BORELLI, Giacinto
Nato l'11 settembre 1783 a Demonte (Cuneo) dal protomedico di quella fortezza, Ignazio, conseguì la laurea in giurisprudenza all'università di Torino il 12 giugno 1804, dopo avere frequentato per quattro anni anche i corsi della facoltà teologica soppressa dal governo francese prima che egli vi si potesse laureare. Lo stesso anno iniziò la pratica legale, che continuò fino al gennaio 1806, quando fu accolto dal conte Pejretti presso il tribunale di prima istanza di Torino come volontario. Nel 1808 fu ammesso alla Corte di appello della stessa città in qualità d'avvocato patrocinante.
Nel corso del 1808 lasciò ad un tempo il Piemonte e il patrocinio legale e intraprese nella Toscana napoleonica la sua lunga e fortunata carriera di magistrato. Il 28 agosto, infatti, venne nominato procuratore imperiale presso il tribunale di Montepulciano, dove rimase un anno, meritandosi l'apprezzamento, tra gli altri, del procuratore generale della Corte d'appello di Firenze per lo zelo, la probità e la moderazione dimostrati. Il 29 ag. 1909 passò al più importante tribunale di Arezzo, continuando ad accumulare meriti e stima.
Ildirettore generale della polizia in Toscana, il francese Dubois, attribuisce "en grande partie" al suo zelo la sensibile diminuzione dei delitti commessi in settembre in quell'arrondissement; il procuratore imperiale generale della Corte criminale di Siena, Chevanne, gli riconosce talenti, zelo, "activité sans bornes" e "science aprofondie de la législation criminelle"; il procuratore generale della Corte criminale di Firenze, Boncompagni, scrive addirittura, nel luglio 1810, che "il n'y a pas en Toscane de Procureur Impérial plus intelligent ni plus activ que M. Borelli".
Con queste referenze il 25 luglio 1811 il B. venne nominato sostituto procuratore generale alla corte imperiale di Firenze; infine il 1º genn. 1813 assunse la carica di procuratore imperiale criminale del dipartimento dell'Ombrone, a Siena, retribuita con uno stipendio di 6.000 franchi. Nel gennaio 1814 una lettera da Parigi del conte Molé, gran giudice ministro della Giustizia, che notificava il proposito di rendere "à la première occasion un compte particulier" all'imperatore in merito ad una sua richiesta, lasciò balenare la prospettiva di ulteriori lusinghiere affermazioni. Ma l'invasione dei Napoletani di Murat, nel febbraio successivo, interruppe sia la sua carriera di magistrato "napoleonico sia la sua permanenza in Toscana.
Con la Restaurazione il B. chiese di rientrare nei ranghi della magistratura subalpina e il 21 giugno 1814 fu nominato avvocato fiscale del consolato di Torino. Ma lo stipendio era magro, e il B. non poteva contare sull'aiuto della famiglia, essendo suo padre "gravato dal carico di sette figliuoli", al cui sostentamento doveva sovvenire con i soli proventi derivanti dallesercizio della professione medica. Nonostante un aumento dello stipendio, che fu adeguato a quello dei giudici fissi (4 ott. 1814), come egli aveva richiesto, il B., pur di migliorare il trattamento economico, si dimostrò disposto ad abbandonare la magistratura e l'esercizio legale e ad aprire una parentesi burocratico-amininistrativa, assumendo dal febbraio 1815 le funzioni di segretario di stato presso il ministero, dell'Interno a Torino.
Tornò alla magistratura il 25 dic. 1818, quando venne nominato, con la qualifica di senatore, avvocato fiscale generale presso il Senato di Genova, organo giurisdizionale creato dopo la Restaurazione in aggiunta a quelli di Savoia, di Piemonte e di Nizza. Si distinse per il solito zelo e rigore, prendendo severe misure nei confronti di alcuni funzionari di quel magistrato, come la giubilazione, per inefficienza, dell'avvocato dei poveri e del suo primo sostituto (2 aprile 1819). Intanto venne scelto a ricoprire la carica di reggente la Reale cancelleria di Sardegna, ma prima di prenderne possesso con patenti del 10 ott. 1820 fu insignito "in un co' suoi discendenti maschi con ordine di Primogenitura per linea mascolina del titolo e dignità di Conte". Partito immediatamente per la nuova destinazione, non fece in tempo a presentare all'ufficio competente le patenti per la prescritta registrazione e soltanto dopo la riassunzione dell'ufficio di avvocato fiscale presso il Senato di Genova con il titolo, peraltro, il grado e l'anzianità di presidente (15 marzo 1825) chiese la cosiddetta "restituzione in tempo" delle patenti, che ottenne con altre patenti del 26 maggio 1825. Essendo "rimasto nel celibato", l'11 marzo 1837 gli sarà concessa la facoltà di trasmettere il titolo al fratello Luigi e, in caso di premorienza, al figlio di questo, Giacinto.
