BONARELLI, Giacomo
Di antica ed eminente famiglia anconitana, il B., secondogenito di Pietro (che fu al servizio del papa Martino V) e fratello di Liberio (di cui seguì le orme nelle attività politiche e militari), dovette nascere nel primo decennio del sec. XV: nel 1430, infatti, egli figura già tra i consiglieri della Comunità di Ancona, ufficio cui si poteva accedere solo all'età di venticinque anni compiuti. Per le sue doti eccezionali di uomo d'arme e di governo divenne ben presto noto negli ambienti politici e militari di tutta Italia col soprannome di "Guercio d'Ancona", per la perdita di un occhio.
La lunga carriera politica del B. si iniziò con la carica di podestà di Firenze, che ricoprì nel 1453 dando prova della sua singolare abilità e perizia nel governo della cosa pubblica in un momento particolarmente difficile per quella città. Passò quindi al servizio di Francesco Sforza, che forse aveva già avuto occasione di conoscerlo nel corso delle operazioni che portarono all'occupazione della Marca e di Ancona (inverno 1433-1434); ma a presentarlo al duca di Milano fu, con una calda commendatizia, il fratello Liberio, che gli procurava, nel 1454, la podesteria di Fano. Lo Sforza, dopo averlo accolto tra i suoi più diretti collaboratori. nel 1455 lo inviava quale podestà a Tortona "pro anno uno, gratis", come è detto nel registro di cancelleria, in calce all'annotazione dell'avvenuta nomina. Riconfermato, allo scadere del mandato, nella stessa carica "pro alio anno, gratis", il B. rimase in Tortona sino a tutto il maggio 1457 con piena soddisfazione dei suoi amministrati se, quando venne sostituito da Pietro Giorgio Almerici, la città volle premiarlo accogliendolo nel numero dei nobili tortonesi, e concedendogli il privilegio di potersi servire dell'arma del Comune (un leone bianco in campo rosso, con una rosa bianca nella branca destra). L'8 giugno 1457 fu chiamato dal duca Francesco I Sforza a succedere, nella podesteria di Milano e con lo stipendio mensile di 260 fiorini, al fratello Liberio, morto improvvisamente il 31 maggio di quello stesso anno. Il B. assolse al suo compito con abilità e comune soddisfazione: tanto che il duca, scaduto il B. dall'incarico (31 ag. 1459), nel decorarlo per l'ottimo servizio prestato, concedeva a lui ed ai suoi discendenti - maschi e femmine - il libero transito per i territori del ducato di Milano, senza obblighi di pedaggio (10 sett. 1459).
Tra il settembre 1459 ed il novembre dell'anno successivo il B. fece parte della commissione nominata dalla Comunità di Ancona per la compilazione dei nuovi statuti cittadini. La sua opera è soprattutto evidente nella Collatio maleficiorum, che rivela un rigoroso senso di giustizia e di severità nella punizione dei delitti contro lo Stato.
Nel 1466, sempre per volontà dello Sforza, il B. fu nominato podestà di Genova e dell'isola di Corsica: fu durante tale incarico che indusse il doge ad emanare un provvedimento in base al quale gli Anconitani, nelle relazioni marittime e commerciali con i Genovesi, dovevano esser da questi considerati come amici della Repubblica di s. Giorgio, e come tali trattati. Il 23 ott. 1472 il nuovo duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza Visconti, lo nominò capitano di giustizia per la città capitale, con 50 fiorini di provvisione mensile; il B. prese immediatamente possesso della nuova carica, che tenne sino al 5 maggio 1477, allorché fu chiamato a succedergli don Gerolamo Bernerio. Tuttavia, già il 4 luglio 1473 sostituiva, come commissario ducale a Cremona, Guido Visconti: il B. resse questa carica con piena soddisfazione del duca sino al 1º genn. 1476, quando gli successe Antonio Sicco. Sempre nel 1476 il B., che nel frattempo, a riconoscimento dei suoi servigi, era stato creato eques auratus dal duca di Milano, figura ancora una volta tra i consiglieri della Comunità di Ancona per il terziere della Planca. Appunto a quest'epoca si deve attribuire con ogni probabilità quella sua influente e risolutiva mediazione svolta per comporre degli attriti sorti fra la Comunità di Ancona e la Repubblica di s. Marco, di cui si compiaceva in un suo breve il pontefice Sisto IV. Il 9 luglio dell'anno successivo la duchessa di Milano, reggente in nome del figlio Gian Galeazzo, lo chiamò alla commissaria di Parma in sostituzione - dal 1º settembre - di Azzone Visconti, col titolo di governatore e lo stipendio mensile di 40 lire; poco prima, nel giugno, lo aveva nominato consigliere ducale, ed ai lavori del Consiglio segreto il B. prese parte sino all'11 sett. 1477, quando dovette rinunziare all'incarico, perché il governo di Parma esigeva tutte le sue energie.
