SILVANI, Gherardo
– Nacque a Firenze il 14 dicembre 1579 da Francesco di Silvano Silvani, di piccola nobiltà, adattatosi, per difficoltà finanziarie, «all’arte del fondaco» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 345), e da Maria di Pagolo del Giocondo (Archivio di Stato di Firenze, Cittadinario di S. Croce, III, c. 107r).
Della vita e delle opere narrano due biografi a lui vicini nel tempo: Giovanni Sini, che scrisse basandosi su ricordi personali e sulla testimonianza di Pier Francesco Silvani, figlio e collaboratore, e Filippo Baldinucci, che integrò l’opera di Sini. Nonostante queste favorevoli premesse, nella storiografia la sua opera ebbe una singolare fortuna: a fronte di numerose attribuzioni, spesso non validate da documenti o da testimonianze grafiche di sua mano, manca a oggi un esaustivo studio della sua figura artistica.
Ultimo di una numerosa famiglia, venne avviato dal padre, per le capacità mostrate, all’apprendistato artistico. Suo protettore fu Giovanni Cerretani, mercante e intenditore d’arte, che lo introdusse nel 1598 presso lo scultore Valerio Cioli. Dopo la morte di questi, nel 1599, restò per poco presso Giovanni Bandini e, venuto anch’egli a mancare, si rivolse a Bernardo Buontalenti. L’anziano maestro fu per lui una fondamentale figura di riferimento, artistico e umano: Silvani ne scrisse la vita, ne collezionò i disegni e ne tutelò la memoria. Nel breve periodo di collaborazione, realizzò per lui (1603-04) i modelli lignei del ciborio e dell’altare della cappella dei Principi e lavorò al pulpito per S. Maria a Settignano, di committenza Cerretani. Dopo un infruttuoso tentativo di inserirsi nella bottega di Giambologna, collaborò con lo scultore e architetto Giovanni Caccini, impegnandosi in lavori di scultura con risultati di buon livello, come nel ciborio di s. Spirito (Acidini Luchimat, 1996), nelle statue di s. Pietro e s. Paolo (post 1609; Nesi, 2007) nella cappella maggiore della Ss. Annunziata. Sono di sua mano un Saturno per il giardino di Boboli (1612; Bellesi, 2001; Capecchi, 2008) e il policromo monumento funebre di Bartolomeo Corsini (1613) per S. Gaggio (oggi in S. Spirito; Bellesi, 2001).
In collaborazione o a completamento di lavori di Caccini intervenne in cappelle nobiliari, con riqualificazioni soprattutto decorative mediante l’uso di marmi policromi, pratica già cara a Caccini e affermatasi a Firenze anche grazie all’opificio granducale delle Pietre Dure. Gli sono attribuiti interventi alla Ss. Annunziata, nella cappella di S. Ivo (1611-12) per Sebastiano Accolti e nella cappella di S. Sebastiano (Fabbri, 1992) per il balì Roberto Pucci; in S. Croce, nelle cappelle Salviati (1611; Rinaldi, 1996) e Calderini (1618-21; Poggi, 1910); in S. Maria Maggiore nella cappella Orlandini (Baldassari, 1990). Nel 1611 gli venne affidato, nella scomparsa chiesa di S. Pier Maggiore, il rifacimento della cappella maggiore, dal 1613 di patronato Ximenes; nel nuovo scenografico altare in marmi policromi egli conservò il ciborio quattrocentesco di Desiderio da Settignano (Bietti, 2008), precoce testimonianza del suo rispetto per l’arte del passato.
Tra il 1614 e il 1616, per l’allestimento della galleria di casa Buonarroti, realizzò cartelle di marmo ai lati della Centauromachia e stucchi (Vliegenthart, 1976). L’ultima sua opera di scultura, il monumento funebre Bardini in S. Francesco a Volterra, data al 1633 (Bellesi, 2001).
