MARTA, Giacomo Antonio
– Nacque a Napoli il 20 febbr. 1559, come dichiara egli stesso nella prefazione alla sua Compilatio totius iuris controversi (Venezia 1620); meno attendibile è la data del 1557 desumibile dall’atto di morte in cui risulta defunto nel 1629 all’età «d’anni 72» (Paglia, p. 56), mentre nessun riscontro ha quella proposta da Fabroni (p. 212), che anticipa la nascita addirittura al 4 febbr. 1542. Nulla si sa della famiglia d’origine, salvo che un avo del M., di nome Antonio, era stato al servizio della famiglia Gonzaga e particolarmente caro al viceré di Sicilia appartenente a quella famiglia, Ferdinando.
Dal testamento (Paglia, pp. 57-60), è noto che il M. rimase presto orfano e che dall’età di 10 anni fu allevato dai gesuiti, e in particolare fu sotto la protezione del p. Alfonso Salmerón, fondatore del collegio di Napoli. Un profondo sentimento di gratitudine lo legò all’Ordine ignaziano, al quale destinò, alla morte, tutte le proprie sostanze.
A Napoli il M. si formò negli studi giuridici. Tutti gli antichi biografi concordano nel dire che non conseguì mai la laurea, a onta della qualifica di doctor che sempre ostentò nei suoi scritti. La questione resta tuttavia incerta: quando nel 1613 fu accusato dai riformatori dello Studio patavino di essere privo del titolo dottorale, il M. dichiarò di averlo conseguito a Roma (De Paola, doc. LXIII, pp. 140-143). Prima ancora che nel diritto, però, il M. aveva cominciato a formarsi nella filosofia, come allievo di Francesco Antonio Vivolo, professore sia nel seminario sia nello Studio di Napoli. Giovanissimo, intervenne nella polemica sull’immortalità dell’anima agitata dagli «alessandristi», il cui maggiore esponente a Napoli era Simone Porzio. Contro di lui e contro le dottrine di Averroè il M. si scagliò con due opuscoli ispirati alla dottrina di Agostino Nifo da Sessa, già difensore dell’ortodossia cattolica (De immortalitate animae, Venetijs 1521): la Apologia de immortalitate animae adversus opusculum Simonis Portii de mente humana e la Digressio utrum intellectus sit unus, vel multiplicatus contra Averroem (entrambe pubbl. in Simone Porzio, Opuscula… cum Iacobi Antonii Martae … Apologia…, Neapoli, O. Salviani, 1578).
Nel frattempo, il M. aveva intrapreso in patria la professione forense. Già nel 1584 si spostò a Roma, dove esercitò l’avvocatura sotto il patrocinio del cardinale Luigi d’Este.
A destare i suoi interessi era però, ancora, la filosofia, campo in cui, da difensore dell’ortodossia cattolica, prese a suo bersaglio polemico la fisica naturalistica di Bernardino Telesio, esposta nel De rerum natura (1565). Il Pugnaculum Aristotelis adversus principia Bernardini Telesii (Roma, B. Bonfadino, 1587) era già pronto nel 1581 e fu scritto sotto l’influenza di Vivolo. L’accesa difesa delle dottrine tradizionali procurò al M. l’avversione di Tommaso Campanella, il quale, confinato nel convento di Altomonte – proprio perché reo di aver mostrato ammirazione per il pensiero di Telesio – e subito prima di fuggirne alla volta di Napoli, compose in poco più di sette mesi (dal 1° gennaio all’agosto del 1589) la Philosophia sensibus demonstrata (pubblicata nel 1591), con la quale contestò le tesi che il «philosophaster» M. dichiarava di aver partorito in sette anni.
A quel primo periodo romano del M. va ascritta, altresì, la Memoria localis (Roma, B. Bonfadino, 1587), sorta di manualetto per l’apprendimento dell’«arte del ricordare» (presso lo stesso stampatore e nel medesimo anno uscì la versione italiana).
Tra il 1587 e il 1588, il M. fece ritorno a Napoli e assunse per la prima volta le vesti di docente insegnando diritto civile, sia pure come «privato lettore», per poi ottenere – secondo Giustiniani – «una qualche cattedra nella nostra Università» (p. 234); ma quest’ultima notizia è incerta. Presto, comunque, il M. si portò a Benevento «nella nuova erezione degli studi» fatta colà, attrattovi «amplio stipendio» (Chioccarello). Anche lì si fermò solo brevemente, perché già nel 1589 era nuovamente a Roma, lettore di diritto civile alla Sapienza. Non è sicuro, tuttavia, che fosse incardinato nello Studio romano, poiché i rotuli della Sapienza presentano una lacuna per gli anni 1588-91 e in quelli successivi il suo nome non compare (cfr. I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787. I Rotuli e altre fonti, a cura di E. Conte, Roma, 1991, II).
