CICOGNINI, Giacinto Andrea
Nacque a Firenze il 13 nov. 1606 da Iacopo, poeta e autore drammatico, e da Isabella Berti.
Il C. - la cui educazione, secondo una leggenda, sarebbe stata affidata dal padre, appassionato di teatro, al comico Pier Maria Cecchini (Fritellino) - cominciò invece a lavorare ancora fanciullo, a causa delle modeste condizioni della famiglia, come documenta una supplica rivolta da Iacopo alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, nel 1613, per ottenere un impiego al figlio che gli consentisse di provvedere al suo mantenimento agli studi. D'altra parte, le gravi difficoltà economiche che Iacopo doveva affrontare non ammettevano una diversa soluzione al necessario compito di coltivare la vivace intelligenza del ragazzo, il quale a tredici anni già componeva l'opera Il palio dei villani trasformati in civettoni (Firenze 1619). Nel 1623 il C. Ottenne un posto gratuito nel collegio Ferdinando, che gli permise di frequentare il corso di legge nell'università di Pisa, dove si laureò il 16 nov. 1627.
In contatto con l'ambiente culturale fiorentino (tu iscritto alle accademie degli Instancabili e degli Infiammati), amico del Chiabrera e del Malatesta: il C., incoraggiato anche dall'esempio paterno, preferì alla professione forense l'attività di autore teatrale, che svolse con autentica passione producendo un repertorio vastissimo di commedie, melodrammi, tragedie e drammi di soggetto sacro. Non si conosce la data dei suo trasferimento da Firenze a Venezia, avvenuto - sembra - per avere offeso "un certo ... Boccardino ruffiano del cardinale Giovan Carlo de' Medici e d'altri Principi di Toscana", il quale si sarebbe vendicato aggredendo il famoso commediografo "in pubblico corso del palio", secondo la versione fornita da un manoscritto del Marmi, conservato nella Biblioteca nazionale di Firenze (cfr. Crinò, Documenti inediti sulla vita e l'opera di Iacopo e di G. A. Cicognini, in Studi secenteschi, II[1961], p. 285).
Morì a Venezia verso il 1651 e non nel 1660, come affermano alcuni suoi biografi (cfr. Belloni, n. 5, p. 2), perché il melodramma Gli amori di Alessandro Magno e di Rossane, stampato a Venezia nel 1651, èdefinito nel frontespizio "Dramma posthumo", e una nota dell'editore, Pinelli, avverte che per la morte improvvisa dell'autore l'opera è rimasta incompiuta (cfr. Croce, p. 116).
Il C. fu considerato dai contemporanei il più grande drammaturgo del secolo, e il diffuso prestigio della sua fama gli attribuì più di cinquanta opere, alcune delle quali sono invece di dubbia paternità. Il notevole successo di pubblico e di critica, caratteristico dei suoi testi teatrali, si spiega soprattutto con la loro aderenza alla concezione secentesca del teatro come spettacolo "di consumo" che utilizza le tecniche più ricercate - dalla fusione dei tragico e del comico, del simbolico e del realistico, all'invenzione di macchine sceniche e di mirabolanti scenografie -, per soddisfare le esigenze del pubblico, divenuto ormai un fattore fondamentale della creazione artistica sempre più subordinata al gusto dominante. Una perfetta padronanza della tecnica teatrale ed una sicura conoscenza delle necessità sceniche permettono, infatti. al C. l'appropriazione e l'impiego a fini spettacolari di elementi diversi: i complessi soggetti dei drammi spagnoli, i temi tradizionali della commedia erudita cinquecentesca, i tipi e i procedimenti della commedia dell'arte, ognuno dei quali assume la medesima funzione di fornire la trama essenziale o il pretesto che sollecitano ed avviano un gioco inesauribile di travestimenti, colpi di scena, ed improvvisi mutamenti di sorte, destinati all'ammirazione del pubblico.
La lezione teatrale del C. fu presto seguita da numerosi imitatori, i quali spesso adoperavano anche il suo nome per divulgare con maggior fortuna le proprie commedie, tanto che ancor oggi non sembra facile stabilire l'autenticità di alcuni testi inclusi nei cataloghi delle sue opere. Nel 1668 M. M. Bartolommei Sineducci pubblicò a Firenze, la commedia Amore opera a caso, nella cui prefazione trascrisse l'elenco esatto dei lavori teatrali composti dal C., per evitare che venissero assegnate al celebre commediogtafo le opere d'altri autori. L'elenco riporta i titoli di diciotto "commedie" delle quali, secondo il Bartolommei, le prime diecì sarebbero state scritte dal C. a Firenze, e le rimanenti al tempo del suo soggiorno a Venezia.