Il completamento di numerose architetture di Caccini, morto nel 1613, ha determinato problemi di attribuzione per questa fase dell’attività di Silvani, durante la quale entrò in contatto con la committenza di corte e si avvicinò all’architettura, arte alla quale si volse dal secondo decennio del secolo, complice anche un viaggio a Roma (circa 1610), che lo mise in contatto diretto con le antichità e le realizzazioni del tempo.
Nel 1616, a trentasette anni, eletto console dell’Accademia del disegno, insediatosi in un proprio studio vicino piazza Duomo e raggiunta una certa agiatezza economica, sposò Costanza Salvetti, nipote per parte di madre di Buontalenti, dalla quale ebbe quattordici figli.
Nello stesso anno partecipò, senza successo, al concorso per l’ampliamento di palazzo Pitti e per la revisione degli spazi antistanti, prevedendo una prospettica sistemazione della piazza, estesa sino a via Maggio e arricchita di architetture per assistere a parate e spettacoli. Medesima sorte ebbe il progetto per l’adeguamento della villa di Poggio Imperiale (1620). Pur godendo della stima dei granduchi, rimase di fatto emarginato dalla committenza principesca, monopolizzata da altre figure quali Matteo Nigetti e Giulio Parigi. Anche nel concorso per il completamento della facciata del duomo di Firenze, avviato nel 1630 e conclusosi nel 1639 senza nulla di fatto, il suo modello, unico a ricercare un dialogo con le preesistenze «mediante due torrioncini alla gottica nelle cantonate» (Firenze, Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, VIII.5.3), non venne approvato. Nel 1635 fu però incaricato da Ferdinando II, per le competenze tecniche e organizzative, di supervisionare l’esecuzione del progetto dell’Accademia del disegno. Il 16 maggio 1636 ricevette dal granduca l’ambita carica di architetto dell’Opera del duomo, ruolo nel quale operò a lungo per la conservazione e la stabilità dell’edificio.
Assai diversa fu la fortuna professionale di Silvani presso il patriziato fiorentino. In una città ove era tradizione il recupero delle preesistenze, poche furono le progettazioni ex novo, ma Silvani detenne per decenni il monopolio delle «infinite restaurazioni e riduzioni al moderno» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 368), intraprese da facoltose famiglie fiorentine di nobiltà antica o da poco entrate a far parte dei ranghi nobiliari. Nel trasformare antiche murature in dignitosi e talora fastosi palazzi che attestassero lo status sociale dei committenti, Silvani mostrò una rassicurante fedeltà alla tradizione fiorentina, pur con elementi di novità, e seppe rispondere alle mutate esigenze di vita aristocratica creando spazi di rappresentanza, con scaloni e vaste sale, stanze per la vita privata, ambienti di disimpegno e di servizio, come rimesse e accessi per le carrozze.
Nei primi anni Venti un incarico gli giunse da Baldassarre Suarez de la Concha, nobile spagnolo, fondatore di una commenda dell’Ordine di S. Stefano. Intervenne sul palazzo, detto della Commenda, lungo l’importante percorso di via Maggio, realizzando il portale, le finestre inginocchiate del piano terra e l’ampliamento del cortile, dove replicò i capitelli medievali contrassegnandoli con lo stemma del committente. Per gli Ximenes, famiglia di origini portoghesi elevata al marchesato da Ferdinando II, e che lo aveva apprezzato in S. Pier Maggiore, aggiornò la facciata del palazzo che era stato dei Sangallo, nella periferica area di borgo Pinti (1615-20). Il ricorso alla soluzione compositiva, già praticata a Firenze nel Cinquecento, di sottolineare l’asse centrale, composto di portone, terrazzo soprastante, stemma della casata, affiancato da due o più assi di finestre, divenne una delle cifre ricorrenti di Silvani.
