CENTINI, Giacinto
Nacque a Polesio, presso Ascoli Piceno, nel 1597, secondo dei quattro figli di un non meglio precisabile Giovanni e di Angela, sorella del futuro cardinale Felice Centini.
Le condizioni, originariamente modestissime, della famiglia mutarono rapidamente a partire dal 1611 quando, innalzata di colpo socialmente ed economicamente dal conferimento della porpora a Felice, si trasferì ad Ascoli subito assurta tra le principali della città. Indicativo, altresì, che il C. e i fratelli rechino anziché il cognome, non a caso rimasto ignoto, del padre, scomparso nel 1614, quello della madre, che morrà nel settembre del 1626; pare sia stata donna semplice e, nel contempo, accorta poiché, lungi dal lasciarsi travolgere dall'orgoglio per l'inaspettata promozione sociale, seppe utilizzarla con contadina saggezza mirando alla costituzione d'un consistente patrimonio immobiliare.
Quanto al C., l'influentissimo zio lo volle accasare, giovanissimo, il 20 luglio 1616 con la nobile Girolama Malaspina: nozze prestigiose, salutate da Marcello Giovanetti con versi non privi d'una qualche fragile grazia, e, soprattutto, convenienti dal momento che la dote della sposa ammontava a circa 8.000 scudi, di gran lunga eccedenti i 2.500 fiorini fissati, nel 1596, quale limite massimo. E una particolare concessione papale aveva autorizzata la vistosa deroga.
Tale matrimonio - da cui nasceranno Felice, sposata, nel 1645, a Vincenzo Sgariglia, cui recherà una dote di 6.000 fiorini, Giovan Battista e Giuseppe - permise, dunque, al C. una più che decorosa sistemazione, consolidata inoltre dallo zio che gli aveva ceduto, parte in proprietà parte in usufrutto, molti beni nella zona di Spinetoli e la bella villa, in questa, già dei Guiderocchi.
Superata una grave malattia che lo aveva colpito poco dopo le nozze, il C. iniziò una esistenza confortevole, senza infamia e senza lode, spartendo i suoi giorni tra Ascoli, l'accogliente villa di Spinetoli e Macerata (e qui, nel 1627, doveva avere una qualche autorità se, in occasione della festa di s. Giuliano, patrono della città, poté disporre venisse recitata l'omonima tragedia del fratello Marcello): un po' si occupò, piuttosto straccamente, dei suoi beni; un po' fu impegnato da cariche pubbliche, ché venne estratto tra gli Anziani ascolani nel 1621 e nel 1626 e fu nominato governatore di Nereto nel 1630, anno in cui concordò col convento di S. Antonio a Campo Parignano l'insediamento d'un lazzaretto; un po' cercò di riempire il molto tempo a sua disposizione begando con qualcuno del suo rango, sfogando malamente in una litigiosità meschina e puntigliosa l'urgente bisogno d'affermarsi in qualche modo. E indice d'un minimo di prestigio suona la dedica al C. de Il Garbuglio comedia (Macerata 1624) di Angelica Scaramuccia.
Ma sempre meno gli agi sopperirono alle sue continue frustrazioni, sempre più i lunghi ozi fomentarono inquiete e torbide ambizioni, incapaci di riconoscersi nel circoscritto prestigio delle incombenze locali e d'appagarsi del titolo di "capitano" generosamente elargitogli nei documenti del tempo. Assente, nella sua vita, il rischio della guerra: persino nel 1625-1626, quando parecchi concittadini, di buona o di mala voglia, furono spediti in Valtellina, egli a capo d'un manipolo di fanti e Giuseppe Gabrielli con dei cavalieri furono, dirà il Marcucci nella sua cronaca ascolana, "postati in Roma di presidio colle lor genti". Compito di tutto riposo, assolutamente distante da ogni possibilità di lotta.
