ACONCIO, Giacomo (anche Acontio, Concio, lat. Acontius)
Fu uno dei fuorusciti italiani aderenti alla Riforma. Nacque a Trento, di famiglia originaria della Val di Sole, secondo alcuni il 7 settembre 1492; il Ruffini Avondo sostiene invece, con buone ragioni, una data più tarda, intorno al 1520. Poco si sa della sua vita sino al 1557, quando si rifugiò in Svizzera. Dalla sua Epistula ad J. Wolfium (scritta da Londra nel 1562) si ricava che passò una buona parte della vita "tra le insulsaggini di Bartolo e di Baldo e di gente della stessa farina", e che occupò cariche ufficiali, solo tardi avvicinandosi ad politiores musas. Fu infatti notaio a Trento e segretario del cardinale Cristoforo Madruzzo. Oltre agli studî giuridici, Aconcio dovette fare studî profondi di matematica, meccanica e ingegneria, perché acquistò gran riputazione quale ingegnere di fortificazioni militari; e studî non meno vasti di filosofia e teologia, come si rileva dagli scritti a cui deve la sua importanza storica. Probabilmente in Trento e durante gli anni del Concilio fu guadagnato alle idee della Riforma e contrasse amicizia col romano Francesco Betti, familiare del marchese di Pescara; il Betti nell'agosto del 1557 fuggì a Basilea, dove Aconcio lo raggiunse nell'ottobre. A Basilea, dov'era un largo gruppo di fuorusciti italiani, l'Aconcio scrisse probabilmente l'anonimo Dialogo di Giacomo Riccamati, opera di propaganda protestante, in cui si trovano già alcuni dei motivi sviluppati negli Stratagemata Satanae. Indi i due amici si recarono a Zurigo, dove Aconcio diede gli ultimi tocchi al suo trattato De Methodo, pubblicato nel 1558 a Basilea dallo stampatore italiano Pietro Perna. Da Zurigo passò a Strasburgo, dove tuttavia non dovette dimorare a lungo, perché nel 1559 lo troviamo già a Londra. Quivi contrasse amicizia con G. B. Castiglioni, maestro d'italiano e gentiluomo di camera della regina Elisabetta. Nel dicembre 1559 Aconcio domandava alla regina la patente per alcune sue invenzioni meccaniche di uso pratico. La patente gli fu negata; però il 27 febbraio 1560 la regina lo prendeva ai servizî dello stato quale ingegnere dì fortificazioni, e gli assegnava una pensione annua di sessanta sterline. Nell'ottobre del 1561 otteneva la cittadinanza inglese. Nel 1565 Aconcio domandò ed ottenne dalla regina e dal Parlamento il permesso di prosciugare a sue spese un tratto di duemila acri di terreno paludoso sulle rive del Tamigi, nelle parrocchie di Erith, Lesnes e Plumstead. La concessione era valida per quattro anni, e garantiva ad Aconcio il possesso perpetuo della metà dei terreni prosciugati. Pare che riuscisse a prosciugarne seicento acri, e che nel 1566 formasse col Castiglioni e con altri una compagnia per ottenere altre concessioni. Probabilmente morì poco dopo.
Da una lettera di P. Ramus ad Aconcio (probabilmente della fine del 1565) si rileva che il nome di Aconcio, quale matematico e ingegnere, era e praeclaris ingenii monumentis orbi notum atque illustre; Ramus concludeva: mirifico desiderio teneor tua omnia perlegendi ac cognoscendi, praesertim si geometricum aliquid et mechanicum commentatus es. Ma delle opere dell'A. su tali argomenti non conosciamo che lo scritto intorno alle fortificazioni, composto prima in italiano e poi tradotto o meglio rifatto in latino (novum paene opus, nell'Ep. ad Wolfium) durante l'esilio. Il Mazzuchelli (Scrittori d'Italia, I, p. 112) assicura che il lavoro fu pubblicato sotto il titolo Ars Muniendorum Oppidorum a Ginevra nel 1585. Però questa indicazione è ritenuta come dubbia, perché nessuna copia del libro si è ritrovata sinora. Sembra tuttavia che la pubblicazione di esso fosse avvenuta, poiché il nome dell'A. si trova nell'elenco degli scrittori sulle fortificazioni nella Bibliographia militaris di G. Naudé, che è un estratto della maggiore opera dello stesso autore Syntagma de studio militari stampata a Roma nel 1638 (p. 504 segg.). Negli archivî inglesi (Record Office C. P. P., 1564-1565, N. 152) vi è una relazione inedita sulle fortificazioni di Berwick dell'A., che fu mandato ad ispezionarle nel 1564.