In questo caso il portone, centinato e bugnato, ha sui lati due assi di finestre per parte: inginocchiate con frontone curvilineo spezzato al piano terra, trabeate al piano primo. Nel contemporaneo palazzo Bartorelli, nell’importante via Larga (oggi Cavour), introdusse, sia nei portali sia nelle finestre, elementi grotteschi derivati dal repertorio buontalentiano.
Per una famiglia di antica aristocrazia, i Guicciardini, unificò in un solo palazzo le antiche case dei Benizzi e le torri medievali dei Malefici e dei Guicciardini, situate in prossimità di palazzo Pitti e di Ponte Vecchio. Silvani era stato scelto nel 1622 dai Guicciardini per subentrare a Cigoli e poi a Luigi Arrigucci nel tormentato cantiere della cappella di famiglia, nella vicina chiesa di S. Felicita (Fallani, 1996), e ai medesimi succedette nella sistemazione del palazzo. Regolarizzò la facciata sacrificando una torre, ma conservando gli antichi graffiti, creò un salone al primo piano, da due cortili ne ricavò uno e risolse il problema della scala principale inserendola all’interno della torre dei Benizzi: «una scala bellissima, cavata con molta industria», commenta Sini (Linnenkamp, 1960, p. 98). Nella sistemazione dell’accesso preservò un bassorilievo in stucco di Antonio del Pollaiolo (Guicciardini - Dori, 1952).
Nel 1623 trasformò le case dei Carnesecchi in via Larga nel palazzo del banchiere Pietro di Girolamo Capponi, di un ramo dell’antica famiglia fiorentina, per la quale Silvani lavorò poi anche nella villa La Pietra a Montughi. Per Pietro ripropose lo schema di facciata con l’asse portone, balcone, stemma, ma in questo caso scelse, e lo confermano i documenti, una piatta imitazione del linguaggio di Buontalenti, replicando al piano terra le finestre della casa di Bianca Cappello e al piano primo quelle di palazzo Serguidi (Civai, 1993).
Più originale il contributo nel palazzo per Giovan Battista Strozzi, poeta e letterato. Silvani scelse, forse per reminiscenze romane o in sintonia con il committente, un rigoroso impaginato degli ordini architettonici: il portale a centro facciata, con cornice a sguscio, è racchiuso tra lesene doriche, che di nuovo inquadrano la facciata sostenendo stemmi della casata ed efebi, opera di Antonio Novelli, suo discepolo. Un’ornata trabeazione dorica divide il piano terra, con finestre inginocchiate (oggi trasformate) e timpani triangolari, dal piano primo, nel quale si ricorre allo ionico per le finestre a edicola con timpano curvilineo, per passare, nelle finestre del secondo piano, allo stile composito (Atlante del Barocco..., 2007, scheda 145).
Nelle case di Luca degli Albizi, eminente personaggio della corte, poste nel borgo omonimo, operò (1625-34) «con tanta magnificenza d’architetture, tanto difficile sopra el vecchio» (Linnenkamp, 1960, p. 87), risolvendo con abilità l’inserimento di una scala monumentale, preservando le testimonianze della vetustà degli edifici e mediando con una loggia di ordine tuscanico il rapporto con il giardino.
Operando su un progetto già avviato e su preesistenze Silvani realizzò (1628-30) in via San Gallo il palazzo per i Castelli, che avevano accumulato una fortuna con i commerci e da poco erano entrati nel patriziato. Pose nella facciata, a sorreggere il terrazzino soprastante al portone, due satiri, opera di Raffaello Curradi su disegno forse di Giulio Parigi, al pari del grande stemma realizzato da Pietro Paolo Albertini (Bigazzi, 2002). Le bronzee tartarughe nelle inferriate delle finestre inginocchiate del piano terra sono arguti elementi zoomorfi che rimandano ai capponi inseriti nelle inferriate di palazzo Capponi.