Forse, al C. dispiacque assai poiché era o, quantomeno, voleva apparire bellicoso; donde la sua smania di ben figurare coi suoi cavalli nella corsa al palio pei festeggiamenti in onore di s. Emidio patrono di Ascoli. E che la "giostra" fosse, in una certa misura, per lui compensatoria di mancati eroismi in battaglia paiono attestarlo questi versi dell'amico Giovanetti che lo ricordano mentre "premeva... l'invitto dorso, / con lieve incarco, a corridor frisone / e di gran lancia onusto con finto agone / gli pungea il fianco e gli allentava il morso". Accorreva a mirarlo "armato in campo" il "popol folto"; e impallidiva il "ciel" nel ravvisare "fatto guerrier di Marte il suo Giacinto".Consolazione troppo saltuaria per placare il tormentoso rodio e l'inconcludente rancore accumulati nel trascorrere neghittoso degli anni; incapace d'una continuata attività, d'un serio impegno volto a uno scopo preciso e conseguibile, arrovellato da nebulose velleità di gloria e di grandezza, il C. s'aggrappava alla speranza dell'ascesa al soglio dello zio cardinale, certo che, in tal caso, gli sarebbe stata riserbata una posizione di primo piano. E, alla morte di Gregorio XV, nel luglio 1623 s'illuse potesse realizzarsi: amara gli fu la notizia della vittoria del cardinale Maffeo Barberini, tanto più che - ironia della sorte - fu uno dei due gentiluomini inviati da Ascoli a rendere omaggio al neoeletto. Urbano VIII, inoltre, non era vecchio, era di robusta costituzione: il C. non poteva nemmeno ripiegare sull'ipotesi d'una prossima morte naturale; si chiedeva come si potesse indurre la natura ad accelerare il suo corso.
Forse suggestionato da notizie sull'imminente fine del pontefice desunte da calcoli astrologici dell'abate di S. Prassede Orazio Morandi - relegato, per queste sue inamene predizioni, a Tor di Nona - il C. non trovò di meglio che affidare a pratiche magiche l'agognato evento: i sortilegi avrebbero affrettato la scomparsa dell'ingombrante odiatissimo Urbano VIII. Si mise pertanto in contatto con fra' Bernardino da Montalto, che viveva nell'eremo di Corropoli, cui la fama attribuiva doti negromantiche e una grande entratura presso i demoni. Questi, datagli per certa la successione dello zio ad Urbano VIII, l'assicurò d'essere anche in grado d'affrettare la scomparsa di questo, per quanto, di per sé, destinato a una prolungatissima vecchiaia. Sollecitato dal C. a usare tutti i suoi poteri, fra' Bernardino convocò altri due noti negromanti, l'agostiniano fra' Domenico Zampone o Zancone di Fermo e il minorita fra' Cherubino Serafini d'Ancona, e, con essi e lo stesso C. diede inizio alle pratiche. Riunitisi in una stanza sotterranea della villa di Spinetoli, posero al centro d'un cerchio tracciato con filo di lino tessuto da una vergine una statua in cera d'Urbano VIII, sulla quale - mentre s'andava liquefacendo tra le invocazioni ai demoni e orazioni sacrileghe - fra' Cherubino s'avventò infierendo con convulse coltellate. Ma non comparve alcun demone ad annunziare l'avvenuta morte del papa.
Non restava che ricominciare tutto da capo in altra sede; a tacitare le perplessità del C. si giustificò il fallimento del primo esperimento col fatto che nel locale doveva essere avvenuto, chissà quando, un omicidio. La messinscena fu ripetuta in una casa colonica venendo, però, ben presto interrotta perché, a detta di fra' Cherubino, non abbastanza al riparo da sguardi indiscreti. Fu allora scelta una casa a Corropoli, ove la macabra rappresentazione venne ripresa col precedente rituale, arricchito però dall'uso del Santissimo e dell'olio santo, senza, tuttavia, che l'aggiunta valesse a richiamare il demonio. Questa volta - per quanto fra' Cherubino si sforzasse di calmarlo attribuendo ogni responsabilità al sopravvenuto imprevisto, maltempo - il C. s'adirò violentemente e, furibondo, minacciò la morte ai tre frati. I quali, non senza fatica, riuscirono a tranquillizzarlo coll'allettante proposta di un nuovo più sofisticato tentativo: occorrevano per questo sette preti - sette, appunto, come i vizi capitali - per estrarre a sorte tra loro quello che doveva sacrificare al demonio in una sorta di messa nera. Rasserenato, il C. accettò e festeggiò la decisione con un pantagruelico banchetto, nel corso del quale non esitò a promettere ai tre la porpora cardinalizia.
