in città. Si trattava, comunque, di un successo limitato: gli Angioini restavano padroni della campagna napoletana ed avevano forze decisamente superiori a quelle degli Aragonesi.
In questa situazione il 15 ottobre Alfonso lasciò la città al fratello don Pedro per rientrare in Spagna ove i suoi possedimenti erano minacciati. Nel dicembre una flotta genovese pose l'assedio a Napoli chiudendo agli assediati l'unica via di uscita loro rimasta. Il C. aprì allora trattative con gli Angioini: in poco tempo fu convinto ad abbandonare don Pedro con la promessa della concessione di nuovi benefici da parte della regina e del pagamento del soldo che non aveva ancora riscosso dagli Aragonesi. Il 12 apr. 1424 gli Angioini entravano a Napoli: poco dopo Giovanna II nominava il C. capitano generale dell'esercito regio.
Il 25 maggio il C. lasciò Napoli alla testa di un forte esercito per soccorrere L'Aquila assediata da molto tempo da Braccio da Montone. Il 2 giugno presso la città avvenne lo scontro decisivo. Il C. seppe dirigere le sue truppe con grande abilità e, approfittando anche degli errori tattici di Braccio, ottenne su di lui una splendida vittoria. Riuscì anche a catturare il condottiero e a condurlo prigioniero nel proprio campo: qui Braccio venne ferito da esuli perugini e tre giorni dopo la battaglia morì.
La vittoria riportata presso L'Aquila accrebbe il potere del C. nel Regno e gli procurò fama di grande condottiero. A Napoli egli si legò ancora più saldamente al Caracciolo (nel 1428 il figlio, Antonio, sposerà Isabella Caracciolo figlia di Sergianni) e insieme con lui, e con il principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, impose la propria preminenza nella corte napoletana. Milano, Venezia e Firenze si contesero i suoi servizi: il C. si mostrò favorevole ad accettare l'offerta fiorentina, ma l'intervento di Martino V gli impedì di concludere le trattative.
Nel 1426 Giovanna II lo inviò nello Stato pontificio per sostenere l'azione di Martino V contro i signorotti della Marca. Nella primavera di quell'anno il C. congiunse le sue truppe a quelle di Pietro Emigli, governatore della Marca, e con queste mosse contro Sanseverino. In breve riuscì a cacciare gli Smeducci, signori della città, imponendo il ritorno della stessa al dominio diretto della S. Sede. Nel giugno il C. e l'Emigli ricevettero dal pontefice l'ordine di muovere contro Ascoli, governata da Obizzo e Ardizzone da Carrara che si erano rifiutati di cedere la città alla Chiesa. Ascoli era di grande importanza per il Papato in virtù della sua posizione strategica, poiché dominava i principali passi appenninici tra la Marca e il Regno. Di fronte all'avanzata delle truppe pontificio-napoletane gli oppositori di Obizzo e Ardizzone sollevarono la città contro i signori. Nei primi giorni di agosto il C. e l'Emigli entrarono ad Ascoli e la città tornò alla Chiesa.
Meno fortunata fu invece la campagna militare che il C. condusse nel 1429 contro Bologna che si era ribellata al governo della Chiesa. Il C. assunse ancora una volta il comando dell'esercito pontificio e conquistò in poco tempo numerosi castelli del contado bolognese. Ma la città seppe resistere all'attacco delle truppe del C. che invano l'assediarono per lungo tempo. Nel settembre la lotta si concluse per via diplomatica con un accordo tra Bologna e il pontefice, accordo che garantiva al Comune un'ampia sfera di autonomia.
Due anni dopo il C. era ancora nello Stato pontificio. Il nuovo papa Eugenio IV cercava allora di colpire l'eccessiva potenza della famiglia Colonna e chiese l'intervento dell'esercito napoletano. Il C. si trovò allora a combattere contro quella famiglia che durante il pontificato precedente aveva dominato non solo alla corte romana, ma anche a quella napoletana ove aveva con lui stesso collaborato. Ciò può spiegare lo scarso impegno messo dal C. nella lotta dopo aver conquistato alcuni castelli colonnesi minori, e rende plausibile l'accusa a lui rivolta dai contemporanei di essersi lasciato corrompere dalla potente famiglia romana.
Nello stesso torno di anni il C. aveva consolidato il proprio potere nel Regno. Nel 1430 Giovanna Il gli concesse il feudo di Carbonara e il ducato di Bari: la potenza feudale del C. veniva a superare i confini abruzzesi per estendersi in Puglia e costituire così uno stato di notevole consistenza che poneva il C. tra i baroni più importanti del Regno. La titolarità del ducato di Bari da parte del C. sembra essere all'origine dei dissapori tra questo e il potente principe di Taranto che ne dovette temere una ulteriore espansione in Puglia. Si veniva così ad incrinare l'intesa tra i tre più potenti personaggi della corte napoletana, e il C. accentuò i suoi vincoli con il Caracciolo. Nell'agosto del 1432 una figlia del C., Maria, andò in sposa a Troiano Caracciolo, figlio di Sergianni. Ma contro quest'ultimo si era venuta formando una congiura preparata da Covella Ruffo, duchessa di Sessa, congiura alla quale avevano aderito tra gli altri Ottino Caracciolo e Annichino Mormile. La sera dei festeggiamenti per il matrimonio, il 19 agosto, i congiurati uccisero Sergianni.