Gli anni Trenta del secolo segnarono la piena affermazione di Silvani quale architetto delle famiglie che rivestivano incarichi di prestigio nella corte medicea: per l’eminente cortigiano Vincenzo Salviati intervenne sulle antiche case in via del Palagio; per i Galli, famiglia emergente di origine pratese, adeguò il palazzo in via Pandolfini; per i Serristori, fiduciari dei granduchi, ampliò e abbellì (1639) il palazzo lungo l’Arno, completato nel salone, ricavato dal cortile, dal figlio Pier Francesco (Carrara, in Atlante tematico del Barocco..., 2003, pp. 377-388).
Per Ortensia e Tommaso Guadagni trasformò (1638-42) il casone di don Luigi di Toledo, posto in zona semiperiferica, in una duplice residenza divisa dal salone a doppio volume, prospettante con una loggia e monumentali finestre trabeate sui giardini e campi retrostanti. La lunga fronte, scandita da portali bugnati e da una teoria di finestre inginocchiate dai fantasiosi e insieme sobri mensoloni ‘impunturati’, si dispiega su via San Sebastiano, oggi Capponi (Bevilacqua, 2007; Morolli, 2007).
Facciate sviluppate in lunghezza, con elementi più o meno rustici, vennero adottate da Silvani in altri casini urbani, luoghi di delizia sorti nel secolo precedente nelle aree verdi della città e spesso ora riconvertiti in abitazioni principali. Il casino di Valfonda dei Riccardi, ascesi nel 1629 al marchesato, venne ampliato e adeguato (1631-38) a residenza della famiglia. Valorizzò il rapporto con le aree verdi posteriori, intervenne sulla distribuzione interna, sugli apparati decorativi, sulla facciata, e conservò testimonianze del primo edificio voluto dai Bartolini a inizi Cinquecento (Salomone, 2010).
In modo più limitato operò sul casino dei Salviati in borgo Pinti (1653 circa), sul Casino Mediceo, residenza del cardinale Carlo de’ Medici, e nel casino Corsini al Prato (viale ‘prospettico’ nel giardino).
Nelle residenze extraurbane dell’aristocrazia fiorentina Silvani spesso preservò o introdusse citazioni medievali, come torri e merli, in continuità con il passato e a testimoniare l’antichità delle casate. Nella villa Le Falle (1626 circa) dei Guadagni, la torre dell’antico «palagio de’ Pazzi» venne a convivere con le nuove logge della facciata anteriore e il grande salone ricavato nel cortile; nel castello di Montauto (1631-33; Sottili, 2012), dei Niccolini, famiglia per la quale aveva già lavorato nella cappella del santuario della Verna, nel palazzo cittadino e, forse, nella villa di Camugliano, il maniero con alta torre fu ampliato e adeguato alle nuove esigenze. Altro significativo esempio di deliberata introduzione di elementi neomedievali è la villa Corsi a Sesto Fiorentino, ove Silvani intervenne nel 1632 realizzando lunghi prospetti intonacati racchiusi tra torri angolari, coronati da merli e scanditi da finestre inginocchiate.
Silvani lavorò per i nuovi Ordini religiosi nati dalla Controriforma, spesso chiamati a Firenze dalla famiglia granducale, che ne apprezzava le funzioni di controllo sociale. I teatini, protetti dal cardinale Carlo de’ Medici, avevano ricevuto dalla corte l’antica chiesa di S. Michele. Il monumentale complesso di chiesa e convento fu iniziato da Matteo Nigetti; dal 1630 gli subentrò Silvani, che nella chiesa, intitolata ai Ss. Michele e Gaetano, rialzò e ampliò la navata, realizzò le cappelle laterali e la facciata, in pietra forte con parti scultoree in bianco di Carrara, conclusa dal figlio Pier Francesco nel 1656 (Chini, 1984), opera che «si avvicina più di ogni altra costruzione a Firenze a un disegno barocco» (Wittkower, 1972, p. 250). Nella ristrutturazione del convento provvide a dotarlo di una passeggiata rialzata e di loggia tuscanica, ora su via dei Pescioni.