Per il trattato De Methodo, hoc est, de recta investigandarum tradendarumque artium ac scientiarum ratione (Basilea 1558; ristampato a Ginevra nel 1582, multo castigatius; a Leida nel 1617, e ad Utrecht, nel 1651), l'Aconcio ha un posto nella storia della filosofia quale precursore di Descartes. In esso egli si limita a trattare del metodo per raggiungere la cognitio integra, cioè per conoscere quid res sit quae sint causae quive effectus. Questa cognitio integra si può avere soltanto eorum quae finita sunt et perpetua et immutabilia, quod genus sunt universalia omnia; infinitorum autem et corruptibilium qualia sunt singularia, nulla est scientia. Il processo della conoscenza va dal noto all'ignoto, ma ciò che è più noto non è il singolare e individuale, bensì le nozioni generali su cui si basa il giudizio. Queste nozioni generali o primi principî sono in parte innati, in parte il prodotto dell'esperienza dei sensi. Per conoscere quid res sit, Aconcio segue il metodo della definizione secondo l'insegnamento aristotelico-scolastico. Per la conoscenza delle cause e degli effetti, l'autore si allontana un po' dal metodo tradizionale. Nel metodo analitico (methodus resolutiva, in opposizione al sintetico, methodus compositiva) egli distingue tre processi: quello che va dal generale al particolare, quello che va dal composito agli elementi, e quello che va dal fine alle cose che gli servono di mezzo. Quest'ultimo è il metodo che Aconcio preferisce come predominante, e gli altri due modo unus, modo alius, praecipuo illi deservient. Lo strumento con cui si applica il metodo, è la divisio (totius ad partes ordinatio). Pur seguendo le linee della dottrina aristotelica, è in questa parte che Aconcio mostra maggiore originalità, quando spiega il modo con cui nei casi diversi si debba procedere alla divisio. Nell'ultima parte Aconcio tratta del metodo pedagogico (tradendarum artium). Anche qui il metodo analitico è preferito, ma spoglio di complicazioni, e dando maggiore importanza all'esperienza. Il metodo sintetico va usato solo in casi eccezionali. Aconcio termina esortando gli studiosi a provare il suo metodo: "Ch'io possa perire, se dopo aver usato il mio metodo per un anno, voi non sentirete d'esser diventati uomini davvero e di avere finalmente acquistato la vista!". Aconcio si riprometteva di completare il lavoro, e dalla lettera al Wolf si ricava che vi lavorava assiduamente, ma il trattato sulla Dialectica evidentemente non fu mai finito e non vide la luce. L'Epistula de ratione edendorum librorum ad Johabbem Wolfium, del 1562 (in calce alle edizioni degli Stratagemata Satanae, e a parte, Chemnitz 1701), importante per le notizie biografiche che vi si trovano, è un piccolo trattato contenente consigli utili agli autori e minuzie erudite. Ma le idee teologiche liberali dell'Aconcio sono manifestate nella Epistula apologetica pro Hadriano Haemstadio et pro seipso (del 1562 o 1563; in Gerdes, Scrinium Antiquarium, VII,1, p. 123. Un'altra Epistula sullo stesso argomento, del 1566, è riprodotta dal Crussius, Crenii Animadversiones hist. et phil., II, p. 131). Aconcio, come tutti i rifugiati non conformisti, si era aggregato alla cosiddetta "Chiesa olandese", che formava un gruppo a parte e avea la sua sede nella chiesa degli ex-Agostiniani. Il vescovo Grindal, che aveva la sorveglianza del gruppo, scomunicò il pastore Haemstadius, perché si era schierato in famre di certi anabattisti olandesi, e rifiutava di fare una ritrattazione. Aconcio prese le parti del pastore condannato, e fu egli stesso escluso dai sacramenti.
