DE NOBILI, Giacinto (Rafaele)
Nacque a Roma nella seconda metà del sec. XVI e fu battezzato col nome di Rafaele. Di lui sappiamo solo che entrò a far parte dell'Ordine dei domenicani nel convento di S. Maria in Gradi a Viterbo, nell'anno 1594. In quest'occasione mutò il suo nome di battesimo da Rafaele a Giacinto.
I repertori secenteschi ci avvertono che era assai dotto nelle lettere, scrittore prolifico di cronache di conventi e libri di pietà, diligente erudito. Ma la notorietà non doveva venirgli certo da tali consuetudinarie compilazioni: rovistando negli archivi per le sue ricerche, il buon frate giunse in possesso di un interessante inedito quattrocentesco, lo Speculam cerretanorum di Teseo Pini, vicario episcopale urbinate, scritto tra il 1484 e il 1486. Il D. tradusse, modificò ed infine pubblicò nel 1621 il libretto con il titolo Ilvagabondo, overo Sferza de' bianti e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malizie ed inganni di coloro che vanno girando il mondo alle spese altrui. E vi si raccontano molti casi in diversi luoghi e tempi successi, dove, in ventiquattro capitoletti, si fa il punto sulle varie confraternite di mariuoli ed imbroglioni che si davano da fare per le strade e le piazze d'Italia.
L'operetta apparve in un periodo di vero e proprio boom della letteratura, avente come tema le bravate di cialtroni ed avventurieri, pitocchi e mendicanti, tanto che conobbe rapida fortuna e nel 1644 vantò la prima traduzione in francese ad opera del drammaturgo Desfontaines, il quale, tuttavia, si preoccupò di intervenire personalmente, moltiplicando i riferimenti eruditi e smorzando la casistica burlesca inerente usi e costumi religiosi che il D. aveva invece tranquillamente conservato. Va precisato, comunque, che il libro uscì con lo pseudonimo di Rafaele Frianoro e, visto il successo, in breve tempo vide crescere il numero dei capitoli a trentotto. La traduzione dal Pini è fedele, anche se il D. non tralasciò intuizioni e commenti originali. Stonano, secondo Piero Camporesi, i quattro paragrafi aggiunti dedicati a "rabuinati", "ruffiti", "sbrisci" e "formigotti", associazioni canagliesche di poveri diavoli costretti a venire a patti addirittura con le forze di polizia, anche se il D. non lo dice, per poter esercitare il "mestiere". Costoro vengono così a differenziarsi notevolmente dai gruppi direttamente ricavati dall'opera di Teseo Pini, poiché questi ultimi testimoniavano invece un'organizzazione e capacità di intervento assai più decise ed "aristocratiche", rispetto agli umili vagabondi citati dal traduttore. Nel Quattrocento, infatti, le condizioni storico-sociali consentivano a tali confraternite di mendicanti di spaziare in un contesto assai disponibile alle loro imprese a base di simulazioni e raggiri, pescando a piene mani nelle credenze, tradizioni e superstizioni presenti sia nelle campagne sia nei centri abitati. Ora, ai tempi del D., i nuovi gruppi canaglieschi sono tenuti lontani dalle città e fatti oggetto di leggi precise ed efficaci, oppure, come si è detto, usufruiscono di margini di intervento sotto precisi limiti imposti dalle autorità, venendo così a perdere l'aura di classicità che ne aveva accompagnato le scorribande nel Medioevo. Ilvagabondo finisce, in sostanza, col rispettare un mondo ormai in piena decadenza, in quanto l'organizzazione tridentina si impegna ad adottare una politica assistenziale capace di regolamentare, quanto meno identificare, quella sfera di diseredati una volta tranquillamente operanti nelle maglie della società. Il D. si accorge, però, della fortuna a cui il libretto è destinato, considerando non solo tutta la letteratura sull'argomento circolante sin dall'inizio del Cinquecento, ma anche l'estremo favore con cui sono accolti e sfogliati romanzi e racconti picareschi in tutta Europa.
Se più nulla sappiamo dell'accorto frate, evidentissimo il successo de Ilvagabondo, editoriale e di pubblico. Nella prefazione "Ai lettori" il D. afferma di aver composto l'operetta ad uso di intrattenimento per le fredde serate d'inverno: i capitoletti presentano innanzitutto la descrizione della pattuglia di pitocchi in questione (gli "accapponi", mendicanti che esibiscono false piaghe, gli "attremanti"1 a caccia di elemosine simulando paralisi ed epilessie, gli "acaptosi", questuanti lamentosi e miseri che assicurano esser appena sfuggiti dalle mani dei Turchi), quindi espande la scrittura mostrando i birbanti in azione attraverso piccoli gustosi récits. Il tono, ovviamente, alla fine, diventa didascalico e le ribalderie appena esposte vogliono funzionare quale avvertiniento per i meno accorti ed aborrimento per gli uomini pii. Ma il D. lascia talvolta trasparire tra le righe leggeri impulsi di simpatia per i suoi inguaribili furfanti, i quali, più che veri e propri malviventi, appaiono sulla scena del mondo come geniali commedianti, strepitosi nell'arte della simulazione disonesta. Fino all'episodio massimo dei "falpatori", in cui una specie di Socrate della pitoccheria eleva le imprese dei suoi discepoli a filosofia illustre e stimabile. Sparito, come si è detto, il contesto storico-sociale plausibile per eventuali rispecchiamenti, l'opera sfrutta una ben precisa corrente letteraria, valendosi anche dello strumento della "lingua furbesca", una lingua speciale, segreta, che nel Cinquecento è coltivata anche nelle superiori sfere letterarie, vero e proprio gergo dei vagabondi, di sicura presa sui lettori.
L'opera fu fortunatissima: le edizioni dimostrano una fruizione sia dotta sia popolare. Si era rivelata, come il suo autore aveva auspicato, l'ideale compagna per le fredde serate d'inverno.
Edizioni del Vagabondo: Viterbo 1621; Venezia e Milano 1627; Pavia 1628; Milano e Torino 1637; Venezia e Macerata 1640; la prima trad. francese Paris 1644, Macerata 1647, forse Paris 1648; Treviso 1654, 1664 e 1672; Torino 1689; Viterbo, Todi, Macerata, Bologna, Parigi (sec. XVII); Bologna 1708, 1709, 1712 e 1722; Pisa 1828; Ginevra 1867; infine, in Illibro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino 1973, pp. 79-165, e in Figures de la gueuserie, a cura di R. Chartier, Paris 1982, pp. 322-403.
Bibl.: P. Mandosio, Biblioteca romana, Roma 1692, pp. 248 s.; E. Rairnondi, Mercurio nella Controriforma, in Studi in onore di A. Schiaffini, in Rivista di cultura classica e medioevale, VII (1965), pp. 927-937; p. Camporesi, cit., pp. XLVIII, CV-CVIII, CXXI ss., CLXVIII s.