In quegli anni il M. compose la prima opera di argomento giuridico, il Tractatus de tribunalibus Vrbis, & eorum praeventionibus, che uscì insieme con le Decisiones di Marcello Crescenzi (Roma, M.A. Moretti, 1589). A questo secondo soggiorno romano va assegnata, altresì, l’Epistola qua ordo theatri Curiae Romanae explicatur… (Roma, G. Ruffinelli, 1589; edizione italiana nello stesso anno e presso lo stesso stampatore). Con essa il M. preannunciava il lavoro di selezione e riordinamento delle decisiones, in vista di una loro sistemazione razionale, che avrebbe trasfuso nella Compilatio totius iuris controversi e che avrebbe dovuto completarsi con un repertorio ordinato secondo l’articolazione (il «theatro») della Curia romana. Entrambi questi lavori, peraltro, sembrano dettati anche dal desiderio di accattivarsi il favore della Curia e ottenere, così, incarichi di prestigio.
Dal 1597-98 – come risulta dai rotuli dello Studio, mentre il M. nella lettera ai riformatori padovani fa risalire l’inizio al 1595 – al 1602-03 tenne «l’ordinario civile della sera» nell’Università di Pisa, dove ebbe dispute con Alessandro di Rho. All’insegnamento pisano sono da ricondurre le Repetitiones in rubricam et l. I. ff. soluto matrimonio, e quelle in rubric. et in l. I. ff. de novi operis nunciatione (Firenze, G. Marescotti, rispettivamente del 1599 e del 1600), le quali ultime contengono anche le Disputationes e la Methodus probanti in utroque iure. Allo stesso periodo, ma pubblicate quando ormai (stando a Fabroni) il M. si era allontanato da Pisa, sono da assegnare le Decisionum novissimarum almi Collegii Pisani… vota… (Venezia, 1608; altra ed., ibid. 1614).
Sembra che al termine del primo quadriennio di docenza il M. rifiutò il rinnovo dell’incarico. Mancano, però, notizie per gli anni immediatamente successivi, anni che, stando al suo testamento, non dovettero essere particolarmente felici.
Nel 1608 si trovò in gravi difficoltà economiche, tanto che i suoi beni in Napoli furono venduti a istanza dei creditori «per otto mila scudi d’oro». Il M. intraprese lite «super lesione» davanti al Sacro Regio Consiglio per dimostrare che il valore dei beni era maggiore di quanto stimato, «et detti miei beni furono estimati ducati di Napoli quindeci mila et questa lite ancora sono in pendente» (Paglia, p. 59). Nel suo testamento il M. dichiarò di aver versato nel 1621 al Banco di S. Giorgio di Genova 2000 scudi d’oro, affinché fruttassero fino a formare la somma di 8000 scudi di Napoli, con i quali poter riscattare i beni forzatamente venduti. Avvertiva i gesuiti – istituiti suoi eredi universali – che la rivalutazione si sarebbe verificata con il decorso di circa dieci o undici anni, dopodiché sarebbe stato possibile riscattare i beni. Apertasi però la successione, «li 2000 scudi d’oro sul Monte dopo tante ricerche si trovò che non esistevano» (Gorzoni, p. 178). Allo stesso periodo risale l’ulteriore indebitamento di «tre milla e cinquanta un ducato del Regno di Napoli» (Paglia, p. 59) verso tale Giovanni Vincenzo de Lucca e suoi eredi, «per una sicurtà» che costui aveva pagato, in favore del M., a Fabio Albergati, padre di Antonio Albergati, dal 1610 nunzio a Colonia (Reinhard, pp. 214 s.). Nel testamento il M. dichiarava di aver restituito a de Lucca, tra il 1610 e il 1611, 1800 scudi. Per il resto, se non fosse riuscito a estinguere il debito prima di aver restituito l’intero, incaricava i gesuiti di provvedervi con l’attivo ereditario. Dichiarava altresì che contro Fabio Albergati aveva intentato un giudizio davanti alla Rota Romana, per la restituzione di «cinque milla scudi pagati d’usure al dicto S. Fabio», aggiungendo che «nella dicta causa ho avuto tre decisioni a favore» (Paglia, p. 59). De Paola mette in relazione la disfatta economica con la pubblicazione del trattato De iurisdictione, che rese il M. inviso alla corte pontificia. Sembra, tuttavia, che i debiti risalissero a un periodo precedente.
