CARELL KLEIN, Ghitta
Figlia di Ignazio Klein e di Lotti Sonnenberg nacque a Szatmar (Batmar), Ungheria, il 20 sett. 1899.
Il suo apprendistato tecnico avvenne a Budapest dove seguì un corso di fotografia per signorine, educandosi così alla scuola delle tardive declinazioni della fotografia pittorica incline, nel periodo fra le due guerre, in Ungheria come nel resto dell'Europa, a pose languide e svenevoli nonché ad ambientazioni di tipo intimista con luci morbide e soffuse.
Nel corso della sua fortunata carriera la C. sarebbe in seguito rimasta legata alle suggestioni di questa prima educazione: in un momento in cui la fotografia volgeva ormai verso l'obiettività, sganciandosi definitivamente dal gusto ottocentesco, ella recuperò infatti - con atteggiamento rétro - la manualità del ritocco che diventava strumento principale per la resa lusinghiera dei ritratti ufficiali.
Già in Ungheria, cominciò a frequentare gli ambienti intellettuali della capitale e, in particolare, lo studio del fotografo Szekelu Aladar, autore di libri fotografici cui collaborarono, fra gli altri, lo scrittore Ignotus, il poeta Ady e Béla Bartok, figure quanto mai rappresentative dell'élite culturale ungherese impegnata politicamente nella rivoluzione del 1918. Per completare la propria educazione, che fu prevalentemente storico-artistica, e per accrescere il proprio bagaglio tecnico fotografico, la C. si trasferì prima a Vienna poi a Lipsia; approdò quindi in Italia (1924), a Firenze, città che aveva imparato ad amare attraverso i libri di D. S. Merezkovskij.
A Firenze frequentò l'ambiente intellettuale mitteleuropeo, specie ungherese, che faceva capo al villino degli Angeli (Fiesole) dove Marki e Matild Vedres, che avevano già a lungo soggiornato a Settignano nel primo decennio del secolo, si erano stabiliti dopo il 1918. Fra gli amici dei Vedres, lui pittore, lei storica dell'arte, vi erano il compositore L. Dallapiccola, Marino Marini, i Berenson ed Alberto Carocci.
Il successo della C. fu decretato dalla fortunata fotografia di un balilla, utilizzata per un manifesto fascista a vastissima tiratura. "Era un. bambino bellissimo, aveva capelli neri ed occhi azzurri. era vestito da balilla … lo incontrai per caso sulla porta della pensione …", ricorda la C. (Leydi, 1972).
La fama che venne man mano conquistandosi, sancita da giudizi autorevoli come quello di Ugo Ojetti, le dischiuse ben presto le porte di una committenza sempre più esclusiva. Lo studio fiorentino di piazza Savonarola risultò, di conseguenza, angusto e provinciale e la C., con preciso intuito, decise di trasferirsi a Roma dove si stabilì in via Barnaba Oriani e, da li, molto più tardi, in via G. B. Vico.
Elena Canino (1956, pp. 272, 273) ci, descrive il suo primo alloggio come particolarmente accogliente: "… è riposante, signorile, né pretese borghesi né bohème. Bei tappeti, comode poltrone, quadri, sculture, argenterie specchianti, semplici fiori primaverili"; la C., "tailleur nero, piccolo gioiello antico, aria sempre un po' stupita", per gli appuntamenti fa usare un "taccuino come un messale, nelle pagine sono prenotati tutti i nomi politici e mondani di Roma. Per trovare ore disponibili per nuove pose bisogna fare opera d'incastro". E in effetti, per circa un trentennio - fino all'ultimo ritratto ufficiale, quello di Giovanni XXIII (1960) - passò per la sua casa atelier tutto il mondo aristocratico, quello imprenditoriale e dell'alta finanza e ancora gerarchi, principi della Chiesa, esponenti della cultura ufficiale. Dopo che, introdotta a corte da Sofia di Grecia, divenne fotografa della famiglia reale, è soprattutto dopo che ebbe ritratto Mussolini, farsi fare il ritratto dalla C. divenne quasi un obbligo sociale. La C. pretendeva di essere l'unico fotografo degno di considerazione allora attivo a Roma: nemica giurata di A. Porry Pastorel, stimava invece Gustavo Bonaventura, esponente romano della fotografia pittorica e raffinatissimo autore.
