GROMO, Giacomo Antonio
Nacque a Biella verso il 1520 da Ludovico di Pietro e da Caterina di Sebastiano Gromo.
Apparteneva a uno dei tanti rami secondari della celebre famiglia biellese e non era imparentato né con il ramo che fu investito ai primi del Cinquecento della contea di Ternengo né con quello che ottenne in feudo, alla fine dello stesso secolo, la contea di Trana; la madre proveniva invece dalla branca dei Gromo d'Ivrea. Ebbe forse due fratelli, Vercellotto e Sebastiano.
Fonte quasi esclusiva sulla vita del G. è la Vitta dell'autore - autobiografia romanzata condotta fino all'arrivo a Padova, probabilmente nel 1570 -, premessa all'unica sua opera giuntaci, manoscritta, la Gromida. Alla fine degli anni Trenta il G. si trasferì a Ivrea e mise su famiglia, se, secondo il suo racconto, durante l'assedio, poi respinto, che i Francesi posero alla città nel dicembre 1543, egli, "sollo capo di famiglia", ebbe la casa tutta piena di soldati spagnoli del governatore di Milano Alfonso d'Ávalos marchese del Vasto. In questa occasione avvenne l'episodio che impresse una prima svolta alla sua vita. Egli narra che, vedendo morire davanti ai suoi occhi in un sol giorno, lacerati dai colpi dell'artiglieria assediante, un amico, un capitano napoletano e parecchi uomini, decise di dedicarsi allo studio della strategia militare e di intraprendere la carriera delle armi.
Gli anni, da questo punto di vista, erano propizi, poiché nel 1536, con l'invasione dei territori sabaudi a opera di Francesco I, si era aperto un conflitto che, opponendo i Francesi agli Imperiali accorsi a difesa del malcapitato duca di Savoia Carlo II, si allargò a tutto il Piemonte, sconvolgendone ovunque le strutture civili ed economiche, fino al 1559.
Il G. si arruolò nell'esercito imperiale e venne impiegato non solo al servizio dei vari luogotenenti cesarei in Italia, il marchese del Vasto, Ferrante Gonzaga, Ferdinando Álvarez de Toledo duca d'Alba, ma pure, a suo dire, direttamente dall'imperatore Carlo V e dal figlio ed erede Filippo, al cui seguito sembra si trovasse quando questi passò in Inghilterra nel luglio 1554 in occasione del matrimonio con Maria Tudor e dal quale subito dopo, nell'agosto, venne inviato a Renty, in Fiandra, dove l'imperatore si trovava assediato dalle truppe di Enrico II.
Sempre secondo il resoconto dell'autobiografia, il G. era ormai divenuto uomo di fiducia dell'imperatore, tanto che venne investito da lui e dal figlio di un'importante missione in Lombardia: quella di trattare il doppio matrimonio, destinato a rafforzare i legami del patriziato milanese con l'Impero, fra il marchese Giovan Giacomo Trivulzio e Antonia d'Ávalos, sorella del nuovo luogotenente imperiale in Italia Francesco Ferdinando marchese di Pescara, da una parte, e fra la sorella di Giovan Giacomo, Barbara Trivulzio, e il filocesareo conte Francesco Landriani dall'altra.
Nonostante il doppio contratto - secondo quanto riferisce il G. - fosse stato sottoscritto con l'assenso delle due parti alla presenza sua e del governatore interinale del Milanese cardinale Cristoforo Madruzzo, di lì a poco i Trivulzio presero a osteggiare il secondo progettato matrimonio, tanto che il Landriani, vivamente risentito, non esitò a far rapire dal monastero milanese, in cui era stata posta in attesa delle nozze, la giovane Barbara, facendola condurre nel suo castello di S. Giorgio, presso Legnano. Fra gli esecutori del rapimento, da collocare nei primi mesi del 1557, vi fu anche il G., il quale, in base al suo vivace racconto, solo liberandosi a stento dall'opposizione di ottanta monache e tre frati, e dalla reazione di nobili e popolo accorsi, poté portare a compimento il mandato ricevuto.
L'avvenimento ebbe serie ripercussioni a Milano, tanto che il G. dovette subito riparare a Biella e a Ivrea, che erano cadute nel frattempo sotto il dominio dei Francesi, non esitando a porsi al loro servizio. Solo così si spiegano le missioni che il G., sempre secondo la sua testimonianza, ebbe a ricoprire per conto del governatore d'Ivrea Pierre de Montbasin, del suo luogotenente Michele Antonio di Saluzzo signore della Manta, del maresciallo Carlo di Cossé signore di Brissac, nonché del re Enrico II, e che lo videro in rapidissima successione a Torino, sotto Cuneo assediata, in Piccardia, dopo la battaglia di San Quintino (agosto 1557), e ancora nel territorio piemontese controllato dal re di Francia.