Per i barnabiti, chiamati a Firenze nel 1627 da Maddalena d’Austria, costruì la chiesa di S. Carlo e il convento in via S. Agostino, e per l’Ordine dei minimi completò (1634 circa) la chiesa di S. Francesco di Paola, fuori della porta S. Frediano, alle pendici della collina di Bellosguardo, finanziata dalla corte. Cristina di Lorena protesse gli agostiniani scalzi, che si insediarono in costa Scarpuccia: il convento e la chiesa dei Ss. Agostino e Cristina furono iniziati da Bernardino Radi e conclusi da Silvani (1643). Quest’ultimo partecipò inoltre alla fase iniziale (1643) di predisposizione dell’area per la chiesa di S. Firenze per l’Ordine dei filippini, nella quale sarebbe intervenuto poi il figlio Pier Francesco.
Sempre a Firenze modificò la chiesa dei Ss. Simone e Giuda (1625-30; Tesi, 1989-90, p. 349; Civai, 1993, p. 70).
Nel 1633, al termine della pestilenza che aveva flagellato la città, l’antica chiesa di S. Maria dell’Impruneta, per eventi miracolosi connessi alla fine dell’epidemia, fu innalzata a santuario: Silvani realizzò (1634) il portico di ordine tuscanico antistante alla chiesa, dotato di un soprastante volume forato da finestre rettangolari (Schedatura dei centri urbani, in Atlante del Barocco..., 2007, Impruneta, scheda 1), opera finanziata dalla Compagnia delle Stigmate di Firenze, sua committente forse anche per il proprio oratorio in S. Lorenzo. A Silvani è attribuita (Botteri, 1986) un’altra loggia, anteposta (1640 circa) alla chiesa della Madonna dei Ricci, in via del Corso a Firenze.
Per antichi Ordini religiosi operò a Vallombrosa, chiamato dall’abate Averardo Niccolini a un progetto di ampliamento, in parte attuato, e a realizzare la nuova facciata della chiesa (1635-36) con l’antistante piazzale (1638); alla metà del secolo adeguò, con l’aiuto del figlio Pier Francesco, il convento di S. Frediano in Cestello per i cistercensi, dei quali era abate il fratello Silvano, ottenendo un risultato che «par veramente che tutto sia fatto di pianta» (Baldinucci, 1681, p. 355).
Silvani morì a Firenze il 23 novembre 1675 e venne sepolto nel chiostro di S. Spirito, nella sepoltura di famiglia (Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti 624, c. 153r).
Come scrisse Stefano Ticozzi (1832), «fu il Silvani uomo dabbene e nella lunga vita di novantasei anni fece troppe cose di scultura e di architettura per poterle tutte annoverare» (p. 342).
Altri interventi attribuiti a Silvani:
Palazzi. A Firenze: Del Rosso, Della Gherardesca, Gerini, Gianfigliazzi, Guadagni Strozzi di Mantova, Lotteringhi della Stufa (1665-66, con Pier Francesco), Medici Riccardi, Peruzzi, Pucci, Strozzi ‘delle cento finestre’, Venturi. Fuori di Firenze: Bardi (Vernio), Buoninsegni (Colle Val d’Elsa), palazzo del Decanato (Pistoia).
Ville. Bellosguardo (Firenze), Colle Alberto (Montale), Colombaia (Firenze), Corno (S. Casciano Val di Pesa), Guicciardini (Val di Pesa), Montegufoni (Montespertoli), Ugolini (Impruneta), Ulignano (Volterra).
