GIACOMINO da Verona
Originario di Verona, visse tra la prima e la seconda metà del XIII secolo. Sono a tutt'oggi molto scarni i dati in nostro possesso per tentare una ricostruzione biografica che non sia puramente congetturale o indiziaria. Tutto quello che è possibile sapere su G. è desumibile dal v. 335 del suo De Babilonia civitate infernali: "Iacomino da Verona de l'Orden de Minori". In questo verso l'autore dichiara il suo nome e la sua origine veronese, qualificandosi al tempo stesso come appartenente all'Ordine francescano. Tuttavia, come è stato notato, l'assenza del suo nome dagli Annalesminorum di Wadding (Ad Claras Aquas 1931-33) rappresenta il primo serio ostacolo a una identificazione storicamente documentata di Giacomino. Avogaro, pubblicando nel 1901 l'opera letteraria di G., aveva creduto di identificare l'autore, da due documenti veneziani (11 apr. 1257 e 3 ag. 1259), in un certo fra Giacomo, padre provinciale della Marca Trevigiana; pertanto aveva spostato l'operato di G. dalla nativa Verona a Treviso (pp. 52 s.). Ma risulta ancora più strano che Wadding abbia potuto omettere un nome così rilevante e per giunta riferito a una provincia francescana di grande prestigio come quella di Treviso. È questa, in sintesi, l'obiezione che Barana (pp. 4 s.) mosse ad Avogaro e che possiamo far nostra. Né Ozanam, né Mussafia, i quali per primi, alla fine dell'Ottocento, avevano rivolto un interesse specifico all'opera di G., arrischiarono ipotesi sulla sua identificazione, limitando la loro indagine agli aspetti filologico-linguistici della sua opera. Nel 1930 May, dando alle stampe l'edizione critica dell'opera giacominiana, si spinse, sulla base di un esame interno del testo, a fornire anche una serie di notizie sull'autore. Per esempio, circa il nome, l'indicazione "da Verona" suggerirebbe che G. dovette operare in un territorio sicuramente al di fuori di quello di origine, altrimenti, in base alle consuetudini dell'Ordine al quale apparteneva, non vi sarebbe stata una ragione valida per conservare traccia del luogo di provenienza. Diversamente da Avogaro, May fissa la dimora di G. a Venezia e non a Treviso, sede politicamente poco adatta per un veronese, almeno prima del 1239; a sostegno dell'ipotesi veneziana la studiosa offre una serie di riscontri lessicali che si rivelano tuttavia piuttosto deboli. Una lettura attenta del testo farebbe emergere altre informazioni circa lo status di Giacomino. Molti passi del De Ierusalem (per esempio i vv. 114-150 e 161-164) riflettono una conoscenza non superficiale della musica polifonica che cominciò a diffondersi a partire dalla metà del sec. XIII; questi elementi hanno permesso alla May di avanzare l'ipotesi che G. abbia avuto all'interno dell'Ordine il ruolo di maestro di coro. Le nozioni sulla vita rurale contenute nel De Babilonia (vv. 181-184, 214-215, 260, 277-280) forniscono alla studiosa la giustificazione per sottolineare l'umiltà della condizione sociale di Giacomino. Poiché, per la May, il De Babilonia sarebbe stato scritto almeno vent'anni prima del De Ierusalem, secondo dati interni questa volta senz'altro più attendibili, G. avrebbe aderito all'Ordine inizialmente in una condizione umile, come semplice praedicator, avrebbe poi appreso i primi rudimenti del canto e della musica, per diventare in seguito maestro di coro. Tutte queste acquisizioni non sono, tuttavia, probanti; infatti gli studi più recenti riflettono posizioni più caute. Non è possibile, con i dati disponibili, decidere se G. provenisse dai ceti rurali o dalla piccola borghesia urbana, né ci si può basare sulla sua denominazione per dedurre che egli vivesse fuori Verona. L'unico dato certo, desumibile dal fatto che il suo nome non compare neanche negli Scriptores Ordinis minorum di Wadding (Roma 1906), è che egli sicuramente non ricoprì mai né cariche, né uffici nell'Ordine (cfr. Lomazzi, p. 617). Maggiormente attendibili risultano invece le considerazioni della May circa la datazione delle due opere e l'individuazione delle fonti.