Negli anni successivi si moltiplicarono più che mai i viaggi e gli spostamenti che portarono il G. in giro per l'Europa, forse brevemente anche nel Nuovo Mondo, come farebbero pensare l'accenno nell'autobiografia a "molte corerie lunghe" fatte sull'Oceano e due poesie composte dall'amico tedesco Konrad Keller che compaiono a presentazione della Gromida. Il G. fu così di nuovo in Fiandra, poi in Zelanda, Scozia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Prussia, Polonia, Spagna, Francia, Inghilterra, Ungheria, Germania. Tutti questi viaggi sarebbero stati compiuti fra il 1558 e il 1564, la più parte per svolgere missioni su incarico di Filippo II di Spagna e dell'imperatore Ferdinando I (sembra che il G. ricoprisse pure in questo tempo la carica di assessore della Camera imperiale di Spira). Nel giugno 1564 si recò ad Augusta a rendere omaggio al nuovo imperatore Massimiliano II succeduto al padre. In questi anni avrebbe ricevuto i titoli di conte palatino e di cavaliere aurato, che campeggiano nelle dediche delle poesie scritte in sua lode dal Keller.
Anche in seguito la vita del G. fu costellata da una lunga serie di viaggi; mentre si trovava in Inghilterra, ebbe, a suo dire, una visione, che gli additò la via dell'alchimia e gli anni successivi, pur senza interrompere i viaggi, sembra fossero tutti impiegati nell'approfondimento dei segreti di quest'arte. Dopo essere tornato per qualche tempo in Piemonte ed essere stato, pare, impiegato dal duca Emanuele Filiberto in alcuni negozi, verso il 1570 il G. si stabilì a Padova, dove sarebbe rimasto per un trentennio, dedicandosi ai suoi studi.
Nell'ambiente padovano il G. dovette trovare un clima adatto ai suoi interessi, che spaziavano ormai dalla strategia militare degli antichi alla ricerca nel campo dell'artiglieria e della balistica, dalla medicina alla iatrochimica e alla vera e propria alchimia. Nel gennaio 1575 indirizzò, forse testimonianza di un rapporto mai interrotto con la corte sabauda, due lettere a Emanuele Filiberto di Savoia, nelle quali raccomandava al duca un suo "collega", il veneto G.A. Cornero, che, a suo dire, era in grado di mettere in pratica il vero ordine militare dei Romani. A Padova quasi sicuramente il G. dovette maturare l'idea di scrivere un'opera che riassumesse le esperienze fatte avventurosamente per tanti anni ai servizi dei potenti e soprattutto gli esiti cui erano pervenuti i suoi studi in campo militare-medico-alchemico. Con un termine coniato sul suo cognome intitolò il libro Gromida.
L'opera consta di due parti distinte: nella prima, che ha funzione introduttiva, si trovano due elegie e dieci odi latine scritte a celebrazione del G. e delle sue imprese "erculee" da Konrad Keller, professore del ginnasio ducale di Bebenhausen (Württemberg). La prima sezione della seconda parte è costituita dalla citata Vitta dell'autore: lo scritto ha un evidente intento autocelebrativo e contiene verosimilmente una buona parte d'invenzione, dato che nessun accenno al G. è reperibile nella bibliografia più consolidata sui fatti cui egli afferma di aver partecipato. L'unica data che vi compare è quella iniziale del 1537, quando si sarebbe recato a Ivrea; la cronologia di tutti gli altri avvenimenti narrati si deve dedurre, laddove è possibile, dal racconto; tuttavia, anche se taluni dati sono inesatti, non sembra che il G. abbia tradito la verità sostanziale degli eventi.
La Gromida comincia effettivamente con la seconda sezione, divisa in XXXIV capitoli. Nei capitoli I-XVI il G. discorre, spesso ricorrendo a disegni, dell'ordine delle centurie romane, delle disposizioni tattiche degli eserciti, dei modi di costruire micidiali palle da cannone, mine volanti, bombe a mano, della predisposizione di gas asfissianti da impiegare in battaglia; nei capitoli XVII-XXIV si occupa invece di iatrochimica, ovvero studia tutti i preparati di natura vegetale, animale, minerale, che, secondo le conoscenze del tempo, permettevano di sanare ferite, stagnare il sangue, curare malattie, preservare da epidemie. L'interesse del G. è comunque sempre rivolto principalmente alle milizie, e nei successivi capitoli XXV-XXVIII egli affronta i problemi connessi con le truppe di mare, per il cui sostentamento studia pure i modi per produrre artificialmente cibi, per conservare quelli naturali e per curare le più comuni malattie di bordo. I capitoli XXIX-XXXIII sono quelli più specificamente dedicati all'alchimia, e il G. vi tratta di alcuni fra i più noti quesiti che interessavano gli scienziati dell'epoca, come quello della mutazione dei metalli vili in preziosi. Dopo l'ultimo capitolo, dedicato al modo di scrivere in cifra, l'opera si chiude con una terza sezione, non divisa in capitoli, in cui sono raccolte in ordine sparso un numero considerevole di ricette contro malattie di ogni genere.