Secondo Giustiniani, nel 1609 il M. si trovava nuovamente a Roma, dove aveva assunto un altro incarico di docenza alla Sapienza, ma ancora una volta il suo nome non compare nei rotuli ufficiali dello Studio. In quell’anno, comunque, pubblicò a Magonza il Tractatus de iurisdictione per, et inter iudicem ecclesiasticum, et saecularem exercenda, in omni foro, et principum concistorii versantibus maxime necessarius.
L’opera, che conobbe numerose edizioni successive e fu dedicata a Paolo V (il I libro) e al cardinale Ottavio Pallavicino (il II), tratta della giurisdizione in generale, delle cause miste e della prevenzione, dei monitori e della censura, della soggezione dei chierici alla giurisdizione laica. Essa segna «una svolta nella vita del Marta ed una rottura che si dimostrerà definitiva con la cultura in cui era nato e si era formato» (De Paola, p. 18). Fu infatti condannata dalla congregazione dell’Indice con decreto del 2 apr. 1610 (cfr. De Bujanda) e comportò la definitiva rottura con la Curia romana, dalla quale il M. si allontanò per trovare rifugio nella Repubblica di Venezia. Però, i contenuti eversivi del trattato non dovevano essere così marcati se, da un canto, il nunzio, mons. Berlingerio Gessi, appoggiò la chiamata del M. a Padova come lettore di diritto canonico e, dall’altro, Paolo Sarpi fu tra coloro che si opposero alla stessa chiamata perché giudicavano il M. troppo «papista» per dare garanzie di difendere le posizioni guadagnate dalla Repubblica nella contesa per l’interdetto (Cozzi, 1957, p. 131). E in epoca recente esso è stato giudicato da Jemolo «libro prettamente curialista» (p. 135 n. 1).
Giunto a Padova, il M., succedendo a Sebastiano Montecchi, dal 6 ott. 1611 assunse l’insegnamento nella «prima iuris canonici schola ordinaria pomeridiana», come lettore del terzo, quarto e quinto libro delle Decretali, «con stipendio de fiorini 650 all’anno», che nel 1615 aumentarono a 800 (Facciolati, p. 94; De Paola, p. 22). Passò, successivamente, alla «secunda iuris civilis ordinaria pomeridiana», mantenendo la paga di 800 fiorini, come lettore della prima e seconda parte del Digestum novum; conservò tale incarico fino alla partenza per Pavia nel 1622.
Fin dal 1611, il M. entrò in contatto, a Padova, con l’ambiente di Paolo Sarpi e di Cesare Cremonini. Lo prova la Appendix ad relationem Fulgentianam, redatta in quel periodo e destinata all’ambasciatore inglese a Venezia, sir Dudley Carleton, nella quale il M. svolse osservazioni – che si aggiungevano a quelle già formulate sul tema da Fulgenzio Micanzio – circa i nuovi cardinali creati da Paolo V nell’agosto del 1611 (De Paola, doc. I, pp. 55-57).
Dal giugno 1612 al secondo semestre del 1615 il M. intrattenne una corrispondenza segreta con i dignitari a Venezia del re d’Inghilterra, Giacomo I, e particolarmente con l’ambasciatore Carleton, al quale passava notizie relative alla corte di Roma, dove aveva informatori, venendo stipendiato dalla corte inglese (ibid., docc. XXI, XXII). Secondo Cozzi (1969, p. 640), «lo scopo dell’azione politica comune del Sarpi e del Carleton» – alla quale dava ora il proprio apporto anche il M. – «era di promuovere un’alleanza tra la Repubblica di Venezia, il Duca di Savoia, le Province Unite d’Olanda, l’Inghilterra e l’unione protestante di Halle, in previsione della guerra contro il blocco asburgico-pontificio, che Sarpi auspicava quale unico mezzo per introdurre l’“Evangelio” – come egli diceva – in Italia: guida di tale alleanza avrebbe dovuto essere Giacomo I d’Inghilterra, come il più potente dei principi riformati». Del carteggio ebbero comunque contezza, fin dal principio, i rappresentanti del governo pontificio a Venezia, grazie anche all’opera di controspionaggio prestata dal sacerdote inglese Tobie Matthew.
Il carteggio del M. con Carleton – che corse parallelo a quello intrattenuto da Paolo Sarpi con il diplomatico (agosto 1612 - ottobre 1615) – s’interruppe con la partenza di quest’ultimo da Venezia, nel 1615. Già da qualche mese, però, i rapporti fra i due si erano raffreddati perché, a quanto pare, il M. aveva cercato di scavalcare Carleton e far pervenire direttamente al re le notizie sulla corte pontificia «levandone a lui il merito» (il nunzio al cardinale Borghese, 30 ag. 1614, in Savio, p. 63).
