GARISENDI, Gherarduccio
Poeta bolognese attivo tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo e autore di tre sonetti composti in tenzone con Cino da Pistoia.
Cino da Pistoia fu a Bologna nell'ultimo decennio del Duecento, frequentò i circoli poetici locali ed ebbe commercio poetico - oltre che con Onesto, Cacciamonte, Picciolo e Bernardo - anche con il G., la cui attività va pertanto fissata tra la fine del sec. XIII e gli inizi di quello successivo. Zaccagnini (1918), segnalando un documento del 27 genn. 1305 dove figurano come testimoni "domino Gerardo domini Dondedei et Brandelixio de Garixendis", ritenne di poter riconoscere "Gerardo" nel G., ma questa identificazione rimane dubbia. Sappiamo infatti che nel corso del sec. XIII vissero a Bologna almeno altre tre persone che portarono lo stesso nome del G.: un "Gerardus Garixendis", attestato nel 1239; un "Gerardino Garisendi", che sposò nel 1286 Benvenuta di Giovanni Baragazza; un "Gherardo di Martino Garisendi", che sposò nel 1288 Benvenuta di Giovanni di Guido Corisii. Escluso il primo dei tre per ragioni cronologiche, non appare arbitraria - data la convergenza degli ipocoristici "Gherarduccio" e "Gherardino" - l'identificazione del secondo col Garisendi.
I tre sonetti del G. ci sono tramandati dal ms. Casanatense 433 della Bibl. Casanatense di Roma e dal ms. Nuovi acquisti, 332 della Bibl. nazionale di Firenze (la cosiddetta "Giuntina Galvani"). Abbiamo quattro sonetti di Cino al G. e solo tre responsivi di quest'ultimo. Zaccagnini (1925) avanzò l'ipotesi che il G. fosse destinatario di due sonetti di Cino, "Novelle non di veritate ignude" e "Fa' de la mente tua specchio sovente", ma non addusse prove definitive a sostegno della sua proposta. Il tema della tenzone proposta al G. da Cino da Pistoia è quello della morte; domanda infatti subito il pistoiese: "Deh, Gherarduccio, com' campasti tue", ferito dalla vista amorosa? Ma Gherarduccio è stato "punto e non morto", dunque graziosa sofferenza fu l'attimo istituzionalmente fatale e l'allegrezza del superstite si addice al Garisendi. Cino è stupito, meglio dire perplesso: il sistema tragico cavalcantiano, in cui si riconosce, non sembra consentire questo gaudio spavaldo. Fin qui Cino da Pistoia. Non ci è pervenuto il sonetto di risposta del Garisendi.
Nel secondo componimento, "Caro mio Gherarduccio", il pistoiese si mostra incredulo di fronte allo stato pacificato dell'animo del G. amante. Distingue senz'altro il proprio dolore dal non dolore dell'amico, ma non è convinto. Il sistema cavalcantiano, immediatamente individuato con quell'"andar filosofando", non dà scampo: "Onde tu puoi parlar come ti piace, / ché tu sei dentr'al cor ferito a morte" (vv. 9-10 dell'ed. Marti). Il G. aveva probabilmente risposto al precedente sonetto ciniano ribadendo forse l'allegrezza, rifiutando l'argomento letale con i suoi portati cavalcantiani e provocando quindi la reazione tutta fieramente tragica di Cino. Al secondo sonetto di questo il G. rispose: "Non pò gioir d'amor chi non pareggia", il primo dei suoi sonetti a noi pervenuti. Servo ubbidiente di Amore deve equilibrare bene e male, accettarne anzi euforicamente il composto ossimorico. Non c'è equivoco invece in fatto di morte-vita: "amor verace" è senz'altro vita. Il sonetto del G. è una lezione all'avversario sul paradosso amoroso visto in un'ottica gaudiosa. Cino era maestro di topici oxymora amorosi, ma sempre in una linea drammatica e di languida "voluptas dolendi". Il G. oppone un'altra concezione, un'altra tradizione, un'altra retorica, o meglio, un diverso colore psicologico che riveste una stessa strumentazione retorica. Nella risposta al G., Cino si dichiara lontano dall'oggetto amato, in stato di doglia e angoscia: si consola contemplando l'immagine "pinta" nella mente che raffigura la sua donna, maestro com'è d'"imaginare intelligibilmente"; è insostenibile l'ipotesi di un reale, fisico ritratto formulata da Corbellini e da Pellegrini, i quali ipotizzano anche una rivalità in amore fra Cino e il G., che amerebbero una stessa donna, probabilmente una bolognese. Marti è d'accordo, Zaccagnini invece nega. Effettivamente i vv. 11-14 di questo componimento ciniano de lonh, fanno pensare proprio a una guerra, se pur poetica, intorno a un unico oggetto d'amore. Il G., nel secondo sonetto "Dolce d'amore, amico eo ve riscrivo" ribatte aggressivamente, affermando la propria superiorità in amore. Lui e Cino si abbevererebbero "ad rivum eundem", come il lupo e l'agnello della favola? Giammai. Il G. attinge al dolce stagno d'amore pienamente, ove l'avversario appena lambisce le acque di un fiumiciattolo (se così vanno letti i vv. 7-8: "Non ve bagna acqua di quel dolce stagno / d'amor, son certo, 〈a> pena ben di rivo", scostandomi dal Marti, ma senza le disinvolture congetturali di Zaccagnini).