Frattanto a Genova, il 3 febbr. 1826, alla morte di L. Carbonara, venne nominato presidente reggente del Senato e commissario regio della città e il 23 luglio 1831 diventò presidente effettivo con il titolo di primo presidente, carica che tenne per sedici anni. Purtroppo i documenti relativi a questo periodo conservati presso l'Archivio di Stato di Torino, se pure utili per la storia di quel magistrato, non permettono di identificare le linee del contributo personale del suo presidente. L'operato del B. tuttavia dovette essere gradito al sovrano degli Stati sardi, se, proprio nei mesi in cui si registravano gli estremi sussulti del regime assoluto e prorompeva irrefrenabile il movimento per l'indipendenza nazionale, Carlo Alberto decideva di includerlo nella cerchia dei suoi più stretti collaboratori. Insignito, il 2 nov. 1847, della dignità di ministro di Stato, il 7 dicembre successivo il B. venne chiamato a ricoprire la carica di ministro per gli Affari dell'interno, subentrando a L. Des Ambrois de Nevache.
Questi, che affermò poi di aver proposto egli stesso al re la nomina del B. e di avere indotto quest'ultimo ad accettare, lascia comprendere le ragioni della scelta: "uomo fermo e severo" ma incapace di reazione - scrisse nei suoi Notes et souvenirs - il B.era in grado di "tranquilliser le Roi". Questa interpretazione viene accreditata anche da altre fonti, come dalla testimonianza di F. Sclopis, che, nelle Memorie storiche edite da A. Colombo, attribuisce al B. simpatie per il governo forte ed autorevole e nostalgie per la "regolare amministrazione Napoleonica".
In effetti il B., nel momento in cui assunse la segreteria di Stato per gli Affari dell'interno, cui la recente riforma aveva attribuito l'amministrazione della polizia, che era prima di competenza del ministero della Guerra, non poteva vantare alcuna particolare esperienza politica. Scarso anche di esperienza amministrativa, egli si presentava però come esperto giureconsulto, singolare conoscitore del diritto pubblico, fermo fautore dello Stato di diritto. Sono questi, dunque, i requisiti che, in quel torbido scorcio del '47, lo imposero all'attenzione di Carlo Alberto, rimasto "turbato e riluttante" quando cominciò ad intravedere (come notò l'Omodeo) che la politica nazionale da lui avviata era inseparabile da quella liberale e persuaso di avere fatto le massime concessioni a questa con il licenziamento di Solaro della Margarita e con l'emanazione delle note riforme di quel fine anno.