La nomina del B. all'alto incarico era stata decisa in un momento particolarmente critico per il ducato di Milano e per la stessa città di Parma. Qui la notizia della tragica morte di Galeazzo Maria Sforza Visconti (26 dic. 1476) aveva infatti risvegliato i fermenti autonomistici antimilanesi ed acuito di conseguenza la mai sopita tensione esistente tra le diverse fazioni cittadine, che si erano armate ed avevano armato bande di scherani, ingrossate da sbanditi e ribelli fatti affluire dal contado. Questa tensione - accentuata dal disagio creato dallo scarseggiare delle granaglie, delle quali i feudatari, per creare difficoltà al governo della reggente, impedivano l'importazione in città - non aveva tardato a sfociare in una serie di sanguinosi disordini, nel corso dei quali gli armati delle fazioni dei da Correggio, dei Sanvitale e dei Pallavicini (le "tre squadre" dei cronisti coevi), coalizzatesi contro la fazione dei Rossi, filosforzesca, avevano assalito e saccheggiato le abitazioni e le proprietà dei Rossi e dei loro aderenti (2-3 marzo 1577). Le "tre squadre", poi, per svincolarsi dal dominio sforzesco, avevano offerto la signoria della città a Roberto di San Severino e ad Ercole d'Este. Nel tentativo di riportare Parma all'obbedienza ed alla normalità, la reggente vi aveva inviato dapprima Tristano Sforza, e poi Branda da Castiglione (giugno 1477); ma senza nulla ottenere. Anzi, poco dopo l'arrivo del secondo inviato si era avuto un altro gravissimo episodio di violenza: la sera del 4 luglio le "tre squadre" avevano assalito la casa in cui alloggiava il da Castiglione ed il palazzo del podestà con lo scopo dichiarato di uccidere l'inviato milanese e lo stesso podestà, Gian Antonio Sparavaria, che era subito accorso a difendere il malcapitato. Di fronte al precipitare degli eventi - i disordini erano continuati, ed il podestà, dopo aver cercato invano di ristabilire l'ordine pubblico, minacciato della vita, aveva abbandonato la città con tutta la sua famiglia (15 agosto); i Rossi erano stati espulsi e Parma era rimasta così praticamente nelle mani dei ribelli - la reggente aveva esonerato dall'incarico Azzone Visconti (che, del resto, si era mostrato piuttosto corrivo con le "tre squadre"), ed aveva scelto a succedergli, a preferenza di altri, proprio il B., di cui conosceva l'energia ed il fermo rigore nel governo. La notizia non aveva mancato di suscitare speranze o apprensioni nei circoli responsabili parmensi: ma non per questo i capi delle tre fazioni rimaste a spadroneggiare nella città avevano mutato il loro atteggiamento sedizioso. Si erano vantati, anzi, di poter uccidere impunemente il B., se questi avesse osato punire i delitti commessi.
Il B. era partito da Ancona il 18 ag. 1477; si presentò a Parma con soli otto cavalleggeri di scorta, e prese immediatamente possesso della sua carica (1º settembre). Con grave sconcerto delle "tre squadre" il nuovo governatore si astenne per il momento da provvedimenti che potessero fornire agli avversari utili indicazioni circa la sua futura linea di condotta; si limitò a compiere un'inchiesta approfondita sulle condizioni generali della città e sulle responsabilità dei fatti di marzo e di luglio. Raccolti sufficienti elementi di giudizio, lasciato sul posto Branda da Castiglione, quattro giorni dopo il suo arrivo a Parma il B. ripartiva per recarsi a Milano, a riferire ed a chiedere istruzioni, si disse, ma certamente, a sottoporre all'approvazione della reggente lo schema da lui meditato per la risoluzione della questione parmense. Da Milano, appunto, inviò a Parma l'ordine di bando e confino per i capi delle "tre squadre".