Di G. non si conoscono né il luogo né la data di morte.
G. è autore di due poemetti, definiti anche sermoni in versi, intitolati rispettivamente, secondo la lezione tramandata dai codici: De Ierusalem celesti et de pulchritudine eius et beatitudine et gaudia sanctorum di 280 versi, e De Babilonia civitate infernali et eius turpitudine et quantis penis peccatorum puniantur incessanter, di 336 versi. Quattro sono i codici che ce li trasmettono: il Marciano it. 4744, cc. 50r-65v della Bibl. naz. Marciana di Venezia (già it. Zanetti 13, indicato con V), esemplato alla fine del Duecento, che è il più antico e il più autorevole; il ms. 7.1.52, cc. 1r-10v, della Bibl. Colombina di Siviglia (indicato con S), strettamente affine a V; il lat. in quarto XIII della Bibl. arcivescovile di Udine (U), alle cc. 40r-50v; il Canonicianoit. 48 della Bodleiana di Oxford (O), cc. 1r-5v, il quale ci trasmette il solo De Ierusalem. I due poemetti furono pubblicati per la prima volta da A.-F. Ozanam nel 1850 (in Id., Documents inédits pour servir à l'histoire littéraire de l'Italie, Paris 1850, pp. 291-312), che utilizzò il solo codice V, e da A. Mussafia nel 1864 (Monumenti antichi di dialetti italiani, in Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften in Wien, philol.-hist. Klasse, XLVI [1864], pp. 136-158). I quattro manoscritti furono pubblicati in edizione diplomatica da E. Barana nel 1921 (Giacomino da Verona, La Gerusalemme celeste e la Babilonia infernale, Verona 1921), e utilizzati da E.Y. May nella sua edizione critica del 1930 (The "De Jerusalem celesti" and "De Babilonia infernali" of fra G. da V., Firenze 1930). Successivamente R. Broggini ha approntato il testo per i Poeti del Duecento (pp. 627-652). Come si è già detto, il ms. più antico che ci trasmette l'opera di G. è assegnabile alla fine del Duecento; poiché, come è comprovato da ragioni paleografiche, la stesura dell'opera non dovrebbe essere lontana dalla trascrizione del codice, si ritiene che il periodo di attività di G. corrisponda, all'incirca, a quello di Bonvesin da La Riva, che tratta gli stessi temi presenti nel De Ierusalem e nel De Babilonia in due parti del libro delle Tre scritture (la Scriptura negra, in cui si descrivono le pene infernali, e la Scriptura dorata, in cui si descrive la gloria del paradiso); per la comune materia escatologica sia G., sia Bonvesin sono da considerarsi fra i cosiddetti precursori di Dante.