Più chiaramente ancora le stesse idee appaiono negli Stratagemata Satanae (Basilea 1565; due edizioni, una in-4° e l'altra in-8°; ristampata ben dodici volte in varî luoghi dal 1582 al 1674; tradotta in francese e pubblicata a Basilea dal Perna, lo stesso anno 1565; in inglese, soltanto i primi quattro libri, 1647; in tedesco, Basilea 1647; in olandese, Amsterdam 1662; ediz. critica, Koehler, Monaco 1927). Il libro è dedicato alla regina Elisabetta "ornata di tutte le virtù animi corporisque ad miraculum". È un libro unico in tutta la storia delle controversie protestanti dei primi secoli della Riforma; poiché Aconcio vi mostra, tanto nelle idee quanto nella moderazione del linguaggio, uno spirito di tolleranza e di libertà che fa contrasto vivissimo, sia con quelli dei teologi riformati, sia con la politica repressiva dei principi protestanti. Le divisioni nate in seno alla Riforma sono l'opera di Satana; i suoi strattagemmi sono le controversie dottrinali, la presunzione dei teologi e il loro orgoglio, che trasforma in questioni personali le differenze religiose, la formazione di nuove sètte di fanatici, e l'intolleranza che regna suprema come una maledizione e impedisce lo sviluppo del vero spirito religioso. Quindi Aconcio con lunghi e sottili ragionamenti propone un piano per la riunione delle chiese riformate, riducendo al minimo possibile il numero dei punti fondamentali del dogma, in modo da far posto per tutti.
Quanto fosse radicale questa riduzione proposta dall'A., si può rilevare dal fatto che egli non esita a mettere tra i punti non fondamentali non solo il dogma della presenza reale nell'Eucarestia, ma anche quello della Trinità di Dio. Con calorosa libertà di linguaggio, per chi scriveva sotto gli occhi della regina Elisabetta, A. condanna l'uso della forza da parte del potere politico in questioni di credenze religiose, e molto più l'applicazione della pena di morte ai cosiddetti eretici. Così A. fu non solo un assertore della piena libertà di coscienza, in tempi in cui la intolleranza più reazionaria infieriva tanto fra i cattolici quanto fra i protestanti, ma fu un precursore del movimento recentissimo per la unione delle chiese sulla base di un'intesa nei punti fondamentali della dottrina cristiana. L'opera dell'A. fece gran chiasso, ma, ad eccezione di qualche spirito liberale quale Ramus, non trovò eco tra i suoi contemporanei.
Dopo la morte dell'A., G. B. Castiglioni, a cui pare fossero state affidate le sue carte, pubblicò un piccolo opuscolo dal titolo: Una esortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuovamente messe in luce, dedicato alla regina Elisabetta e stampato da Giorgio Wolf, che aveva appreso in Italia l'arte della stampa e pubblicò varî libri italiani a Londra tra il 1579 e il 1600. Quest'opuscolo è menzionato dallo Chauffepié, il solo che sembra ne avesse cognizione diretta. Nel Record Office si conserva ancora un manoscritto italiano sull'Uso e studio della storia, composto dall'A. per il duca di Leicester nel 1564. Pochi anni dopo, un amico di A., Thomas Blundevil, ne incorporò il contenuto in una sua pubblicazione inglese: The true order and methode of writing histories according to the precepts of Fr. Patricio and Accontio Tridentino, Londra 1574.
Bibl.: L'articolo nel Dictionnaire critique di Bayle (con ampie aggiunte nella traduzione inglese del 1734, I, pp. 207-211) è il più diffuso (contiene anche una raccolta di giudizî sulle opere di A.); esso è la fonte del Mazzuchelli e di altri repertorî. H. T. T(edder) nel Dictionary of National Biography, I, p. 63 segg., aggiunge dati biografici tratti dagli archivî inglesi; G. Sortais, la Philosophie Moderne, Parigi 1920, p. 42 segg. (sul De Methodo); Ritschl, Dogmengeschichte des Protestantismus, III, Gottinga 1926, p. 318; E. Ruffini Avondo, Gli "Stratagemata Satanae" di G. A. in Rivista Storica, luglio 1928.