Ma fu proprio a Milano, dove si trovava confinato per ragioni di ordine pubblico, che uno dei capifazione ostili ai Rossi, Sertorio Bellati, scrisse a Parma in quegli stessi giorni annunziando il prossimo ritorno del B., stavolta con un buon nerbo di truppe; il Bellati esortava pertanto i propri fedeli ad organizzare una congiura che, togliendo definitivamente di mezzo l'ingombrante anconitano, sconsigliasse chiunque a venire in seguito commissario a Parma.
Rientrato poco dopo a Parma con un primo reparto di cento uomini e avuta notizia della congiura, il B., con una serie di bandi istituì il coprifuoco, vietò di portare armi e corazze, proibì di ospitare o comunque di invitare forestieri nella città; quindi, a mo' di esempio per quanti avessero pensato di poter contravvenire impunemente alle sue disposizioni, fece arrestare, in pieno giorno e nella piazza principale, Bartolomeo Manzolo, Antonio da Casola e Giannuccio Lalatta, esponenti in vista delle "tre squadre", tutti implicati nella recente, fallita congiura, e, dopo un processo per direttissima in cui essi confessarono le loro colpe e svelarono i nomi dei loro complici, li fece impiccare alla ringhiera del palazzo del Comune "in spectaculo omnium" (9 settembre). Quindi, a esecuzione avvenuta, con soli cinquanta balestrieri di scorta il B. percorse in lungo e in largo la città, cavalcando indisturbato per le strade senza che nessuno, di quanti si erano pur vantati di poterlo eliminare quando avessero voluto, osasse levare le armi contro di lui.
Ma il governatore - probabilmente per non scoprire troppo la sua linea futura di condotta - evitò per il momento di compiere un secondo atto di forza, pago dei cospicui risultati già ottenuti e contando senza dubbio sul disorientamento che avrebbe provocato nell'opposizione la sua nuova politica di tollerante aspettativa. Con un'ordinanza si limitò a esigere la consegna delle armi in possesso dei privati cittadini, e ad intimare a coloro che, implicati nelle sommosse del marzo e del luglio, si erano allontanati dalla città per il timore di sanzioni penali, di rientrare in Parma entro il termine perentorio di quindici giorni: prometteva loro amnistia generale, purché i beni sottratti nel corso dei tumulti venissero riconsegnati ai legittimi proprietari. Con un provvedimento di poco successivo, tuttavia, furono in un secondo tempo escluse dall'amnistia tutte le persone che, sulla base delle conclusioni di un'inchiesta in corso, sarebbero risultate coinvolte nella sventata congiura ordita col duplice intento di uccidere lui stesso e di liberare la città dal dominio sforzesco. Quindi, lanciando un monito a quanti avessero ancora osato sfidare la sua ferma volontà di ristabilire l'ordine ed il rispetto delle leggi in Parma, fece arrestare cinque facinorosi, che erano stati alla testa dei tumulti del marzo e del luglio precedenti, li fece processare per direttissima e condannare a morte. La sentenza venne eseguita con la massima pubblicità: il 9 settembre, "mane tempestive...", i cinque furono appesi per la gola alla ringhiera del palazzo del Comune. L'esecuzione consolidò l'autorità del B., aumentando nella popolazione il terrore nei suoi confronti: i Parmensi si affrettarono a ottemperare alle ordinanze del commissario ducale, consegnando disciplinatamente le armi, che vennero riposte nella fortezza e nelle torri cittadine, ben custodite dai reparti sforzeschi del presidio. Il 15 di ottobre il B. poteva permettersi di promulgare un nuovo editto, col quale prometteva la più ampia amnistia nonché la revoca dei decreti di bando e di confisca per coloro che, esiliati per delitti o per altre ragioni politiche, avessero ucciso almeno un fuoruscito; "il che fu fatto per indurre gli sbanditi a sospettare gli uni degli altri", commenta con amara ironia il cronista, mostrando di aver ben inteso il disprezzo del governatore per la codardia dei suoi avversari.