Il Croce - pur osservando che la prodúzione drammatica del C., costituita da un numero considerevole di drammi, non è l'opera dì un solo autore, ma un corpus formato con i testi di vari drammaturghi dagli editori teatrali del Seicento, i quali si sarebbero serviti di un nome prestigioso per attirare l'attenzione dei lettori -, accetta come valide le dichiarazioni dei Bartolommei e nega la paternità, del C. per i drammi non inclusi nell'elenco. Allo stesso modo si comporta il Greshey, mentre il Sanesi avanza seri dubbi circa l'attendibilità del catalogo, sospettando che il Bartolommei non potesse essere così bene informato sull'attività dei C. trasferitosi a Venezia. In mancanza di sicuri criteri di giudizio in grado di stabilire l'autenticità e la reale cronologia delle opere attribuite al C., non rimane che affidarsi alla testimonianza delle pubblicazioni pervenuteci sotto il suo nome.
Il figlio ribello, ovvero Davide dolente (Venezia 1668) - pubblicato postumo con l'avvertenza premessa dal C., nella quale l'opera viene qualificata come "primo parto della sua penna" -, è un libero rifacimento del noto tema biblico della ribellione di Assalonne contro il padre Davide, già utilizzato da Calderon de la Barca nella commedia Los cabellos de Absalon. La derivazione del Figlio ribello dall'opera calderoniana, riconosciuta dal Belloni, è invece recisamente negata dal Cantella, il quale ritiene che il C. si sia ispirato per il suo dramma al David sconsolato di Pier Giovanni Brunetti (Serravalle 1605).I drammi sacri non costituiscono, tuttavia, che un settore dell'immensa produzione del C., abituato a passare con estrema disinvoltura dai testi di argomento biblico e agiografico a quelli di carattere profano e ai libretti per musica con i quali riscosse altrettanta fama e fortuna.
La forza del fato, ovvero Il matrimonio nella morte (Firenze 1652), con il sottotitolo opera tragica di lieto fine, mostra un esempio caratteristico del gusto per le iperboli, per gli intrecci complicati ed inverosimili, che domina tutto il teatro del Cicognini. Il contrasto tra amore e ragion di Stato si propone come elemento drammatico della vicenda, ambientata in una sfarzosa reggia della Castiglia dove l'infelice Deianira deve rinunciare all'amore del re Alfonso, costretto per motivi dinastici a sposare Rosaura. Dopo il matrimonio contratto per vendetta da Deianira con il nobile don Ferdinando, l'azione precipita verso un tragico finale nel quale Deianira, per difendere il suo onore di sposa minacciato dal re, che non si rassegna alla sua perdita, causa involontariamente la morte sia di Rosaura sia di don Ferdinando. Il dramma si conclude con le nozze di Alfonso e Deianira, che suggellano il trionfo dell'amore sulla ragion di Stato, ottenuto però attraverto una serie macchinosa di delitti.
Ne Le fortunate gelosie del principe Rodrigo (Perugia 1654) la rappresentazione del conflitto che agita la coscienza del principe Rodrigo, diviso tra la convinzione dell'onestà di Delmira, sua futura moglie, ed un'ossessiva gelosia sempre pronta a suscitargli i più atroci sospetti, rivela un'aspirazione al dramma psicologico bloccata tuttavia dalle esigenze del gioco scenico, che escogita ogni volta ingegnose e complesse situazioni per accendere la furiosa reazione di Rodrigo. Numerosi intermezzi episodici nei quali compaiono personaggi e si svolgono azioni secondarie, a carattere comico e sentimentale, conferiscono all'opera un andamento brioso per cui appare evidente come l'azione principale, basata sul doloroso alternarsi di dubbi e pentimenti nell'animo di Rodrigo, non preluda ad una soluzione tragica ma piuttosto ad un felice superamento del drammatico contrasto.
Personaggi comici furono inseriti dal C. nell'"opera scenica in prosa" Adamira, ovvero La statua dell'onore (Venezia 1657), dove la protagonista Adamira, figlia del re di NorvegiaIndamoro, è afflitta da un'insana passione verso una statua di marmo del suo giardino, raffigurante l'Onore. Con sottile ironia il C. predispone una complicata sequenza di equivoci e malintesi, per effetto dei quali Adamira è accusata ingiustamente di aver perduto il proprio onore con tre uomini diversi: il principe Enrico, il garzone Laureno e il giardiniere Perideo. Il re si abbandona al più spaventoso furore, ma una serie di provvidenziali agnizioni ristabilisce la verità e Adamira, finalmente rinsavita, acconsente al matrimonio con Perideo, il quale è riconosciuto per Corinto, figlio di Sveno re di Dania, rapito in fasce dai corsari e condotto alla reggia di Indamoro, dalla vecchia rasquella. Il personaggio della vecchia "semplice", come viene definita nell'elenco degli interlocutori, introduce una nota comica e realistica nella vicenda, contrapponendo il suo linguaggio colorito all'enfasi declamatoria dei dialoghi attribuiti ai personaggi aristocratici.
