GHERARDO di Jacopo, detto lo Starnina
Non si conoscono le date di nascita e di morte di questo pittore fiorentino, figlio di Jacopo, soprannominato Starna, la cui attività è documentata dal 1387 al 1409.
Secondo quanto narra Vasari, G. nacque a Firenze nel 1354 e morì all'età di 49 anni, inaspettatamente, quando aveva raggiunto "fama grandissima nella patria e fuori" (p. 9). Poiché nel 1413 egli era sicuramente morto, come si evince da un documento del 28 ottobre di quell'anno (Procacci, 1936, p. 92) che concerne l'eredità delle sue figlie, la data di nascita dovrebbe posticiparsi intorno al 1360. Inoltre sappiamo con certezza che nel 1387 G. si iscrisse, a Firenze, alla corporazione dei pittori nella Compagnia di S. Luca e sembra logico supporre che non avesse superato di molto i 25 anni.
La fonte più antica, dalla quale attinse Vasari, e cioè il Libro di Antonio Billi, ci dà notizia della sua permanenza in Francia e in Spagna, e delle sue alte doti morali: "costui si disse essere uomo molto virtuoso in modo che la minore virtù che si diceva essere in lui era la pittura", e facendo menzione degli affreschi della cappella di S. Girolamo, nella chiesa del Carmine, Antonio Billi pone l'accento sulle novità formali acquisite in Spagna - quali la foggia degli abiti "all'usanza di que' paesi" - che G. introdusse a Firenze destando grande meraviglia. Le virtù di G. vengono confermate da Vasari, il quale però le considera frutto proficuo del suo soggiorno spagnolo dal momento che negli anni fiorentini della sua giovinezza era "nel praticare molto duro e rozzo" e solo in Spagna imparò a essere "gentile e cortese" (p. 5).
Sempre secondo Vasari, G. fu discepolo di Antonio Veneziano (Antonio di Francesco da Venezia) e prima di lasciare Firenze avrebbe affrescato la cappella Castellani, in S. Croce, con le Storie di s. Antonio abate e di s. Niccolò vescovo. La bella esecuzione di questi affreschi gli valse la fama di eccellente pittore inducendo alcune personalità spagnole, che allora dimoravano a Firenze, a condurlo in Spagna dal loro re. In realtà questi affreschi vennero eseguiti da Agnolo Gaddi dopo il 1383 e non a torto Procacci ipotizzò che G. avesse potuto far parte dei giovani di bottega intenti ad aiutare il maestro nell'impresa, perfezionando così l'arte del dipingere a fresco che in Spagna era prerogativa degli artisti italiani, mentre gli spagnoli preferivano dipingere su tavola. Vasari non specifica presso quale re di Spagna venisse condotto G., ma il fatto che fosse ricevuto "molto volentieri, essendo allora massimamente carestia di buoni pittori in quella provincia" (p. 6) lascia supporre che volesse alludere alla Castiglia, la quale, rispetto alla Catalogna e a Valenza, certamente non possedeva quei focolai d'arte che, in quelle province, avrebbero forgiato i grandi interpreti del gotico spagnolo.
La presenza di G. a Toledo nel 1393 è attestata da un documento, conservato nell'archivio della cattedrale di Toledo (Vegue y Goldoni, 1930) che riguarda una ricevuta di pagamento sottoscritta da "Girardo Jacobo Pintor de Florentia" per lavori eseguiti nella cappella del Salvatore dove si trovava in origine un retablo, di cui facevano parte il S. Bartolomeo e il S. Giovanni Evangelista, ora sull'altare dedicato a S. Giuliano nella cappella del S. Sepolcro della cattedrale di Toledo, il S. Taddeo della Vassar College Art Gallery, a Poughkeepsie, NY, e le tavole con le Storie di Cristo, ridipinte agli inizi del XVI secolo da Juan de Borgoña, che costituiscono il retablo della cappella di S. Eugenio, sempre nella cattedrale di Toledo. Poiché la proposta avanzata da Vegue y Goldoni di identificare "Girardo Jacobo" con G. è stata accolta senza riserve, l'ipotesi che il retablo della cappella del Salvatore fosse attribuibile allo stesso (Post; Gudiol Ricart; Bologna) sembra del tutto convincente. A questo gruppo di opere riferibili al periodo toledano di G. sono state aggiunte quattro piccole tavole con Storie di Cristo, conservate nella cappella battesimale, e una parte degli affreschi della cappella di S. Biagio, sempre nella cattedrale di Toledo, che secondo Gudiol Ricart (1955) sarebbero stati progettati e iniziati da G. e proseguiti da altri pittori, almeno due, tra cui Juan Rodriguez de Toledo, la cui firma appare nella fascia inferiore degli affreschi. Ma Berenson (1963), accettando l'ipotesi di un eventuale soggiorno toledano di Antonio Veneziano, ventilata da Gamba (1932) e da Procacci (1936), assegna a questo maestro tutti i dipinti della cattedrale di Toledo già attribuiti a G. il quale, come scrive Vasari, sarebbe stato suo discepolo. Questa tesi, solo per quanto riguarda gli affreschi della cappella di S. Biagio, è ancora ritenuta valida (Boskovits, Pittura…, 1975; De Marchi, 1998).