Nel volgere di poco meno di due mesi il deciso governo del B. aveva drasticamente eliminato dalla scena politica parmense gli elementi più in vista e più riottosi delle fazioni antisforzesche e sconvolto le file dell'opposizione interna senza che nessuno avesse osato, nonché affrontare direttamente, contrastare almeno in qualche modo il nuovo commissario ducale; anzi, capovolgendo i rapporti tra le forze politiche interne della città, aveva restituito Parma alla normalità ed alla fedeltà ai duchi di Milano. Nemmeno trenta giorni dopo la sua presa di potere il B. poteva rimandare a Milano la truppa che era stata inviata a dargli manforte, trattenendo, a presidio della città, soltanto un reparto di cento provisionati. Si permetteva anche di comunicare all'assemblea generale del popolo di Parma, da lui fatta convocare, il decreto di amnistia in favore dei fuorusciti parmensi ("ad eccezione di quelli colpiti da condanne per omicidio o dal bando a vita per sedizione ed alto tradimento") firmato dalla reggente pochi giorni prima e comunicato al B. con lettere ducali.
Rimaneva tuttavia aperta la questione del risarcimento dei danni causati alle proprietà dei Rossi ed a quelle dei loro fautori nel corso dei disordini del marzo e del luglio. Il B. aveva mandato a Milano Branda da Castiglione con i risultati dell'inchiesta da lui svolta, con i nominativi delle personalità coinvolte nei disordini e le prove a loro carico, in un estremo tentativo di indurre la reggente a permettere finalmente anche nei loro confronti l'applicazione dei rigori di legge: egli si era reso conto infatti che, nella situazione contingente, se non si fosse ricorso ai mezzi coercitivi anche nei confronti degli appartenenti alle famiglie più ragguardevoli e potenti implicati nei tumulti del marzo e del luglio, mai si sarebbe ottenuto dalle "tre squadre", nonché la cessazione della attività sovversiva, neanche il pagamento dei danni da loro provocati. Tuttavia, poiché la reggente continuava, nonostante tutto, a mostrarsi riluttante di fronte ad azioni di forza, il B. - che, per il buon nome della sua autorità evidentemente, non voleva che i suoi bandi rimanessero lettera morta - rinunziò a quel particolare incarico, ammonendo nel contempo la duchessa che nulla avrebbe ottenuto seguendo la via del compromesso e dell'indulgenza. Fu così che nel novembre del 1477 Branda da Castiglione rientrava in Parma investito dei pieni poteri per la risoluzione del difficile problema.
Secondo quanto aveva disposto la reggente, al risarcimento dei danni - valutati a complessive lire 40.000 di imperiali - dovevano concorrere sia i diretti responsabili, con una multa di lire 20.000, sia la Comunità stessa di Parma, con un contributo di lire 10.000; le rimanenti lire 10.000 di imperiali sarebbero state fornite dalla Camera ducale, che le avrebbe ricavate dalle proprietà confiscate agli sbanditi. Era indubbiamente un atto di clemenza (i delitti di sedizione e di alto tradimento venivano di norma puniti con la morte), ma non valse - come del resto aveva ben previsto il B. - ad indurre a più miti consigli i capi delle "tre squadre", che anzi sullo scorcio dello stesso anno 1477 progetteranno un nuovo colpo (tempestivamente scoperto dal B.) contro il governo ducale ed il suo rappresentante in Parma.
Sul finire del 1477 il B. dovette fronteggiare un nuovo e forse più pericoloso nemico; anche in questa occasione, tuttavia, egli seppe prendere tutta una serie di provvedimenti, che non mancarono di stupire e di rassicurare i Parmensi per la loro efficacia e per la loro tempestività. Agli inizi di novembre la peste aveva fatto la sua apparizione entro le mura della città, e non aveva tardato ad esplodere in tutta la sua violenza, seminando il panico nella popolazione. La prontezza con cui il B. bloccò l'esodo della popolazione terrorizzata verso le campagne finitime circoscrisse i focolai d'infezione, provvide agli ammalati, fece sì che il contagio (grazie anche all'avvicinarsi della stagione invernale) cessasse così repentinamente come era scoppiato.
Con l'inizio dell'anno nuovo il B., ormai sicuro della città in cui, con l'ordine pubblico, aveva ristabilito anche la fiducia nei poteri costituiti e la sicurezza individuale, passò alla seconda parte del suo programma di progressiva eliminazione degli agitatori di professione, dei facinorosi, degli assassini, senza lasciarsi fermare né dall'importanza dei nomi né dalla potenza delle consorterie: era questa, del resto, la pregiudiziale necessaria per la fine delle lotte tra le fazioni e per una reale pacificazione delle parti avverse.