Ma la nuova e più complessa operazione, non si verificò perché fra' Domenico, l'agostiniano, fragile di nervi e oltremodo emotivo, terrorizzato all'idea d'essere scoperto e terribilmente punito, non resse alla tensione e denunciò ogni cosa al S. Uffizio. Informato il C., a stornare ogni sospetto, si fece vedere a Roma, ove si consultò, anche con Flaminio Conforti di Camerino, un agente dello zio, il quale gli suggerì la fuga. Ma, forte della sua posizione di nipote di cardinale e convinto che la denuncia, se non altro pel suo grottesco contenuto, non sarebbe stata presa sul serio, preferì rimanere con ostinata ostentazione di tranquillità. Per sua sfortuna, a imporre il massimo della severità nei suoi confronti vigeva la bolla, del 1ºapr. 1631, Inscrutabilis indiciorum Dei, non a caso pubblicata dopo il processo all'abate di S. Prassede, la quale, oltre a rinnovare le disposizioni contro gli astrologi emesse nel 1586 da Sisto V, precisava che ai colpevoli d'attentare con arti magiche alla vita del papa e dei suoi parenti sino al terzo grado spettava non solo la scomunica, ma la morte e la confisca dei beni: pareva confezionata proprio per lui. Per di più il pontefice, spaventatissimo e adiratissimo, andava dicendo essere "il delitto esecrando", e, consolato dalle rassicuranti contropredizioni del Campanella, esigeva una punizione spettacolarmente esemplare.
Comparso in tribunale il C. - dopo aver cercato di sostenere la maldestra versione d'essere ricorso a fra' Bernardino perché lo aiutasse, a mo' d'innocuo rabdomante, a scovare antiche sculture presumibilmente nascoste nel sottosuolo della sua villa - alla fine crollava dando piena confessione. Ritenuto colpevole di lesa maestà, fu consegnato alla corte del governatore di Roma. Mentre pene minori - furono condannati, riferisce l'ambasciatore veneto Alvise Contarini, "chi più chi meno, alla galera" - toccarono a fra' Domenico, il delatore, all'agente dello zio e ad altri frati coinvolti nelle pratiche sacrileghe, cui avevano fornito libri e strumenti, il C., fra' Cherubino e fra' Bernardino ebbero quella capitale. Dopo la loro "abiuratione", così ancora il Contarini, "seguita nella chiesa di S. Pietro publicamente" il 22 apr. 1635, ci fu, il 23, alla presenza d'una folla impressionante (il popolo accorso è stato "innumerabile" annota uno spettatore), in Campo dei Fiori, la clamorosa esecuzione.
"Lo spettacolo è stato grande", commenta il Contarini, anche per l'eccezionalità del reo e della colpa: e la novità contro un nipote di cardinale vivente non più vedutasi et il tentativo contro la vita del papa non più praticato". Prima d'affrontare il carnefice il C. scrisse, "dalle carceri di Corte Savella", alla moglie e allo zio: in entrambe le lettere si riconobbe colpevole e dichiarò meritato il castigo. Particolarmente ribadita, in quella allo zio, la sua colpa, attenuata, peraltro, dall'essersi presentato "spontaneamente" ai giudici; adduceva a motivo di consolazionor la benevolenza del pontefice, che "pietosamente" gli aveva "fatta la grazia di morte da cavagliero", concludendo, con accento non privo di composta commozione, d'essere "della morte... contentissimo, per la speranza, mediante la misericordia di Dio, dell'eterna salute. Dolgomi solo d'esser privo di lui", lo zio, "di miei cari figli, della mia cara consorte".
Mentre i due frati suoi complici vennero impiccati e le ceneri dei corpi bruciati, racconta un popolano, "poste nelli mastelli, furono settate nel Tevere", il C. "morì con grandissima rassegnazione": "si vedde - narra un altro testimone - ricevere" il colpo che lo decapitò "con un coraggio e compunzione non ordinaria. Il suo corpo fu posto in un cataletto esposto in publica piazza con due torcie sino alle ventidue ore, di dove fu levato dalla solita confraternita de' signori fiorentini". Dignitoso e fermo - in questo fosco finale d'una mediocre e velleitaria esistenza - il comportamento del C. e sfiorato da un sentore di quella grandezza cui aveva, malamente, aspirato e improntato a quel coraggio che avrebbe voluto attestare in bellici cimenti. Certo, nel momento di morire, il C. appare migliore del rancore superstizioso e ferocemente vendicativo d'Urbano VIII, del gretto rintanarsi dello zio cardinale nella sua diocesi di Macerata.
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