L'agnizione, espediente consacrato dalla tradizione dei teatro classico, si trasforma nel Don Gastone di Moncada (Venezia 1658) in un abile gioco di simulazioni condotto dal consigliere don Merichex, il quale è incaricato dal sovrano innamorato di Violante, moglie fedelissima di don Gastone, di ottenere la resa della giovane donna. Il consigliere, pur legato da profonda amicizia con don Gastone, perseguita la coppia, strappa loro il figlio e fa credere di averlo ucciso, rivelando infine di aver mostrato tanta crudeltà per impedire che il re affidasse ad altri l'esecuzione dei suoi infami propositi. La trama de La moglie di quattro mariti (Perugia 1659) illustra l'ambiguo titolo cm una successione di sconvolgenti agnizioni che impediscono ogni volta alla principessa Ermelinda di contrarre matrimoni incestuosi: prima con il re, che si scopre essere suo padre, in seguito con Ferramondo, designato in una lettera della defunta regina come il fratello della principessa, e infine con Filandro, il quale risulta essere il vero fratello di Ermelinda. L'ultima rivelazione concede a Ferramondo, nuovamente fidanzato con la principessa, di appagare il suo lungo e sospirato sogno d'amore.
Nei drammi sacri la trama edificante non impedisce al C. di ricorrere ai noti espedienti teatrali già sperimentati con successo: la conversione diventa quindi un colpo di scena e l'unione caotica di azioni reali ed elementi soprannaturali si aggiunge al consueto alternarsi di scene comiche e tragiche. Il Cipriano convertito (Bologna s.d.) presenta tutti i caratteri tipici dei drammi profani; l'intreccio amoroso per cui Cipriano, prima della conversione, tenta di piegare, al proprio desiderio la bellissima e purissima Giustina; lo stratagemma ormai classico del travestimento nel personaggio di Ermellina, che in abiti maschili, sotto il falso nome di Brandigi, figura come nuovo fidanzato di Giustina; e l'elemento comico rappresentato da Pasquella, balia di Cipriano, alla quale il diavolo (Aladino) fa la corte per raggiungere i propri fini. Tuttavia il nucleo tematico dei dramma, privo delle fantasiose innovazioni introdotte dal C., sarebbe derivato dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, o più probabilmente, - come sostiene il Sanesi -, da un dramma spagnolo ispirato al testo latino.
Il C. raggiunge talora momenti di autentica tragicità come nel Tradimento per l'onore (Roma 1664), che il Doglio definisce "un bellissimo dramma d'amore e di morte" (p. CVI). Il testo, di cui è stata discussa l'attribuzione al C., rivela una, convincente forza drammatica nella gravità disperata e delusa del duca Federico che, disonorato per il tradimento della moglie con il suo amico Alfonso, esita per un istante a compiere la vendetta; ma il senso dell'onore gli impone l'obbligo di fare giustizia, e con fredda determinazione il duca tradito prepara il castigo esemplare per i colpevoli. Fingendo di voler dimenticare il torto subito, Federico invita l'amico a cena in una sua villa in campagna e, durante il banchetto, palesa il suo odio implacabile che culmina in una strage sanguinosa. Allo stesso modo si comporta poi con la moglie: simula di perdonare la sua colpa, di desiderare ancora il suo affetto ma, nel momento in cui la donna si appresta a una notte d'amore e di pacificazione, egli le mostra il cadavere dell'amante nell'alcova e la uccide crudelmente, giustificando l'atroce delitto come il necessario sacrificio dovuto all'onore offeso.
Il ritmo del dramma. teso verso il cupo finale di morte, diviene a tratti lento, quasi ricolmo di tristi presagi come nella scena seconda dell'atto terzo, dove le donne leggono alla mesta Alouisia, moglie infedele del duca alcuni:pissi del Pastor fido. Nel sentire l'infelice sorte di Amarilli, incolpata ingiustamente di adulterio, la duchessa, in preda a un profondo turbamento, è assalita dal rimorso per il suo peccato. La lunga.citazione dall'opera del Guarini non rappresenta solo una pausa lirico-evasiva prima della tragedia, ma anche una felice fusione di letteratura ed invenzione teatrale.