Nella prima tappa del soggiorno in Spagna si avvalse del suo bagaglio culturale di origine fiorentina-giottesca raffigurando personaggi imponenti, dallo sguardo severo e penetrante, panneggi che cadono a piombo conferendo solidità alle forme che, ben collocate nello spazio, acquistano grandiosità scultorea. Tutti questi elementi si ritrovano puntuali nei frammenti di affreschi della chiesa del Carmine al suo ritorno dalla Spagna.
Da Toledo G. si trasferì a Valenza dove è ricordato a partire dal 22 giugno 1395 come "Gerardus Jacobi pictor civis valentie" nella ricevuta di pagamento per un retablo eseguito per conto di Pedro Suarez rettore della chiesa di Sueca (Valenza); ma nello stesso anno, in due diverse occasioni, la stesura di un testamento e la nomina di due mercanti fiorentini a suoi procuratori, egli si firma sempre "pictor civis florentie". Nel 1398, sempre a Valenza, G. eseguì un retablo per la chiesa di S. Agostino e le pitture murali sulla tomba del mercante Guglielmo Costa, nel chiostro dei francescani, tutte opere perdute. Nel luglio del 1401 lo troviamo citato per l'ultima volta a Valenza, quando con Marçal de Sax e Pere Nicolau allestì gli apparati per l'ingresso del re d'Aragona Martino I.
A breve distanza da questa data G. ritornò a Firenze dove affrescò la cappella di S. Girolamo nella chiesa di S. Maria del Carmine con Storie della vita del santo.
Purtroppo di questi affreschi, che il 2 ott. 1404 erano già compiuti, restano solo pochi frammenti con figure di santi che tuttavia, come afferma Procacci, costituiscono la base per qualsiasi tentativo di ricostruzione della personalità artistica di Gherardo. Degli affreschi relativi alla Vita di s. Girolamo, vivacemente descritti e altamente elogiati da Vasari, vi è una testimonianza nelle incisioni settecentesche di Séroux d'Agincourt, in cui non è tuttavia riprodotta la scena più pittoresca del ciclo, allora già andata perduta, in cui "S. Girolamo impara le prime lettere" e dove G. dipinse "un maestro, che fatto levare a cavallo un fanciullo addosso a un altro, lo percuote con la sferza di maniera, che il povero putto, per lo gran duolo menando le gambe, pare che, gridando, tenti mordere un orecchio a colui che lo tiene" (Vasari, p. 7).
Questo insolito tema iconografico, che tanto incuriosì Vasari, si ritrova nella prima metà del Seicento in un dipinto, appartenente a una collezione privata, il cui autore, secondo un parere espresso oralmente da Carlo Volpe, sarebbe da ricercare nella cerchia romana di N. Poussin. Con ogni verosimiglianza, l'anonimo pittore secentesco trasse ispirazione per il suo divertente soggetto proprio dagli affreschi del Carmine, a quel tempo ancora integri.
Nel 1406, il Comune di Firenze, per celebrare la caduta di Pisa, fece dipingere da G. nella facciata del palazzo di Parte guelfa un "S. Dionigi vescovo con due Angeli, e sotto a quello ritratta di naturale la città di Pisa" (p. 9).
L'affresco, descritto da Vasari come pittura degna di molta lode, è ora del tutto scomparso, ma Toesca (1951, p. 650), il quale ancora poté vederne alcune tracce, scrive di un "estremo goticheggiare" delle forme che aderisce perfettamente al giudizio di Vasari su G., da lui considerato tramite del gotico internazionale a Firenze e maestro di Masolino, conferendogli così un ruolo determinante nello sviluppo della pittura fiorentina all'inizio del Quattrocento.