Il De Ierusalem e il De Babilonia si riallacciano dunque a quel ciclo di opere di carattere popolaresco sorte intorno al mistero dell'oltretomba, che, specialmente nell'Italia settentrionale, hanno dato vita a una letteratura dai tratti etico-didattici, mediante la quale si espresse il fervore religioso nei diversi volgari estranei all'influsso del toscano. Il De Ierusalem inizia con la descrizione della città celeste, circondata da alte mura di forma quadrangolare poggiate su fondamenta di pietre preziose, di cui Cristo è signore sommo e difensore. Tale descrizione si precisa immediatamente come la traduzione letterale dell'Apocalisse giovannea (XXI, 16), che G. non omette di citare: "Or començemo a dir ço ke li santi diso / de questa cità santa del Re de paraìso […] / san Çuano 'de parla entro l'Apocalipso" (vv. 29-32). Ogni lato della città è presidiato da tre porte immense intarsiate di gemme, attraverso le quali nessun peccatore può entrare; un cherubino armato di spada impedisce l'ingresso di tafani, mosche, bisce e serpenti. Al suo interno la città risplende di una luce straordinaria che ha il potere di far ritornare giovane l'uomo vecchio e di resuscitare chi è morto; nella città celeste non esistono malattie, la natura è sempre rigogliosa, rallegrata dai canti degli uccelli, così come i canti dei santi e dei patriarchi glorificano Dio e la Vergine; l'aria è impregnata di un balsamo profumatissimo proveniente dalla bocca del Cristo. Per tutti questi riferimenti, oltre alla già citata Apocalisse, G. dipende dalla letteratura francescana e da s. Antonio; frequenti le consonanze stilistiche con Uguccione da Lodi, con lo stesso Bonvesin e, più in generale, con la letteratura di area lombarda contenuta in un importante codice, il Saibante, dal nome della famiglia che lo possedette, oggi conservato a Berlino nella Staatsbibliothek, ms. Hamilton 390. È interessante notare che G., dichiarando fin dai primi versi che l'intento della sua opera è puramente didattico-edificante, si rivela non solo consapevole della modestia della sua scrittura, che poggia sulla realtà del quotidiano, del tutto lontana da scopi estetici di puro diletto, ma si mette al riparo, al tempo stesso, dalle prevedibili critiche di carattere dogmatico, avvertendo che i "teologi superciliosi […] sono pregati di non vituperare le rappresentazioni modestamente allegoriche della letteratura popolareggiante" (Contini, 1960, I, p. 625). Nei seguenti versi: "donde vui ke leçì en le scripture sante / no le voiai avilar [disprezzar] per vostre setiiançe [sottigliezze]" (vv. 19 s.) si può cogliere una punta di polemica contro i conventuali che farebbe propendere, anche per questo motivo, per un'appartenenza di G. alla corrente spiritualistica dell'Ordine. Alla luce di queste considerazioni, avrebbe ragione la May a sostenere che G. attraverso le sue opere si fa cosciente portavoce delle esigenze culturali di un ceto non troppo o niente affatto scolarizzato: e questa, in sintesi, è la posizione accolta anche di recente da Bologna (1995).
Il De Babilonia si configura come l'esatto rovesciamento della città celeste: anche questa è inaccessibile, ma le sue alte e spesse mura, sovrastate da un cielo di acciaio e ferro, hanno il compito di rendere vano qualsiasi tentativo di fuga dei dannati. La porta di accesso è sorvegliata, oltre che da quattro guardiani "tanto enoiusi e crudeli e vilan" tra cui Maometto e Trivigante (Trifon), da una "scaraguaita" (sentinella) che vigila notte e giorno. Il re di questa città maligna dalla quale nessuno può fuggire è Lucifero. Laddove nel De Ierusalem era soave e grato ogni profumo, il pozzo infernale è invece impregnato di un tremendo fetore, abitato da ramarri, rospi serpenti e dragoni. Lì dominavano i canti e la musica, qui le grida e le bestemmie. Se la cifra stilistica del paradiso era l'ineffabilità, l'inferno giacominiano risulta caratterizzato da un realismo espressionistico che rende il De Babilonia un'opera maggiormente godibile rispetto al De Ierusalem, pur nei risvolti più grotteschi o primitivi, come nella scena del dannato che viene cucinato in una salsa di aceto, vino e caligine per essere servito per pranzo a Lucifero, il quale lo respinge sdegnosamente, perché non è cotto a dovere, con un'espressione affine a quella dantesca (nella tenzone con Forese Donati): "E' no ge ne darìa - ço diso - un figo seco, / ké la carno è crua e 'l sango è bel e fresco" (vv. 127 s.).