Il 22 aprile il B. fece impiccare alla balaustra del palazzo del Comune un altro degli esponenti dell'opposizione armata, Gabriele della Viride, esponente della fazione pallavicina, colpevole di numerosi omicidi, violenza privata ed'atti sacrileghi, bandito per i gravi fatti dell'anno precedente, che aveva osato sfidare la condanna a morte comminatagli se avesse rimesso piede nel territorio del Comune, ed aveva attraversato il confine. Alcuni mesi più tardi, avuto sentore di una nuova congiura ordita allo scopo di liberare la città dal dominio sforzesco, il B. faceva arrestare e tradurre dinnanzi all'autorità giudiziaria numerosi esponenti delle "tre squadre"; nel corso dell'istruttoria venivano precisate le singole responsabilità ed i colpevoli, condannati a morte, furono impiccati (ottobre 1478); la medesima fine fece anche Ettore Grandi, capo riconosciuto degli sbanditi e principale ispiratore dell'ultimo fallito tentativo insurrezionale, caduto qualche tempo dopo nelle mani del B. (dicembre 1478).
Sempre in questo quadro di difesa preventiva delle istituzioni e nell'intento di offrire ai poteri costituiti i mezzi per garantire l'ordine pubblico ed il pacifico svolgimento della vita cittadina sono da vedere i lavori, dal B. promossi e fatti condurre rapidamente a termine, per il riattamento e la messa in opera delle antiche mura di fortificazione, che chiudevano la piazza del Comune, e del complesso delle opere murarie di difesa costruite al di là del ponte sul Parma, in Oltretorrente, a copertura della città; fece anche ricostruire e fortificare le torri del ponte fra Porta Nova e Cò di Ponte, allo scopo di sbarrare l'ingresso, nell'eventualità di disordini, alle bande armate dei fuorusciti. Parallelamente a questa azione, tuttavia, il B. andava svolgendo anche un'intensa opera di mediazione e di convincimento tra le personalità ed i gruppi più responsabili della cittadinanza nel tentativo di giungere, col ripudio della violenza, ad una reale pacificazione delle parti; per raggiungere questo scopo, anzi, si era valso della collaborazione e della parola di un famoso predicatore, il francescano Andrea da Vercelli, allora a Parma. Il B. aveva anche avanzato proposte concrete, come quella di creare un organo che avesse il compito di dirimere le questioni e comporre i dissidi che avrebbero potuto insorgere tra le diverse fazioni od anche i singoli cittadini: il Consiglio generale di cento membri, scelti non dalle fazioni, ma dai diversi gruppi familiari. Ma inutilmente. Non tutti avevano compreso (né a tutti faceva comodo, del resto) l'onestà del programma e degli intenti perseguiti dal governatore ducale: a parte gli attentati e le congiure ordite per eliminarlo fisicamente, per allontanare da Parma un funzionario tanto incomodo si era cercato, nelle classi più alte, di farlo cadere in disgrazia presso la reggente con false accuse.
Il conte Ludovico Valeri, che era stato mandato al confino proprio dal B., per motivi di ordine pubblico, nella capitale del ducato, lo aveva accusato di concussione, di favoreggiamento e di altri delitti contro lo Stato, nel tentativo di far revocare d'ufficio il suo incarico a Parma. Era stata nominata immediatamente una commissione d'inchiesta che, dopo indagini meticolose, aveva constatato la falsità o l'inconsistenza delle accuse, ed aveva concluso la sua relazione con parole di alto elogio e di compiacimento per l'onestà e la giustizia che avevano caratterizzato l'amministrazione del B. (giugno 1478). La reggente ed il duca di Milano, nel notificare agli Anziani della Comunità di Parma i risultati dell'inchiesta, lasciavano intendere fra le righe come ad essi sembrasse opportuno e quel Comune mostrasse tangibilmente al B. la propria riconoscenza per quanto egli aveva fatto in prò della città nel corso di quegli anni: soprattutto perché qualcosa di simile era stato fatto anche per predecessori men degni. E la Comunità aveva assegnato al B. un premio di 1500 lire di imperiali.