L'amore di Cino è "infinto" (v. 13). Emerge finalmente quell'accusa di superficialità e volubilità ("vostro cor vano, disciolto e lascivo": v. 5), che sarà protagonista nel terzo sonetto. Il G. ha, comunque, un ulteriore motivo di allegrezza: Cino è rifiutato dalla donna che ama. Il pistoiese si fa allora sarcasticamente più aspro "Come li saggi di Neron crudele", erompe in un'accusa di fraudolenza, di falsità, moltiplicando le metafore umili e dotte. Cino è verace amante, non adotta trappole: in lui lo spirito amoroso discende direttamente dal pianeta di Venere. Il G. a sua volta rispondendo con il terzo sonetto "Poi ch'il pianeto ve dà fé certana" non manca di ironizzare sull'astrologia ciniana e viene al dunque: il pistoiese gioca con "doe vele", con "doe tele", insomma, con due amori. Cino è lascivo, incostante, anticortesemente "bigamo". Accusa che Cino conosce e conoscerà in diverse altre occasioni "Se v'ha gremito la pola selvana", argomenta il G., "com'esser po' de la pinta fedele?" La "pinta" (nella mente) è la donna forse causa di rivalità fra i due, ma cosa nasconde il senhal "pola selvana?" L'aggettivo farebbe ragionevolmente pensare a Selvaggia, l'amata di Cino; "pola", cioè mulacchia, cornacchia, insomma uccello bruno, potrebbe evocare una donna nero-chiomata, ma Selvaggia è bionda. Corbellini e Zaccagnini pensano alla Selvaggia in lutto e ai relativi componimenti ciniani sulla donna "in scura vesta". Per Zaccagnini anche la "merla" e la "cornacchia" di altri sonetti sono segnali di Selvaggia abbrunata.
Corti evoca simbologie religiose di marca laudese per la nero-velata, discostandosi dall'interpretazione biografica. Comunque sia, Cino è per il G. fuori d'"amore fino" e perciò si lamenta e insanisce. Da parte sua, il G. ribadisce la propria orgogliosa lietezza.
I tre sonetti del G., già pubblicati nel 1589 (Delle rime dell'eccellentissimo… Cino… da Pistoia, a cura di F. Tasso, Venezia, pp. 108, 114 s.), sono stati editi da: T. Casini, in Rime dei poeti bolognesi del sec. XIII, Bologna 1881, pp. 142-144 (con apparato alle pp. 385-387); G. Zaccagnini, in I rimatori bolognesi del secolo XIII, Milano 1933, pp. 150-152, con discutibile ricostruzione idiomatica; M. Marti, in Poeti del dolce stil nuovo, Firenze 1969, pp. 784 s., 788 s., 792 s., con ampio commento.
Fonti e Bibl.: A. Corbellini, Cino da Pistoia. Amore ed esilio, Pavia 1898, pp. 41 ss.; G. Zaccagnini, Cino da Pistoia. Studio biografico, Pistoia 1918, pp. 83 ss., 220 s.; Id., Le rime di Cino da Pistoia, Genève 1925, pp. 110-113, 188-191 (rec. di F. Pellegrini, in La Rassegna, XXXIII [1925], pp. 213-217); Id., I rimatori bolognesi…, cit., p. 47; D. De Robertis, Cino e i poeti bolognesi, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXXVIII (1951), pp. 275 s., 283 n., 286, 309-312; M. Corti, Il linguaggio poetico di Cino da Pistoia, in Cultura neolatina, XII (1952), pp. 185-223; R. Gigliucci, Oxymoron Amoris. Retorica dell'amore irrazionale nella lirica italiana antica, Anzio 1990, p. 85.