L'esperienza comica della commedia dell'arte, pon la schietta popolarità dei personaggi minori, servi e furfanti, caratterizza invece Ilconvitato di pietra (Venezia 1691), libera riduzione dal Burladorde Sevilla, attribuito a Tirso de Molina. Il C. conferisce al personaggio di don Giovanni una fisionomia diversa da quella dei cinico, elegante ed astuto.inventore di menzogne, divulgata dal testo spagnolo; il celebre libertino è rappresentato come un uomo impetuoso e violento, che non conosce limiti ai suoi desideri. Le prodezze compiute da don Giovanni sono commentate con motti salaci dai servi Passarino e Fichetto, tipici personaggi della commedia dell'arte, ai quali si aggiungono - desunte dalla medesima tradizione - le maschere dei Dottore e di Pantalone. Alla dichiarazione del Croce, che nega la composizione dell'opera al C., si contrappone una lettera di Iacopo Cicognini al Cioli (Firenze, 24 marzo 16321, pubblicata dalla Crinò, nella quale si afferma che il figlio "Iacinto" intende far rappresentare a Pisa "una commedia chiamata IlConvitato di pietra".
Altre opere oltre a quelle elencate: Il maggior mostro delmondo o La Marienne (Perugia 1656), Laforza dell'amicizia ovvero L'onorato ruffiano di sua moglie (Venezia 1658), La conversione di S. Maria Egiziaca (Todi 1659), Le amorose furie di Orlando (Venezia s.d.), La caduta del gran capitano Belisario sotto la condotta di. Giustiniano imperatore (Bologna 1661), IlMustafà (Roma 1662), L'innocenza calunniata ovvero La regina di Portogallo Elisabetta la Santa (Viterbo 1662).
Infine "per opera dei Cicognini avvenne per la prima volta, regolarmente ed ufficialmente, l'incontro tra tragedia e melodramma", come nota il Doglio. Fra i suoi numerosi drammi musicali citiamo soltanto IlCelio, Firenze 1646, musicato da Baccio Baglioni e Nicolò Sapiti, e IlGiasone, ibid. 1649, musicato da P. F. Caletti, dove il celebre mito di Medea trova una felice conclusione con le duplici nozze di Egeo e Medea, Isifile e Giasone.
Fonti e Bibl.: Sulla vita e ropera del C. cfr. A. Lisoni, Un famoso commediografo dimenticato G. A. C., Parma 1896; A. M. Crinò, Docum. inediti sulla vita e l'opera di Iacopo e di G. A. C., in Studi secenteschi, II(1961), pp. 255-286; per la questione relativa all'autenticità dei testi attribuiti al C. cfr.: L. Greshey, G. A. C. Leben und Worke unter besonderer Berücksichtigung seines Dramas La Marienne ovvero Il maggior mostro del mondo, in Münchener Beiträge zur romanischen und englishen Philologie, 1909, 43, pp. 126 ss.; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1954, pp. 697-722. Sulle fonti spagnole del teatro del C., A. Belloni, Per la storia del teatro italo-spagnuolo nel sec. XVII, in La Biblioteca delle scuole italiane, s. 3, X(1904), 5, pp. 1-3; 11, pp. 1-3; G. Gobbi, ibid., XI(1905), 15, pp. 218-222; R. Verde. Studi sull'imitazione spagnola nel teatro ital. del '600, G. A. C., Catania 1912; A. Cantella, Calderón de la Barca in Italia nel sec. XVII, Roma s.d., pp. 33-67, Su Il tradimento per l'onore (Roma 1664) cfr.: F. Doglio, Introduzione alTeatro tragico ital., Parma 1960, pp. CV-CVII; Il Seicento, Roma-Bari 1974, pp. 213-219; su Il Convitato di pietra (Venezia 1691) cfr.: F. De Simone Brouwer, Lo scenario della commedia dell'arte e il Convitato di pietra del C., in Don Giovanni nella poesia e nell'arte musicale, Napoli 1894, pp. 15-24; B. Croce, Intorno a G. A. C. e al Convitato di pietra, in Aneddoti di varia letter., Bari 1953, pp. 116-133; G. Macchia, Vita avventure e morte di don Giovanni, Bari 1966, pp. XIV-XV, XX, 7, 75, 81, 102. Sul teatro per musica dei C. cfr. A. Bonaventura, Di un dramma musicale rappresentato a Firenze nel 1646, in Rivista fiorentina, I(1908), pp. 28-34; V. Ricci, Un melodramma ignoto della prima metà del '600, in Riv. musicale ital., XXXII(1925), 1, pp. 51-79, Cfr., inoltre, Enc. d. Spett., III, coll. 738 s.