Le fatiche e le preoccupazioni della non facile amministrazione ebbero tuttavia ragione del B.: ammalatosi gravemente (febbraio del 1479), chiese con insistenza di essere esonerato dal pesante incarico e di poter ritornare in patria, ma invano. Si era nella fase più dura della lotta per il potere scatenatasi, subito dopo la tragica morte del duca Galeazzo Maria, tra i fratelli dello scomparso da un lato, e il governo della reggente dall'altro, ma in particolare fra Ludovico il Moro ed il vecchio Simonetta. E la reggente aveva bisogno d'aver accanto persone fidate ed oneste su cui poter contare. Per questo - ma forse anche stimando speciosa la ragione addotta dal B. - Bona di Savoia scrisse al suo governatore in Parma, confermandolo nell'incarico e facendogli pervenire in dono una ricca veste e la somma di 50 ducati d'oro. Fu così che nel marzo di quello stesso anno, in ottemperanza a precisi ordini ducali, il B., non ancora completamente ristabilito, riunì il Consiglio di Credenza e fece dichiarare ribelli e nemici della patria Ludovico Maria e Sforza Sforza, che si erano accordati con Roberto di Sanseverino per la conquista del ducato; egli fece anche emanare un decreto che vietava ai feudatari ed alle milizie del Comune, non solo di aprire trattative, ma di mantenere semplicemente i contatti con i due Sforza o con loro aderenti, pena la morte. A quanti, tra i cittadini parmensi, si fossero trovati in quel momento presso i ribelli venne intimato di rientrare in città entro il termine di quindici giorni, sotto pena di ribellione. Le cose erano ormai giunte a questo punto quando al B. fu notificato ufficialmente che, per ordine della Camera apostolica, tutte le sue proprietà in Ancona sarebbero state confiscate, se egli non fosse rientrato immediatamente in patria. Il B. rinnovò pertanto la richiesta di venir rimosso dall'incarico, e chiese licenza di partire, che venne subito concessa dai duchi di Milano. Il 27 di aprile, accompagnato da una scorta d'onore di cento fanti e di sessanta cavalleggeri, da notabili della fazione dei Rossi e dalle alte cariche della Comunità, fatto segno delle più grandi manifestazioni d'affetto da parte del popolo, per porta Bologna il B. uscì dalla città, fra lo squillare delle trombe e il rullare dei tamburi; il corteo proseguì sino a Brescello, dove il B. si imbarcò su di una nave allestita per ricondurlo ad Ancona.
I soli a rallegrarsi dell'improvvisa partenza del B. furono gli aderenti alle "tre squadre". Ed in effetti la scomparsa del Guercio dalla scena politica parmense significava, dopo due anni di civile e pacifica convivenza, la ripresa dei tafferugli e dei disordini insieme con il predominio violento delle "tre squadre". La soddisfazione di queste è sufficientemente testimoniata dalle accoglienze trionfali da esse tributate al successore del B., l'alessandrino Antonio Trotti, che fu ricevuto, al suo ingresso in Parma, dai maggiori esponenti delle fazioni avverse ai Rossi, dal vescovo e dal podestà.
Nonostante il risentimento degli avversari, la commissaria, che il B. aveva amministrato con estremo rigore e grande giustizia pur contro tanti nemici, in realtà garantì a Parma un periodo - purtroppo breve - di operosa tranquillità, così come valse, se non a creare, certo ad accrescere notevolmente la fama del B. come uomo di governo onesto e forte. Le fonti in nostro possesso nulla ci dicono circa i motivi della brusca partenza del B. da Parma; possiamo in parte soltanto intuire le ragioni che indussero il papa Sisto IV a richiamare, in quel modo piuttosto eccentrico, l'anconitano in patria. In un momento tanto difficile come quello che stavano attraversando e l'Italia e lo stesso Stato della Chiesa per l'instabilità dei diversi governi della penisola e per la minaccia turca incombente dal mare, è molto facile che il pontefice non avesse alcuna intenzione di privarsi dell'opera preziosa di un uomo come il Bonarelli.
Ed infatti, dal momento del suo arrivo ad Ancona, è, per il B., tutto un susseguirsi di cariche impegnative e di onori: podestà di Forlì per conto di Gerolamo Riario dalla primavera del 1479; governatore di Romagna in nome di Sisto IV; morto quest'ultimo (12 ag. 1484) ed eletto papa Innocenzo VIII (29 agosto), ambasciatore della Comunità di Ancona per rendere omaggio al nuovo pontefice e per perorare presso di lui gli interessi della propria città; ed il papa, in segno di considerazione, confermava i privilegi e gli statuti di Ancona, condonando la somma di 500 ducati sui tributi che si dovevano alla Camera apostolica, perché servissero al consolidamento delle fortificazioni; appunto da Innocenzo VIII, pochi giorni dopo la sua consacrazione (12 settembre), fu nominato senatore di Roma, carica che ricoprì con onore e comune soddisfazione per ben due anni, riconfermando la sua fama di ottimo amministratore.