La scelta del re preoccupò perciò i liberali, tra cui il Cavour (Bert, p. 179), e la loro attesa diffidente e sospettosa si mutò presto in aperta riprovazione. In gennaio giunse infatti a Torino una deputazione genovese composta di autorevoli personaggi (V. Ricci, L. Pareto, G. Doria ed altri) per porgere a Carlo Alberto un indirizzo munito di firme raccolte per le vie del capoluogo ligure e invocante la guardia civica e l'espulsione dei gesuiti, ritenuti ispiratori della reazione. L'iniziativa dei liberali genovesi sembra avere avuto lo scopo di convogliare l'irrequietezza insurrezionale, manifestatasi in quell'ardente esordio del '48, verso ordinate rivendicazioni. Ma il re (non solo lui: anche la Revue des Deux Mondes era dello stesso avviso) vide nei delegati i responsabili di una prassi illegale che, usurpando le funzioni assegnate dalla riforma del 27 nov. '47 al Consiglio di Stato per quanto riguardava la presentazione al sovrano dei desiderata del popolo, si costituiva ed operava al di fuori del quadro istituzionale vigente. Risoluto a non fare alcuna concessione e convinto di trovarsi di fronte a un tentativo di intimidazione, Carlo Alberto non solo rifiutò di ricevere la deputazione, ma invitò il B. a trasmettere al governatore di Genova, La Planargia, "l'ordre le plus formel de faire agir la troupe et de ne plus tolerer aucune demonstration, aucun rassemblement". A questo rigido mandato il B. ubbidì con il solito zelo (secondo F. Sclopis usò coi Genovesi "modi che sapevano troppo dell'autorevole"), per cui agli occhi dei liberali torinesi, interessati alla sorte della missione Ricci-Pareto-Balbi, si trasformò da portavoce degli ordini sovrani e delle deliberazioni consiliari (l'atteggiamento, verso la deputazione venne deliberato nella seduta del 7 gennaio) in ispiratore e artefice principale della politica di resistenza alle rivendicazioni del popolo e dei progressisti. La sera stessa del 7 gennaio i liberali piemontesi, riunitisi nell'albergo d'Europa, stabilirono, su proposta del Cavour, di chiedere al sovrano non più provvedimenti parziali come la guardia civica e l'espulsione dei gesuiti, ma "una legge organica che appoggiando a forme parlamentari la propria autorità, la rassodasse e la rendesse mallevadrice dei voti della nazione". La resistenza reale, impersonata dal B. apparso più realista del re, ebbe quindi l'effetto di far sorgere rivendicazioni più avanzate di quelle respinte. Inoltre contro di lui, investito direttamente della responsabilità dell'ordine pubblico, i liberali finirono con il tramare sia nell'ombra sia (come nella famosa manifestazione del 27 febbraio) alla luce del sole. Il loro proposito era quello di neutralizzare la sua presunta influenza anticostituzionale sull'animo del re, al quale - secondo la testimonianza di G. Briano recepita da I. Rinieri - sarebbe andato "rappresentando come i popoli sabaudi, in generale, fossero per anco poco maturi" per le istituzioni liberali. Nella realtà, il B. non era né strumento cieco, né ispiratore reazionario della politica di Carlo Alberto. L'uomo forte secondava il re nel proposito di restaurare l'ordine e l'autorità, ma per convinzione, non per semplice dovere; il giurista, peraltro, - costantemente preoccupato di mantenere le iniziative del governo nell'ambito della legalità - svolgeva, nei confronti della politica voluta dal sovrano, che in una concitata lettera indirizzatagli il 9 gennaio era giunto a proporre, per Genova, rimedi estremi, anche illegali ("il faut aussi savoir s'élever à l'hauteur des circostances"), un ruolo sostanzialmente moderatore. Le sue prese di posizione in seno al Consiglio di conferenza lo dimostrano.
Il 7 gennaio si oppone, per la mancanza di una legge che lo preveda (ma anche per ragioni squisitamente politiche), alla proclamazione dello stato di assedio in Genova, preda di pericolosi sussulti; il 13 gennaio, per la stessa ragione, si dichiara contrario alla proposta di proibire "en voie de police" le riunioni numerose; il 17 esclude che la riunione nella quale è stato concertato l'indirizzo con il quale A. Brofferio e "trois autres individus" (tra cui il non nominato Cavour cui spetta l'idea) hanno richiesto "l'établissement d'un régime constitutionnel" possa essere considerata come un complotto nel senso previsto dal codice penale e che gli autori dell'atto possano essere perseguiti legalmente "en voie criminelle"; nella stessa seduta giustifica il diritto del Consiglio comunale di Genova di trasferire le borse di studio di cui gode il collegio dei gesuiti ad altri collegi ed alle scuole civiche, dal momento che esso concorre, insieme al Tesoro, al loro finanziamento; il 27, rintuzzando le pretese del vescovo d'Annecy lamentante l'esclusione del clero dal corpo elettorale, sanzionata dalla recente legge sui Comuni, sottolinea gli inconvenienti che deriverebbero dall'ammissione nei Consigli comunali di persone non soggette al foro civile.