L’appoggio del M. alla politica inglese non si limitò all’azione diplomatica, ma si tradusse anche in scritti che si inserirono nella polemica scaturita dal giuramento di fedeltà imposto ai cattolici da Giacomo I (1606), nella quale lo stesso sovrano era intervenuto con la Triplici nodo, triplex cuneus, e con altri scritti. Il M. ne sostenne le tesi sotto lo pseudonimo di «Novus homo» con la Supplicatio ad imperatorem, reges, principes, super causis generalis concilii convocandi. Contra Paulum Quintum (Londra MDXIII [ma 1613]; tradotta in inglese e pubblicata sempre a Londra nel 1622; in De Paola, doc. CXXIV, pp. 215-242). Il M. affermava che l’opera era stata ristampata anche a Heidelberg, con il titolo Novus, et magnus homo per extinctionem Sedis Apostolicae Romanae (ibid., doc. XCVIII, p. 185).
Si compone di una dedica a Giacomo I, affinché si convochi un concilio che possa purificare la Chiesa di Roma. Il concilio era indicato come necessario sia perché, secondo il M., da Sisto V in poi tutte le elezioni erano state illegittime, in quanto F. Peretti era giunto al pontificato con metodi simoniaci, sia per contrastare la notoria simonia di Paolo V. Nel carteggio con Carleton, il M. annunciava di aver posto mano a un secondo libro sull’argomento, l’Apologia per la difesa della religione di S. M. (De Paola, doc. LXXXI, p. 166). Che dietro lo pseudonimo di «Novus homo» si celasse il M. fu subito chiaro alla diplomazia pontificia in forza di una serie di «gagliardissimi inditii» (Savio, pp. 73 s.; Reinhard, pp. 211 s.). Il nunzio, tuttavia, non riuscì a impedire che l’opera circolasse a Venezia, specialmente fra i nobili, canale privilegiato per l’introduzione di libri stranieri nella Serenissima; poté solo tamponare la situazione evitando che fosse ristampata da Ciotto o da Meietti, noti distributori – specialmente il secondo – di libri proibiti.
Le fonti superstiti dimostrano che la Curia cercò altresì – come fece anche nei riguardi di altri «teologi cattivi» dopo l’emanazione dell’interdetto (1606) – di attirare il M. a Roma, con profferte di incentivi e promesse di impunità. Egli però non si fece persuadere dalle lusinghe della corte pontificia né cadde nella rete. Nel 1613 il nunzio a Venezia gettò la spugna: «io non vedo riuscibile d’indurlo da sé a domandare partito in Roma» (il nunzio al cardinale Borghese, 24 ag. 1613, in Savio, p. 64), sebbene i tentativi proseguirono almeno fino all’ottobre 1618 (ibid.). Sempre dal carteggio con Carleton si ricava che dissidi insorsero anche fra il M. e i dottori dello Studio di Padova sulla questione del conseguimento del titolo dottorale.
Al periodo padovano, ma risultato di una fatica iniziata molto prima, appartiene la principale fra le opere giuridiche composte dal M., la Compilatio totius iuris controversi.
La Compilatio, che dopo quella del 1620 conobbe successive edizioni, è il frutto di un lavoro cominciato nel 1589, come attestato dall’Epistola qua ordo theatri, che disegnava il piano dell’opera; e forse era già sostanzialmente conclusa quando il M. si trovava a Pisa, poichè ne annunciava la pubblicazione e ne esponeva lo schema nella Notitia compilationis digestorum... (Venetjis 1611). Con questa opera, dedicata a Filippo III di Spagna, il M. intese offrire un repertorio della giurisprudenza di ben 54 tribunali supremi (14 dei quali stranieri), suddiviso per materia e con fini di riordinamento, sull’esempio del Digesto. I sei tomi in cui è distinta, raccolti in tre volumi, riguardano la procedura civile, quella criminale, i contratti, i feudi, le successioni, i benefici e le materie spirituali. Essa conferma sia la scelta del M. per le decisioni dei tribunali supremi, intese come fonte giuridica privilegiata e al contempo decisiva per la soluzione dei casi dubbi, sia la sua ricerca di un loro ordine sistematico: un indirizzo, questo, che risulta diffuso nella scienza giuridica tra Cinque e Seicento e del quale il lavoro del M. è forse l’espressione più alta (Birocchi, p. 271).