Tra le opere eseguite a Firenze al suo ritorno dalla Spagna veniva inclusa la Tebaide, tavola dipinta, raffigurante la vita dei santi eremiti, tradizionalmente attribuita a G. fin quando Longhi (1940) non avanzò l'ipotesi che potesse trattarsi di un'opera giovanile dell'Angelico e con questa attribuzione, che non trova unanime consenso (Spike), il dipinto si conserva a Firenze, nella Galleria degli Uffizi.
L'ultima opera documentata di G., già morto nel 1413, sono gli affreschi per la cappella della Compagnia della Nunziata in S. Stefano a Empoli commissionati nel 1409 (Giglioli), di cui restano alcuni frammenti, ora nel Museo della collegiata (Paolucci).
In base al documento precedentemente citato, nel 1413 G. risultava già morto.
Perdute le opere del periodo spagnolo, i pochi, se pur preziosi, frammenti di affreschi del Carmine e di Empoli non sono sufficienti a porre in piena luce la personalità artistica di G. "famoso per tutta Toscana, anzi per tutta Italia", secondo Vasari (p. 8). La domanda che si era posto Schmarsow nel 1912 sulla vera identità di G. non trova una adeguata risposta se non si accetta l'identificazione di G. con il Maestro del Bambino Vispo che gli studi più recenti tendono a confermare sulla base di puntuali raffronti stilistici, ma che Federico Zeri (1976) decisamente respinge. Fu Sirén (1904) a battezzare con questo bizzarro nome l'anonimo autore di una tavola raffigurante la Madonna con Bambino, angeli e santi, conservata a Firenze nella Galleria dell'Accademia, nome dettato dall'atteggiamento del Bambino "sempre lieto e scherzoso". A questo maestro, che egli riteneva fiorentino ed emulo di Lorenzo Monaco, assegnò una serie di opere tutte dello stesso soggetto, caratterizzate dalla vivacità e dalla mimica espressiva del Bambino. In seguito il catalogo delle opere del Maestro del Bambino Vispo si arricchì notevolmente con nuove attribuzioni quali il polittico della Madonna col Bambino, angeli e santi del Museo Martin von Wagner di Würzburg, e quello smembrato tra i musei di Berlino, Stoccolma e altre collezioni, che un tempo si riteneva fosse stato fatto dipingere per il duomo di Firenze dagli eredi del cardinale Pietro Corsini nel 1422. Berenson (1932) avanzò l'ipotesi che il Maestro del Bambino Vispo potesse essere uno spagnolo, probabilmente valenzano, e gli attribuì il Giudizio finale della Alte Pinakothek di Monaco, proveniente da Maiorca, dipinto eseguito nel 1415 secondo Pudelko (1938) per celebrare l'incontro avvenuto in Spagna in quella data tra l'antipapa Benedetto XIII, il re Ferdinando d'Aragona, con la moglie, e l'imperatore Sigismondo I, dei quali ne ravvisa le fattezze in alcuni dei personaggi raffigurati. Anche Longhi (1965) pose l'accento sui caratteri iberici delle opere del Maestro del Bambino Vispo e propose il nome del valenzano Miguel Alcañiz, ipotizzando un suo soggiorno fiorentino. Furono prima Berti (1964) e poi Bellosi (1966) a notare le affinità stilistiche tra i frammenti degli affreschi di G. rinvenuti a Empoli e i dipinti del Maestro del Bambino Vispo che però si ritenevano tutti eseguiti nel secondo e terzo decennio del Quattrocento quando G. era già morto. Ma allorché la van Waadenoijen (1974) dimostrò che il polittico sempre creduto del cardinale Corsini non era destinato al duomo ma alla certosa del Galluzzo, presso Firenze, per la cappella che il cardinale Angelo Acciaiuoli, morto nel 1408, si era fatta costruire tra il 1404 e il 1407, venne a cadere la datazione del 1422, che costituiva l'ostacolo più impervio all'identificazione del Maestro del Bambino Vispo con Gherardo Starnina. Tutti i dipinti assegnabili al secondo periodo fiorentino, dopo il lungo soggiorno spagnolo, vengono perciò collocati nello stretto ambito del primo decennio del XV secolo. A questo periodo appartengono, oltre alle opere già citate, un trittico, destinato a Lucca, raffigurante la Morte della Vergine, i cui scomparti sono divisi tra il Museo nazionale