Ma l'uomo di Stato emerse tutt'intero ai primi di febbraio, dopo che a Torino era giunta come una bomba la notizia che il re delle Due Sicilie aveva concesso la Costituzione. Allora l'azione prudente di contenimento diventò azione audace di netta opposizione a Carlo Alberto che aveva espresso la "ferme volonté" di "combattre jusqu'à l'extremité" e di "rien accorder à une demande insurrectionelle". Il B., che valutava gli avvenimenti diversamente, lungi dall'apprestare la resistenza s'impose "il dovere di persuadere il re, non già di cedere a domande insurrezionali", ma di mettersi prontamente e audacemente a capo dell'inarrestabile movimento liberale, concedendo quella costituzione, la cui richiesta - "scandalosa" e "intollerabile" decisa nell'adunanza dell'albergo d'Europa, aveva esaminato sotto il profilo penale solo due settimane prima.
In un momento in cui neppure lo schieramento liberale era conipattamente orientato verso la richiesta della costituzione (il Giovannetti era per l'estensione delle riforme, il Sineo per la guardia civica, lo stesso Valerio, se pure per motivi tattici, non aderiva alla proposta del Cavour) e quello conservatore era convinto con Solaro della Margarita della possibilità di resistenza, la fulminea risoluzione del B. costituiva prova indubbia di acume politico che conserva intatto il suo valore anche se accompagnata dalla convinzione che la costituzione era in sé "un mal" e "un malheur". Il B. tentò dapprima, in un colloquio privato del 2 febbraio, di strappare al sovrano una concessione spontanea. Radunò quindi i ministri e chiese il loro avviso: li trovò concordi sulla necessità di cedere alle esigenze dei tempi per evitare una crisi e la mattina del 3 ripeté al re non il solo suo pensiero, ma quello unanime dei consiglieri della corona.
Forte dell'unanimità dei ministri, così diversi "de condition, d'âge, d'habitudes", affrontò ufficialmente nella drammatica seduta del Consiglio di conferenza del giorno stesso "la question politique qui occupe maintenant tous les esprits" sviluppando con fine dialettica, materiata talora di commossa deferenza, talaltra di rude spregiudicatezza, gli stessi argomenti esposti nei colloqui privati. Nello stato attuale delle cose, l'alternativa era ferrea: o la crisi o la costituzione. Si trattava solo, per garantire la massima dignità possibile per la corona e il minor male possibile per il paese, di "la donner, non se la laisser imposer". Poiché i ministri avevano fatto la loro scelta, la decisione ora spettava al re. Se alla sua coscienza ripugnava invincibilmente cambiare la forma del governo, si assumesse - è il chiaro senso del discorso del B. - la responsabilità delle inevitabili conseguenze: le dimissioni dei ministri e lo sconvolgimento del paese. Quanto all'abdicazione alla quale in quei giorni (secondo il diario del conte di Castagneto e altre fonti come una lettera di Giovannetti ad A. Pinelli) il re avrebbe pensato realmente, essa "serait le plus grand des malheurs" e con essa "tout serait bouleversé, et les interêts mêmes de son Auguste famille seraient ébranlés".
Le parole insolitamente dure, segno dell'estrema gravità della situazione, non furono prive di risultato: il re, che non poteva dubitare della devozione e del patriottismo dei ministri, espresse la sua fiducia nel loro operato ed ordinò che si apprestasse un progetto di costituzione. Il B. non riuscì a indurre il re alla pronta e fulminea concessione capace di restaurare l'autorità dello Stato e di risollevare il prestigio della monarchia, ma averlo indotto a prendere in esame l'opportunità del provvedimento fu già grande vittoria. Intanto, come aveva previsto, arrivò presto la prima richiesta di costituzione, deliberata il 5 febbraio del Corpo decurionale della città di Torino, su proposta di Pietro di Santarosa, cui seguì un'ondata di entusiasmo a Genova e in alcune città del Piemonte. Il re, ancora assalito da dubbi, scrupoli e timori, convocò per il 7 un Consiglio straordinario al quale furono invitati, con i ministri, i più alti dignitari del regno.
In questa sede prevalse il parere del B., il quale aveva ribadito che la costituzione era un male, che tuttavia "l'on ne peut plus tarder de donner". Ogni altra ipotesi era da scartare: era impossibile "retourner en arrière"; l'impiego della forza, la repressione o addirittura il colpo di Stato avrebbero provocato un inutile spargimento di sangue e una maggiore esasperazione degli animi; l'intervento dello straniero sarebbe stato una umiliazione per il paese. Era quindi necessario "d'en venir à un changement d'institutions".