L'intento dichiarato della C. fu quello di andare oltre i tratti del volto, di scavare nella personalità per attingere ad una più profonda verità interiore: "Io non fotografo faccia, ma qualcosa avanti che flotta" (in Occhipinti-Cambria, 1978). A possibile oggi, ad una distanza storica che permette di guardare al fascismo con occhio critico, riconoscere alla C. le doti di fine psicologa che ella implicitamente vantava? Diversi elementi del diario della Canino (1956, pp. 272, 280), che fu segretaria della C. per quattro anni a partire dal 1930, lasciano aperta la via ad una risposta affermativa, non certo però in termini di verità individuale, ma in quanto nella sua opera si leggono i desideri e le ambizioni di tutta una classe, quella al potere. La Canino, fra l'altro, ricorda: "Un altro mio incarico è quello di prendere in consegna le valige da cui le signore si fanno precedere. È la signora che deve decidere quale, dei tanti vestiti che vi stanno piegati dentro, è adatto. Niente è lasciato alla loro scelta, né la scollatura, né i ricci, né la posa. Poi in camera oscura le fa smagrire di dieci chili in dieci minuti, raschiando dove bisogna. Ravviva gli occhi con i suoi pennellini, le fa tutte belle: giovani e svelte ninfe" (ibid., p. 274). Sotto l'abile e sapiente ritocco della C. ogni volto diventa modello di perfezione, sempre comunque bello, buono e nobile, se non addirittura eroico, riflesso evidente di ciò che i suoi clienti avrebbero voluto essere o che credevano di essere; ella ha saputo attraversare, con perizia tecnica e preciso talento fotografico, trent'anni della nostra storia fissandone le tappe della cronaca, del costume e del gusto nei suoi raffinatissimi ritratti. La C. che, in quanto ebrea non poteva permettersi, pena la vita stessa, una critica aperta e diretta della società del suo tempo, adottò in apparenza il linguaggio del consenso, riservandosi però l'uso di un sarcasmo quasi feroce che si esprime e si placa nell'umorismo sottile e garbato, quasi inavvertibile, dei suoi ritratti lusinghieri.
Membro ella stessa, anche se suo malgrado, di quella società che era chiamata a fotografare, la C. se ne poté fare interprete solo a condizione di accettarne le regole, le aspirazioni più profonde e le ideologie; in altre parole è attraverso questa via che i suoi ritratti, ritagliati come sono sull'ideologia politico-sociale del fascismo, rientrano automaticamente all'interno della logica intellettuale egemone; la fotografia - soprattutto grazie ad una presunta e conclamata obiettività della sua resa - esalta al massimo grado il suo potere di persuasione e di condizionamento delle masse fino a divenire strumento non indifferente di trasmissione di modelli e di controllo ideologico.
Dopo la guerra la C. rinunciò alla cittadinanza ungherese e, nel 1959, ottenne quella italiana. Prima di trasferirsi definitivamente in Israele, grazie alla mediazione di W. Settimelli, cedette (1969) il proprio archivio di negativi (circa 50.000 lastre 18 × 25) al Centro informazioni Ferrania; il suo corpus di immagini è oggi confluito nelle raccolte della 3M Minnesota Italia di Milano (Segrate).
Tra le mostre fotografiche dedicate alla C. in Italia ricordiamo quella all'Open Gate Club (Roma 1967, con presentazione di Antonio Baldini) e quella tenuta nel 1970 prima a Roma (maggio), poi a Milano (giugno); nel 1969 la RAI realizzò un documentario su di lei (Cresci, 1969).
La C. morì a Haifà il 12 febbr. 1972.
Fonti e Bibl.: Recens. alla mostra di G. C. alla galleria Pesaro (14-24 maggio 1936), in Corriere della sera, 15 maggio 1936; E. Canino, Clotilde fra due guerre, Milano 1956; Profili d'artisti, in La Settimana a Roma, 29 maggio 1958; A. Azzarita, La fotografa delle teste coronate, in Il Giornale d'Italia, 7 giugno 1959; U. Orti, I bambini italiani sono i più belli, in Noi genitori, II (1969), n. 10, pp. 50-53; G. P. Cresci, Incontro ad Haifa conG. C., artista dell'obiettivo, in Gazzetta del popolo, 27 aprile 1969; G. Turroni, L'impeccabile gusto di G. C., in Prestigio, novembre-dicembre 1969; A. Gilardi, Grazie zia Carrel, in Popular Photography italiana, gennaio 1970, pp. 33-35; Id., Come si diventa una fotografa alla moda, ibidem, pp. 36-43; Id-G. Turroni, 1927-1960 dall'archivio di G. C. (catal.), Roma 1970; Sulla cresta dell'onda, in Epoca, 22 febbraio 1970; L'Italia dei potenti, la mostra della ritrattista ungherese, in Paese sera, 8 maggio 1970; E. M. Ricciuti, Ebrea ungherese, fece fortuna in Italia dopo il 1927…, in Il Secolo XIX, 9 maggio 1970; E. Doni, Trent'anni di vita italiana nei ritratti di G. C., in Il Giornale d'Italia, 14 maggio 1970; S. delli Ponti, Fotografò i protagonisti dell'Italia dal '25 al '55, in Il Resto del carlino, 14 maggio 1970; P. Longardi, Un'eccezionale galleria di volti in centoventi ritratti di G. C., in Il Mattino, 24 maggio 1970; D. Saetta, Trent'anni di vita italiana nelle fotografie di G. C., in Libertà, 9 giugno 1970; Una vita dietro l'obiettivo, in Avanti!, 13 giugno 1970; C. Cederna, Fotografò i più noti personaggi da Mussolini a Walt Disney, in La Gazzerta, 10 luglio 1970; R. Leydi, G. C., in L'Europeo, 10 febbraio 1972; G. C. fotografa di un'epoca (presentazione di G. Turroni), in Skema, agosto-settembre 1973, n. 819; I. Zannier, 70 anni di fotografia in Italia, Modena 1978, pp. 47-48; M. F. Occhipinti-A. Cambria, Signori d'Italia nei fotoritratti di G. C., Milano 1978; F. Alinovi, in Annitrenta (catal.), Milano 1983, ad Indicem; G. C. la fotografia delle maschere, a cura di M. Lombardi, Milano 1985.