La Gromida è trasmessa da un solo manoscritto, conservato nella Biblioteca reale di Torino (Militaria, 274) e proveniente dalla biblioteca del duca di Genova. Fu esemplato sull'originale - della cui esistenza si ha notizia nel XIX secolo e che è ora introvabile - fra il marzo 1602, data apposta al termine di una delle poesie proemiali del Keller, e il 1619, data della nota di possesso. Un'altra copia, risalente agli inizi del XIX secolo, è oggi irrintracciabile.
Nel 1601 il G., su invito del duca Carlo Emanuele I, ritornò in Piemonte e si stabilì a Torino insieme con un suo socio veneziano, come riferì nel dicembre di quell'anno l'ambasciatore della Serenissima, il quale ci informa pure che il duca - che si dilettava assai di alchimia, nella speranza di poter avere in breve gran quantità d'oro - aveva donato al G. la terra di Dogliani (Cuneo) con titolo di marchese, esentando pure dalle tasse alcuni suoi parenti. Benché pure il Keller, in alcune sue dediche, faccia il G. marchese di Dogliani, il titolo fu goduto in quegli anni nel breve volgere di tempo da più personaggi, né questa donazione compare mai nei registri di infeudazione esistenti presso l'Archivio di Stato di Torino.
La morte del G. è da porsi con ogni probabilità non molto oltre il 1603; ultimo dato certo una ricetta citata nella Gromida dal Liber de priscorum philosophorum verae medicinae materia… del medico francese Joseph Duchesne, pubblicato a Saint-Gervais (presso Ginevra) in quell'anno.
Fonti e Bibl.: Riguardano famiglia, feudi ed eventi qui riferiti, ma senza menzionare il G.: Arch. di Stato di Biella, Famiglie, Gromo di Ternengo, mm. 19, 69, 95, 115; Arch. di Stato di Torino, Archivio di corte, Inventario paesi, città e provincia di Saluzzo, ff. 116-117; Sezioni riunite, Inventario patenti controllo Finanze 1300-1717, D-G, pp. 680-685; Inventario Camera dei conti Piemonte, patenti 1551-1625, A-G, ad indicem; Inventario investiture superstiti 1504-1797, ad indicem; Inventari feudi, nn. 313, cc. 102r-120v; 314-316, ad indicem; Inventario consegnamenti, s.v.Dogliani; Arch. di Stato di Milano, Fondo Trivulzio milanese, cart. 515; Fondo Trivulzio novarese, cart. 102; Fondo Finanze, Confische, cartt. 1604, 1606; Torino, Biblioteca Reale, A. Manno, Il patriziato subalpino, III, Diz. genealogico, 4 (dattiloscritto), s.v.Capris, pp. 321-333, 335-342; Origine di casa Gromo, s.l. né d. [ma circa 1630], pp. 1-15 e tavola genealogica; G.T. Mullatera, Memorie cronologiche e corografiche della città di Biella, Biella 1778, pp. 93, 170, 175, 181, 187 s.; V. Angius, Sulle famiglie nobili della monarchia di Savoia, I, 2, Torino 1841, pp. 825-827, 836 s., 850-866; F. Guasco Di Bisio, Diz. feudale degli antichi Stati sardi e della Lombardia (dall'epoca carolingia ai nostri tempi 774-1909), II, Pinerolo 1911, pp. 699 s.; L. Borello - M. Zucchi, Blasonario biellese, Torino 1929, pp. 28-30; Parlamento sabaudo, a cura di A. Tallone, I, 6, Bologna 1932, pp. 122, 253, 430, 444; 7, ibid. 1933, pp. 2, 414; Storia di Torino, II, a cura di R. Comba, Torino 1997, ad indicem; III, a cura di G. Ricuperati, ibid. 1998, p. 54. Riguardano personalmente il G. le seguenti opere: F. Mutinelli, Storia arcana e aneddotica d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori, III, Venezia 1858, pp. 254 s.; C. Promis, Gli ingegneri militari che operarono e scrissero in Piemonte dal 1300 al 1650, in Miscellanea di storia italiana, XII (1871), pp. 460-462; A. Manno - V. Promis, Bibliografia storica degli Stati della monarchia di Savoia, I, Torino 1884, pp. 293 s. n. 4102, 326 s. n. 4590; D. De Tuoni, Episodio inedito del 1557, in Arch. stor. lombardo, LXXXIV (1957), pp. 424-433; F. Cognasso, Nota a D. De Tuoni, Episodio inedito del 1557, in Boll. storico-bibliografico subalpino, LVII (1959), p. 240; L. Bona Quaglia - S. Tira, Gromida: alchimia e versificazione latina in un manoscritto torinese del primo Seicento, in Studi piemontesi, XXIII (1994), 1, pp. 23-58.