L'8 febbraio venne pubblicato il proclama annunciante la costituzione. Pur non simpatizzando con il governo costituzionale, il B. lo aveva accolto senza riserve, non come espediente per bloccare la rivoluzione. Anzi arrivò a vedere in esso, come attesta il suo significativo commento ("i tempi sono maturi a cose maggiori"), il passaggio obbligato verso il traguardo dell'indipendenza nazionale. Ma fissando nel proclama (del quale inspiegabilmente si dice autore il Des Ambrois) i capisaldi essenziali della costruzione costituzionale, egli si era preoccupato di scongiurare sia l'abdicazione (rovinosa per la monarchia) sia l'irrigidimento (fatale per il paese) di Carlo Alberto, la cui conversione al regime costituzionale, destinato ad apprestare nuovi fondamenti storici e giuridici alla corona, non comportava rinunce sostanziali alle prerogative regie. Interpretando esattamente il pensiero reale (nelle lettere, indirizzategli mentre redigeva il proclama, il re non muoveva alcun rilievo alle sistemazioni fondamentali limitandosi a proporre modifiche ad articoli secondari), il B. definì con grande perizia tecnico-giuridica, insieme alla posizione privilegiata della Chiesa cattolica, l'integrità della potestà regia, solo limitata quoad exercitium, e il sistema bicamerale con la Camera elettiva (in cui non aveva voluto rappresentanti di interessi corporativi) bilanciata dal Senato di nomina regia.
Purtroppo il preambolo del proclama rimandava l'entrata in vigore dello Statuto "in seguito all'attivazione del nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali", cioè al luglio successivo. L'errore fu alla base delle agitazioni di febbraio, alimentate sia dalle notizie provenienti d'oltre Ticino e d'oltr'Alpi, sia dai provvedimenti contraddittori del governo costretto a muoversi tra difficoltà crescenti e bersagliato - nonostante atti notevoli, come l'editto predisposto dal B. per il riconoscimento dei diritti civili ai valdesi - da giudizi aspri. L'opposizione contro il governo, personificazione del passato che si voleva seppellire (non a torto lo Spellanzon attribuì al suo mancato congedo da parte di Carlo Alberto dopo il proclama dell'8 febbraio buona parte della responsabilità per le agitazioni del torbido febbraio), aumentò con crescendo impressionante fino a culminare nella cosiddetta congiura dei liberali perpetrata nella solennità del 27 febbraio, quando, dopo il TeDeum cantato nella chiesa della Gran Madre di Dio per la promessa costituzione, una folla immensa convenuta da diversi Stati (i Lombardo-Veneti vestiti a lutto) dimostrò chiedendo l'intervento piemontese contro l'Austria.
Il 2 marzo fu lo stesso re a scrivere al B.: "Il divient d'une importance extrême de publier le Statut [il B. vi lavorava con alcuni colleghi almeno dal 17 febbraio] ... un retard nous entrainerait dans des malheurs". Il 4 marzo lo Statuto fu firmato. La scena solenne - descritta dal Des Ambrois - ebbe ancora una volta nel B. uno dei protagonisti principali: dopo la firma il B. fece presente che, mutato il governo, la corona doveva circondarsi di un nuovo ministero e, con commosso slancio, andò a genuflettersi davanti al sovrano per baciare la mano che aveva siglato la carta costituzionale. Con questo gesto, teatrale ma sincero, di deferenza verso il regime liberale il B. concluse la sua opera di ultimo ministro dello Stato assoluto, e uscì risolutamente e definitivamente dalla vita politica. Riprese, invece, la sua attività di magistrato, assumendo il 18 marzo la carica di primo presidente della riformata Camera dei conti, senza essere neppure chiamato a sedere in Senato.
Quando, nel luglio dell'anno seguente, il ministro degli Interni P. L. Pinelli tentò, ricorrendo anche alla mediazione del fratello Alessandro, di indurlo ad accettare la nomina a senatore (offertagli solo allora - come scrive A. Pinelli - perché "l'epoca attuale è la più acconcia, che non altra qualunque per venirvi Ella chiamata. Prima si poteva trattare di moderare moti avventurosi"), egli non si lasciò convincere. Non che l'offerta non lo lusingasse, ma il non essere stata fatta quando avrebbe avuto una precisa "significazione", e il non essere estesa a tutti i componenti di quel gabinetto degno dell'ammirazione del paese per la "libertà ch'esso concorse a procacciargli", gli fece scorgere in essa non l'intenzione di "onorare il principale consigliatore, il redattore dello statuto, e quindi il fermo propugnatore del medesimo", ma piuttosto un altro membro della Camera dei conti, essendo già senatori un consigliere e il procuratore generale. Anche se conveniva - "in parte" - sulla difficoltà, sottolineata dal ministro, "di chiamare ad un tratto in Senato tutti i membri del ministerio del 4 marzo" e "sul niun ostacolo [il B. aveva giustificato anche con questo argomento e con la cattiva salute il rifiuto] di unire con le Senatorie le non laboriosissime attuali mie funzioni giudiziarie", il B. riconfermò rudemente la sua ripugnanza a "mutare la risoluzione presa uscendo dal ministerio, e scrupolosamente mantenuta, di appartarmi intieramente da ogni atto di vita politica" (Manno).