Nella crisi che si aprì, in seguito alla morte del potente ministro napoletano il C. si schierò decisamente a difesa del partito angioino, mentre altri baroni, tra cui il principe di Taranto, riallacciavano rapporti con Alfonso d'Aragona. Il C. colse importanti vittorie contro i baroni filo aragonesi e mantenne la propria fedeltà alla fazione angioina anche quando nell'aprile 1433 Giovanna II, timorosa della presenza di Alfonso a Ischia, revocò l'adozione di Luigi III e scelse come suo erede l'Aragonese. Il C. sostenne allora l'azione della duchessa di Sessa che nel giugno successivo riuscì ad ottenere un nuovo cambiamento politico della regina che adottò ancora una volta Luigi III. Il principe di Taranto, dichiarato ribelle, fu allora affrontato nelle sue terre dal C. che rifiutò di accogliere l'intervento pacificatore del pontefice e proseguì la lotta contro il suo avversario.
Con la morte prima di Luigi III nel settembre 1434 e quindi, il 2 febbr. 1435 della stessa Giovanna II, si aprì una nuova fase della crisi napoletana. La regina aveva istituito erede nel suo testamento il fratello di Luigi III, Renato d'Angiò, stabilendo contemporaneamente che il Regno fosse governato da un Consiglio di reggenza in attesa che Renato ne prendesse possesso. Il C. era chiamato a far parte, insieme con altri nove grandi baroni, del Consiglio. Ma i Napoletani non accettarono la nuova istituzione e imposero alla guida dello Stato un Consiglio di diciotto cittadini. Il nuovo Consiglio si dichiarò a favore di Renato: al contrario la maggior parte dei baroni si schierò per Alfonso. Il C., insieme con Ottino Caracciolo, fu uno dei pochi grandi feudatari che rimasero fedeli alla parte angioina. A lui, ad Antonio di Pontedera e a Michelotto Attendolo Sforza si rivolsero i Diciotto per il comando dell'esercito allestito per contrastare gli Aragonesi. Anche in questa nuova fase della crisi politica napoletana il C. non cessò, comunque, di mirare al rafforzamento del proprio stato feudale.
Il C. e il Pontedera si mossero nel maggio per assediare Capua in mano ai nemici, che Alfonso voleva fare base delle sue operazioni terrestri. Ma ben presto tra i due capitani angioini sorsero profonde divergenze: il C. voleva infatti conquistare Capua per farne un proprio feudo, mentre il Pontedera si manteneva fedele alle disposizioni della regina Isabella (che il marito Renato dAngiò aveva nominato sua luogotenente nel Regno), la quale aveva disposto il passaggio della città al dominio regio. In seguito a questo dissidio il C. abbandonò il campo, togliendo all'esercito angioino ogni possibilità di successo.
Passò quindi in Abruzzo ove combatté contro feudatari filoaragonesi e poi, all'inizio del 1436, in Puglia: qui dopo alcune vittorie concluse un accordo con i baroni ribelli. Nel dicembre, dietro ordine della regina Isabella, unì le sue truppe a quelle del cardinale Vitelleschi, inviato nel Regno da Eugenio IV a sostenere il partito angioino: il congiungimento dei due eserciti convinse allora Alfonso ad abbandonare l'assedio di Aversa. Ben presto però sorsero violenti dissidi tra il C. e il Vitelleschi che cercava di far passare al dominio pontificio alcune zone della Terra di Lavoro, tra cui la città di Aversa. Isabella accolse le ragioni del C. e il Vitelleschi lasciò il Regno; le sue truppe passarono allora agli ordini del Caldora.
Il 4 ott. 1437 il C. fu tra i nobili che sottoscrissero il testo del solenne giuramento di fedeltà al re Renato. Il 22 maggio 1437 questi giunse a Napoli: alla fine del mese il C. si recò nella città a rendergli omaggio e a prendere disposizioni per la nuova fase della guerra. Per tutto l'anno il C. combatté in Puglia e in Abruzzo. A dicembre rientrò a Napoli con il re che lo aveva seguito in quest'ultima regione ormai definitivamente sottomessa. Il C. fece al monarca un grosso prestito in denaro, ricevendo come garanzia la città di Aversa. Quindi lasciò Napoli e si ritirò nei suoi feudi abruzzesi.
Passò i primi mesi del 1439 ad amministrare le sue terre cercando di ottenere dai suoi sudditi i denari necessari al finan iamento della nuova campagna militare. Richiamato poi ad Aversa dal re, si mosse verso la Terra di Lavoro, ma fu fermato al Volturno dalle truppe aragonesi. Si diresse allora verso Benevento. Assalì la baronia di Cercello, tenuta dai signori di Leonessa: nel corso di questa impresa morì in seguito ad una emorragia cerebrale (15 ottobre o 18 nov. 1439). Il figlio Antonio ne curò la sepoltura nella chiesa di S. Spirito di Sulmona.
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