Da Sisto IV, che aveva già in precedenza confermato alla sua famiglia i vecchi possedimenti di Torrette e di Castel Bompiano in prossimità di Ancona, con bolla del 7 marzo 1483 il B. era stato creato conte palatino, con diritto di trasmettere il titolo ai suoi discendenti secondo le ragioni ereditarie, ed investito inoltre dei feudi di Torrette e Castel Bompiano. Era il riconoscimento ufficiale dei meriti da lui acquisiti nei confronti della Sede apostolica, ed il segno della riconoscenza del sommo pontefice; ma era anche un gesto di paterna indulgenza, che appagava una delle maggiori ambizioni del B., quella di poter vantare un titolo nobiliare, come lo avevano avuto, nel passato, altre famiglie anconitane come i Ferretti ed i Torriglioni.
Ma fu proprio allora, nel momento in cui sembrava sul punto di raggiungere il massimo del successo, che la carriera politica del B. venne brutalmente interrotta. Quando, scaduto il suo mandato a Roma, il B. si apprestava a lasciare la città per fare ritorno in patria, gli giunse improvvisamente la notizia che il Consiglio della Comunità di Ancona lo aveva condannato al bando perpetuo per aver tramato contro la libertà e l'indipendenza della patria (autunno del 1486). Nonostante le autorevoli e ripetute pressioni del pontefice, subito intervenuto in suo favore, e nonostante la relazione negativa stesa dalla commissione d'inchiesta subito nominata da Innocenzo VIII per esaminare un gruppo di lettere, che secondo l'accusa avrebbero costituito la prova del tradimento del B., ma che risultarono essere invece apocrife, il Consiglio della Comunità di Ancona si rifiutò, nonché di riformare la sentenza, di rivedere soltanto gli atti del processo: volle anzi riconfermare, e con maggiore solennità, la condanna al bando perpetuo lanciata contro il Bonarelli. Furono perfino inviate a Roma, per difendere le motivazioni e la giustizia dei provvedimenti contro il B., l'una dopo l'altra ben due delegazioni di autorevoli personalità anconitane: tanto che il B. - così come il pontefice - dovette rassegnarsi al fatto compiuto.
Non si è in grado di stabilire, sulla base dei documenti pervenutici, quale fosse in realtà il reato che si contestava al B., perché, se le notizie sulla vicenda date dai cronisti contemporanei sono tra loro contrastanti, la versione fornita dai documenti ufficiali, oltre ad essere di parte e quindi prevenuta nei confronti del B., è - almeno su alcuni punti sostanziali - sicuramente reticente. Secondo quanto afferma Lando Ferretti, all'epoca della guerra di Ferrara (maggio 1482-7 ag. 1484) il B. per mezzo di lettere avrebbe informato la Sede apostolica dei segreti maneggi avviati dai responsabili della Comunità per svincolare Ancona dalla dominazione pontificia servendosi dell'appoggio delle potenze della lega antiveneziana. Secondo altri, il B. avrebbe invece denunciato le segrete intese e gli accordi stipulati tra la Comunità di Ancona ed il re d'Ungheria, Mattia Corvino, per ottenerne aiuti ed assistenza militare contro i gravi pericoli - quello turco in specie - che la minacciavano. In ogni caso, potesse o no considerarsi reato l'averne informato la Sede apostolica, di cui Ancona riconosceva l'alta sovranità, e l'avesse o no comunicato effettivamente il B. al pontefice, sovrano legittimo della città adriatica, è comunque un fatto che appunto in quegli anni il Consiglio della Comunità di Ancona, tutto proteso, da un lato, a difendere con l'antico prestigio le antiche libertà cittadine, e dall'altro volto alla ricerca affannosa di aiuti e di assistenza militare, aveva avviato - del tutto indipendentemente ed all'insaputa della Sede apostolica - un'autonoma iniziativa diplomatica, nel corso della quale aveva intavolato trattative dirette col re d'Ungheria così come poco tempo prima, all'epoca della guerra di Ferrara, aveva scavalcato la diplomazia pontificia, trattando direttamente con la Repubblica di S. Marco. E come allora Ancona era stata inclusa, quale entità politica a sé stante, nelle clausole della pace di Bagnolo, così il re d'Ungheria in ossequio alle convenzioni bilaterali strette con la città adriatica interverrà - senza avvisare la Sede apostolica - in aiuto di quella, nel 1486, in occasione della rivolta di Boccolino Guzzoni, e poi ancora di nuovo nell'aprile del 1488, quando, dopo la stipula dell'alleanza con Mattia Corvino, il Consiglio della Comunità di Ancona fece innalzare la bandiera ungherese sulla torre del Magistrato e sui pennoni delle navi. Data la situazione oggettiva di dipendenza dalla Sede apostolica, dunque, non era certamente contro il B. che si sarebbe potuta rivolgere un'accusa di alto tradimento. Tant'è vero che, in un secondo tempo, tutta la vicenda venne interpretata per quello che era effettivamente stata, una congiura montata ai danni del B. da un gruppo politico a lui ostile per eliminarlo dalla vita pubblica anconitana.