Nel 1858 chiese l'esonero dalla carica di primo presidente della Camera dei conti. Il B. morì a Torino il 20 nov. 1860.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Commercio,Categoria 1, (1513 in 1816) da ordinare, fasc. 1814; Ibid., Gabinetto ministero Interni, Cartella 3, fasc. Personale in genere 1842-1850 (lettere del B. al ministro degli Interni); Ibid., Materie giuridiche,Camera dei Conti,Piemonte, mazzo 1814 in 1848 da ordinare; Ibid., Materie giuridiche,Senato di Genova, mazzi da ordinare per l'anno 1818; Ibid., Materie politiche relative all'Interno - Carte politiche e amministrative del Regno di Carlo Alberto, mazzi per gli anni 1847-1848; Ibid., Nobiltà, mazzo 3, fasc. Borelli; Ibid., Verbali del Consiglio permanente in Conferenza per gli anni 1845 in 1847, mazzo 7, sedute 17, 23 e 30 dic. 1847; Ibid., Sezioni Riunite,Camerale per gli anni 1848-1858; Patenti Controllo finanze,A-B,1843-1850; Torino, Museo del Risorgimento, Archivio Museo,Carteggio A, n. 51 (lettera di R. d'Azeglio al B.); G. Briano, Roberto d'Azeglio, Torino 1861, pp. 51, 54, 58; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, II, Torino 1881, pp. 399-400; A. Manno, La concessione dello Statuto, Pisa 1885, p. XIII; Id., Il patriziato subalpino, II, Firenze 1906, pp. 372 s.; A. Bert, C. Cavour. Nouvelles lettres inédites, Roma-Torino-Napoli 1889, p. 179; D. Zanichelli, Lo Statuto secondo i processi verbali del Consiglio di conferenza dal 3 febbraio al 4 marzo 1848, Roma 1898, passim; I. Rinieri, Lo Statuto e il giuramento del re Carlo Alberto, Roma 1899, p. 81; L. Des Ambrois, Notes et souvenirs inédits, Bologna 1901, pp. 14, 15, 19; E. Crosa, Lo Statuto del 1845 e l'opera del ministro B., in Nuova antologia, 16 giugno 1915, pp. 533-541; A. Colombo, Carteggi e documenti diplomatici inediti di E. d'Azeglio, I, Torino 1920, p. 486 (lettera di R. d'Azeglio al B.); Id., Dalle riforme alla Statuto di Carlo Alberto, Casale 1924, passim (contiene F. Sclopis, Dell'introduzione del governo rappresentativo in Piemonte, con cenni sulB. alle pp. 179, 181, 182, 186, 192); Id., Giacomo Giovannetti consigliere di Carlo Alberto attraverso il suo carteggio con Luigi Cibrario, in Il Risorgimento italiano, s. 3, XXIII-XXIV (1931), pp. 510, 524; E. Crosa, La concessione dello Statuto. Carlo Alberto e il ministro B. redattore dello Statuto, Torino 1936 (nonostante i limiti messi in luce dall'Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino 1955, pp. 210-212, è fondamentale perché pubblica quasi tutto il carteggio Carlo Alberto - B. ein genere le lettere superstiti del Borelli); C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, III, Milano 1936, pp. 562 ss., 566, 568, 581, 588, 590; G. Falco, Lo Statuto albertino e la sua preparazione, Roma 1945, pp. 14, 142 (alle pp. 81, 92, 96 lettere di Carlo Alberto a B. e alle pp. 157-239 verbali del Consiglio di conferenza 7 gennaio-4 marzo 1848).