di Villa Guinigi (Lucca), la Johnson Collection di Filadelfia e il Fogg Art Museum di Cambridge, MA (De Marchi); una tavola con l'Incoronazione della Vergine, forse facente parte del trittico di Lucca, della Galleria nazionale di Parma (Filieri); una testa di angelo musicante, di una collezione privata di Genova (Parenti) e le illustrazioni per la Divina Commedia appartenente alla Biblioteca Trivulziana di Milano (ms. 2263), miniate tra il 1405 e il 1406 (De Marchi). Al periodo valenzano di G. vengono concordemente assegnate quattro tavole della predella del retablo della Passione nella chiesa di Collado (Alpuente, Valenza) del quale faceva parte una Resurrezione, già nella collezione Pollak di Vienna; il Giudizio finale di Monaco, proveniente da Miramar (Maiorca), e la bellissima Madonna dell'Umiltà del Cleveland Museum of art pubblicata dalla Lurie (1989), la quale pur accettando l'identificazione di G. con il Maestro del Bambino Vispo, depenna dal nutrito corpus di questo maestro alcune opere. L'attribuzione a G. dell'opera più importante e rappresentativa del gotico internazionale valenzano, e cioè il grandioso retablo di Porta Coeli commissionato da Bonifacio Ferrer tra il 1396 e il 1397, che si conserva nel Museo di bellas artes di Valenza, è stata decisamente sostenuta dalla Sricchia Santoro (1976), attribuzione accolta con favore da González-Palacios e De Marchi (1998) ma con molte riserve dalla critica spagnola (Yarza, 1978; Aguilera Cerni, 1988). Benché le affinità stilistiche tra le opere ritenute sicure di G. e alcune parti del retablo di Bonifacio Ferrer siano evidenti, è improprio parlare di una sua bottega a Valenza dal momento che i pittori spagnoli, anche i più famosi, avevano l'abitudine di lavorare associati, alternando le opere eseguite individualmente con la creazione di altre dipinte in comune con i membri della società e i proventi venivano poi divisi in parti uguali tra i soci. Questa consuetudine, come fece notare giustamente Gudiol Ricart (1955), crea problemi complessi, poiché non sempre si riesce a isolare con certezza assoluta la personalità artistica di alcuni tra i più famosi nomi della pittura gotica valenzana, né i documenti apportano un valido aiuto, dal momento che il contratto di committenza poteva essere firmato da uno qualsiasi dei soci a prescindere da chi avrebbe poi eseguito il lavoro. Del resto, a riprova di tutto ciò, esiste il documento del 1401 che ci rivela come G., alla vigilia del suo ritorno in patria, fosse associato al tedesco Marçal de Sax e al valenzano Pere Nicolau, quindi non si può escludere che egli abbia collaborato alla esecuzione del retablo di Bonifacio Ferrer, e forse fu proprio il lavorare a Valenza di buon accordo con altri pittori di pari merito a modificargli il giovanile carattere scontroso descritto da Vasari. I nuovi moduli del gotico internazionale divulgati a Firenze, al suo ritorno dalla Spagna, destarono grande meraviglia e ammirazione. Con uno spiccato realismo di derivazione franco-fiamminga, G. illustrò le Scene della vita di s. Girolamo, nella cappella del Carmine, che tanta ammirazione suscitarono in Vasari per l'"invenzione molto propria e con abbondanza di modi e di pensieri nell'attitudini delle figure […] tutto con grazia e leggiadramente espresse Gherardo, come colui che andava ghiribizzando intorno alle cose della natura" (p. 7). Con queste parole Vasari ci rivela l'importanza del ruolo di innovatore svolto da G. nella pittura fiorentina agli albori del Quattrocento, ruolo che non verrebbe sminuito qualora un giorno si potesse accertare che G. sia effettivamente tornato a Firenze in compagnia di un "socio", uno dei tanti anonimi, ma straordinari pittori, che a Valenza dettero lustro allo stile gotico internazionale. Si spiegherebbe così il dilemma suscitato dal carattere iberico che trapela dalle opere un tempo assegnate al Maestro del Bambino Vispo.
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