Nel De Babilonia colpisce, accanto al realismo, l'estrema vivacità dei dialoghi: tanto il paradiso era statico, quanto l'inferno risulta dinamico proprio grazie all'introduzione di rapidi e inaspettati scambi di battute tra i personaggi che culminano nel contrasto tra il padre e il figlio (vv. 285-312), che appartiene al repertorio di exempla dei predicatori. Un ulteriore elemento di interesse è costituito dalla presenza nell'inferno giacominiano di un'altra topica biblica: quella della bestemmia, qui dei dannati bestemmiatori, che si concentra nei vv. 69 s. e 240-252. Dopo aver narrato le terribili pene sofferte dai dannati nell'inferno, G. esorta la gente a pentirsi dei propri peccati e a fuggire il male, e conclude affermando che quello che ha raccontato non è un'invenzione o frutto di fantasia, ma quanto ci viene trasmesso dai testi sacri, commentati dai Padri della Chiesa e contenuti nei sermoni: "Mai açò ke vui n'abiai li vostri cor seguri /ke queste non è fable né diti de buffoni" (vv. 333 s.). In questa affermazione l'autore non solo prende le distanze dalle narrazioni fantasiose dei giullari, ma si dimostra del tutto consapevole che la sua è opera di rimaneggiatore cosciente di rivolgersi a un pubblico non abbastanza istruito, ma non per questo incapace di comprendere le verità ultime. Da notare anche la contrapposizione tra il termine "fable" usato nell'explicit, e il termine "ystoria" impiegato nell'esordio: "A l'onor de Cristo, segnor e re de gloria / et a tenor de l'om cuitar voio un'ystoria" (vv. 1 s.).
Diversamente dalla letteratura delle visioni che si è richiamata spesso a confronto, l'intento dell'autore del De Ierusalem e del De Babilonia non è quello di informare, bensì quello di esortare l'uomo a vivere secondo la legge cristiana. Particolarmente interessante sul piano stilistico è il tono schiettamente giullaresco dei due esordi, che colloca l'opera giacominiana molto vicina alla coeva letteratura occitanica (cfr., come suggerisce Bologna, 1995, p. 462, l'impostazione similare nell'ultimo trovatore occitanico Guiraut de Riquer, soprattutto per il rapporto dialettico che si instaura fra tono e intenzionalità). Inoltre, il primo incipit sembra rinviare ai versi iniziali della Giostra delle virtù e dei vizi, poemetto anonimo redatto tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo da un autore francescano: "De duy cictade voliove / dure bactalie contare, / ke sempre se combacte" (in Poeti del Duecento, II, p. 323). L'intento suasorio, proprio del predicatore, associato all'esplicita dichiarazione di sermo humilis cosciente di rivolgersi a un pubblico modesto, che è alla base dell'ispirazione giacominiana, spiega anche l'utilizzazione del volgare, nella fattispecie veronese, come mezzo più adatto per accostarsi alla gente semplice (per l'esame dei tratti linguistici tipici del veronese, cfr. ibid., I, p. 626). Nessun accenno di G. al purgatorio, come del tutto sconosciuto sembra del resto a Bonvesin e a Uguccione, anche se ufficialmente la Chiesa ne aveva già ammesso l'esistenza nel concilio di Lione del 1274. È sulla base di questi elementi che Filomena De Sanctis (pp. 139-145) ha voluto fissare la stesura dell'opera giacominiana all'incirca prima di quella data. Più attendibili le proposte di datazione suggerite dalla May: verso il 1230 per il De Babilonia, intorno al 1265 per il De Ierusalem, se i cavalieri che attorniano la Vergine si possono identificare con i frati gaudenti, il cui Ordine fu approvato da Urbano IV nel 1261.
Sul piano metrico i due poemetti sono strutturati in quartine di alessandrini monorimi, dove, però, un numero cospicuo di emistichi presenta, al posto del settenario, il senario (tendenzialmente trocaico) - con anisosillabismo giullaresco - e al posto delle rime frequenti assonanze. Va ricordato, infine, che la quartina monorima di alessandrini è presente in un altro poemetto di 328 versi, conosciuto con il titolo Della caducità della vita umana che il Mussafia aveva attribuito in passato, non senza seducenti indizi a favore, allo stesso G., ma su cui attualmente la critica è più cauta.
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