Il B. sopravvisse di pochi mesi alla condanna. Il pomeriggio del 13 apr. 1487 venne ucciso proditoriamente da un sicario bolognese o forlivese. Sul delitto non si riuscì a far luce: il nome del mandante rimase sempre ignoto. Le spoglie del B. ebbero onorata sepoltura nella chiesa di S. Maria della Pace, in Roma.
Il B. aveva sposato, in età matura, Francesca Della Scala, figlia di Martino, del ramo marchigiano della celebre famiglia lombarda, e ne aveva avuto due figli, Gabriele e Pietro (che fu poi podestà a Fabriano e a Forlì), ed una figlia, di cui ignoriamo il nome, che più tardi andò sposa a Francesco Cinzio Benincasa, umanista, poeta e valente uomo d'armi. Secondo il Colucci, durante la sua commissaria cremonese, il B. avrebbe dato in sposa all'anconitano Francesco Ferrantini un'altra figlia, Contessa, natagli da Francesca Migliorati; il Colucci, a suo dire, ne avrebbe trovata l'intera documentazione tra le carte del notaio cremonese Corradino di Raffaello. Dato l'assoluto silenzio di tutte le altre fonti, non si è in grado di poter confermare la notizia, che, se fosse vera, implicherebbe o un precedente matrimonio del B. - peraltro ignoto a tutti i documenti in nostro possesso - od una sua relazione con la Migliorati.
Fonti e Bibl.: Ancona, Arch. Stor. Com., Libro delleCommissioni, cc. 29t, 30, 31, 32t; Ibid., Libro Grande giallo deiprivilegi, c. 187; Ibid., ms. 1458: Statuti della Città, cc. 1, 59-93; Ibid., Atti Consigliari, 1430; Ancona, Bibl. Com., G. Albertini, Patres Patriae. Catal. delle famigliepatrizie antiche ed esistentinella città di Ancona, p. 53; Ibid., L. Ferretti, Le Istorie dellaCittà di Ancona, II, pp. 338t-340t; L. Bernabei, Croniche Anconitane, a cura di C. Ciavarini, in Collez. di docc. stor. ant.ined. ed editi raridelle città e terre marchigiane, I, Ancona 1870, p. 202; Chronica gestorum in partibusLombardie..., in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXII, 3, a cura di G. Bonazzi, pp. 13-45, passim; Iohannis Burckardi Liber Notarum ab annoMCCCCLXXXIIIad annum MDVI,ibid., XXII, 1, a cura di E. Celoni, p. 93; C. Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco, Milano 1950, pp. 15, 139, 144, 407, 457, 514; G. N. Doglioni, Anfiteatro di Europa, Venezia 1623, pp. 741-743; G. Saracini, Notizie historiche d'Ancona, Roma 1675, p. 498; A. Vendettini, Serie cronologica dei senatoridi Roma, Roma 1778, p. 98; F. Antonio Vitale, Storia diplomatica dei senatoridi Roma, Roma 1791, p. 469; G. Colucci, Antichità picene..., XXVII, Fermo 1796, pp. 2325; A. Peruzzi, Storia d'Ancona, II, Pesaro 1835, pp. 374 s.; V. Spreti, Encicl. stor. nobiliare ital., II, Milano 1929, pp. 116 s., sub voce; M. Natalucci, Ancona attraverso i secoli, I, Città di Castello 1961, pp. 489-499, passim; C. Santoro, Gli Sforza, s. l. (ma Varese 1968), pp. 174-179 e 182-184.