Al periodo padovano è pure da ascrivere un altro importante lavoro del M., il Tractatus de clausulis, de quibus in omnibus tribunalibus hucusque disputatum est… (Venezia 1612; con successive edizioni), dedicato al cardinale Scipione Borghese. Sempre al periodo padovano sono da assegnare, infine, la memoria De li dottori et lettori che lessero gli anni dal 1611 al 1618 fogli sciolti (Padova 1620), menzionata nell’inventario dei beni del M. (in Paglia, p. 62), ma non pervenuta, e due elogi funebri per il marchese Cesare Pepoli (in Sinibaldo Biondi, Funebris pompa ill.mi et ex.mi Caesaris Pepuli marchionis celebrata Bononiae anno 1617, Bononia 1618, pp. 42 s.).
Lasciata, infine, Padova, dal 1622 al 1625 il M. fu all’Università di Pavia, chiamato dal Senato di Milano come titolare della prima cattedra pomeridiana di diritto civile, con lo stipendio annuo di 4800 lire milanesi. Dall’insegnamento pavese discendono le Praelectiones Papienses super l. qui Romae § duo fratres, D. de verborum obligationibus (Pavia 1622). Sempre all’insegnamento nello Studio pavese si deve la Summa totius successionis legalis (Lione 1623-27), dedicata a Carlo Tapia, marchese di Belmonte.
Nel 1625 il M. si spostò all’Università di Mantova, chiamato «ad erigendum, et ordinandum novum studium Universitatis in hac Civitate» (Consilia, cons. 167, n. 1) al tempo del duca Ferdinando Gonzaga. Le trattative per il passaggio a questa Università risalivano già al 1621, quindi agli anni della «persecutio Patavina» – come intitolò l’opera in cui raccontò il dissidio con i riformatori dello Studio, nota solo attraverso il suo inventario (Paglia, p. 74) – e sono da porre in connessione con essa. Proseguiti i contatti, nel giugno 1625 il M. si mostrava disponibile a impegnarsi a Mantova «nel primo lavoro d’ordinario in Civili della sera», per lo stipendio «di scutti mille da libre sei di Milano l’uno» e proponeva di stampare una specie di ordine degli studi («un libretto concernente li privilegii, gratie et favori che doverà havere il studio et scolari, col nome de lettori che haveranno da leggere»), da pubblicarsi nel mese di agosto, «acciò si sappia che il studio s’aprirà a 1° novembre prossimo» (ibid., pp. 65-67): è il Sommarium privilegiorum Gymnasii Mantuani (Mantova 1625), annotato nell’inventario dei suoi beni ma non pervenuto (Paglia, p. 62). Dalla stessa lettera risulta anche che il M. suggeriva di riformare l’organizzazione dello Studio con la creazione di collegi modellati sul collegio Ferdinando di Pisa.
A Mantova, il 5 nov. 1625, il M. tenne in S. Pietro l’orazione inaugurale del nuovo Studio, affidato ai gesuiti, edita come De Academiae Mantuanae institutione et praestantia, oratio (Mantova 1626). Al suo impegno nello Studio mantovano si connettono, poi, gli opuscoli De li dottori et lettori che lessero gli anni 1625 al 1627 in Mantova, e Delle lettioni che si leggono ne’ studi (entrambi Mantova 1628), menzionati nell’inventario dei beni (Paglia, p. 62) ma non pervenuti.
Al periodo mantovano è da ascrivere, infine, l’ultima opera pubblicata dal M., cioè la raccolta di Consilia (Torino 1628).
Per Giustiniani, il soggiorno mantovano sarebbe stato inframmezzato da un periodo trascorso ad Avignone, ma sulla notizia mancano particolari.
Nel 1627 il M. era, comunque, di nuovo a Mantova. Secondo gli antichi storici mantovani (cfr. Volta), nella contesa per la successione al Ducato, dopo la morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga nel dicembre di quell’anno, il M. prese le parti di Ferrante Gonzaga, duca di Guastalla. Questo gli costò, una volta affermatosi Carlo I Gonzaga Nevers, la prigione, nell’aprile 1628 (Gorzoni, p. 177).
Il M. morì in carcere il 22 sett. 1629 (atto di morte, ed. Paglia, p. 56). Fu sepolto nella chiesa dei gesuiti di Mantova, sotto il gradino dell’altare di S. Ignazio.
Ai padri gesuiti, che aveva nominato suoi eredi con il testamento del 27 maggio 1628, lasciò mandato di «custodir la mia libreria et non permettere che delle mie scritture che trovassero imperfette si stampi alcun mio libro postumo, perché io desidero che nessun libro che non ho stampato in vita sia stampato dopo morte» (Paglia, pp. 58 s.).
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