Edifici religiosi. Firenze: S. Apollonia, S. Gaggio (chiesa e convento), S. Jacopo sopr’Arno (campanile), S. Pier Gattolini (presbiterio), monastero di S. Maria degli Angeli dei Camaldolesi, adeguamento della sede della Misericordia. Fuori di Firenze: convento di S. Domenico (Fiesole), cappella Inghirami (Volterra), S. Maria Assunta (Bientina), duomo di Prato (presbiterio), consulenza per l’apertura di una porta laterale nel duomo di Siena, progetto della chiesa della Salute a Venezia.
Altre opere pubbliche. Acquedotto mediceo di Pitigliano, fognone del quartiere di S. Croce, progetto per un ponte a Pisa, ospedale Serristori a Figline Valdarno.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms. II.II.110, c. 1645: G. Sini, Vita di Gherardo Silvani, scultore, architetto e ingegnere.
F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, pp. 345-371; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, Venezia 1785, pp. 145 s.; S. Ticozzi, Dizionario degli architetti, scultori, pittori, III, Milano 1832, p. 342; A.C. Quatremère de Quincy, Dictionnaire historique d’architecture, II, Paris 1788-1825 (trad. it. Mantova 1842-1844, pp. 452-455); F. Fantozzi, Pianta geometrica della città di Firenze, Firenze 1845, passim; G. Poggi, Appunti d’archivio: la Cappella Calderini in Santa Croce e gli affreschi di Giovanni da San Giovanni, in Rivista d’arte, 1910, vol. 7, pp. 38-41; P. Guicciardini - E. Dori, Le antiche case ed il palazzo dei Guicciardini in Firenze, Firenze 1952, pp. 45-52; R. Linnenkamp, Un’inedita vita di G. S., in Rivista d’arte, XXXIII (1960), pp. 73-114; R. Wittkower, Arte e architettura in Italia, 1600-1750, Torino 1972, pp. 250-253; L. Ginori Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, I-II, Firenze 1973, passim; A. Vliegenthart, La Galleria Buonarroti. Michelangelo e Michelangelo il Giovane, Firenze 1976, pp. 64-68; E. Chini, La chiesa e il convento dei Santi Michele e Gaetano, Firenze 1984, pp. 53-98; L. Botteri, Novità sulla Madonna de’ Ricci: la facciata, in Rivista d’arte, s. 4, II (1986), pp. 87-113; C. Pizzorusso, Un inatteso intervento di Giulio Parigi, in Notizie da Palazzo Albani, XV (1986), 2, pp. 53-62; V. Tesi, G. S. (1579-1673): la Firenze del Seicento e le scelte di linguaggio architettonico, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, a.a. 1989-90; F. Baldassari, Cappella Orlandini in Santa Maria Maggiore, in Cappelle barocche a Firenze, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo 1990, pp. 31-54; E. Barletti, Note di architettura volterrana del primo Seicento: il palazzo dell’ammiraglio Jacopo Inghirami, in Rassegna volterrana, LXVIII (1992), pp. 133-150; M.C. Fabbri, La sistemazione seicentesca dell’Oratorio di San Sebastiano nella Santissima Annunziata, in Rivista d’arte, s. 4, VIII (1992), pp. 71-152; A. Civai, Palazzo Capponi Covoni in Firenze, Firenze 1993, pp. 23-71; C. Acidini Luchinat, L’altar maggiore, in La chiesa e il convento di Santo Spirito a Firenze, a cura di C. Acidini Luchinat, Firenze 1996, pp. 337-356; V. Fallani, Piero Guicciardini, il Cigoli, G. S. e nuovi documenti sulla cappella maggiore della chiesa di Santa Felicita di Firenze, in Altari e committenza: episodi a Firenze nell’età della Controriforma, a cura di C. De Benedictis, Firenze 1996, pp. 173-191; A. Rinaldi, G. S., in The dictionary of art, XXVIII, New York-London 1996, pp. 732-735; S. Bellesi, La scultura tra il tardomanierismo e il barocco, in Storia delle arti in Toscana, V, Il Seicento, a cura di M. Gregori, Firenze 2001, pp. 33 s.; I. 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