CAMINO, Gherardo da
Figlio di Biaquino (II) del ramo dei Caminesi "di sopra" e di India da Camposampiero, nacque intorno al 1240 da una delle maggiori famiglie trevigiane: suo padre, dopo il crollo politico di Ezzelino e di Alberico da Romano, aveva potuto esercitare nuovamente una forte influenza sulla vita pubblica di Treviso come esponente del partito guelfo.
Il primo gradino dell'ascesa del C. fu costituito dalla nomina, favorita dal vescovo Adalgerio di Villalta, a capitano generale delle città di Feltre e Belluno (1266):rivestì dunque una carica che anche suo padre aveva rivestito prima della sua fuga davanti ad Ezzelino da Romano. La carica gli fu concessa, a vita ed egli divenne in tal modo il signore di fatto dei due Comuni, anche se lì continuarono ad esistere nominalmente i vecchi ordinamenti costituzionali. Con ciò la posizione del C. aveva acquistato una notevole importanza; la sua attività politica in Treviso rimase tuttavia di secondo piano, anche se già dal 1263 faceva parte del Consiglio dei trecento di quella città.
Il C. fu parte, in questi anni, di numerosi importanti avvenimenti politici nella Marca trevigiana e nel Friuli. Soprattutto egli si mantenne nella cerchia del patriarca di Aquileia Gregorio di Montelongo, con cui anche Biaquino (II) aveva intrattenuto strette relazioni. Nel 1266, in occasione della stipula di un trattato tra il patriarca ed i conti Alberto e Mainardo di Gorizia e Tirolo, il C. funse da garante del rispetto dell'accordo da parte dei due conti di cui egli era feudatario, nel Cadore. La sua prudenza doveva essere apprezzata in quella medesima cerchia se, nella controversia sorta tra il patriarca ed il conte Alberto, il C. fu nominato nel 1274 terzo e per questo stesso fatto decisivo arbitro. Egli riuscì poi a concludere anche un accordo che tuttavia non fu di assai lunga durata. Nel marzo 1281, insieme con il conte Mainardo del Tirolo, intervenne, come arbitro nominato dal conte Alberto di Gorizia e Tirolo e dal patriarca Rainiondo della Torre, in una nuova controversia, riguardante una lunga serie di punti, apertasi tra il patriarca ed il conte di Gorizia. Anche questa volta si riuscì a trovare soltanto una soluzione transitoria del conflitto, e cinque anni dopo il C. era di nuovo propostocome arbitro unico tra il patriarca ed il conte Alberto.
Questa fama di autorevolezza che, derivatagli dalla sua abilità e dal suo buon senso, si estendeva ben oltre i ristretti confini locali, consolidò la già forte posizione del C. a Feltre e a Belluno, così come la sua amicizia col patriarca di Aquileia, di cui sposò in seconde nozze una parente, Chiara della Torre. Inoltre, seguendo una delle direttrici politiche tradizionali della sua famiglia, esercitò una certa influenza anche a Padova, di cui aveva acquistato la cittadinanza nel 1280. Nel luglio 1278 partecipò ad una lega tra Padova, Cremona, Brescia, Parma, Modena e Ferrara contro la ghibellina Verona. Egli stesso prese parte alla lotta contro questa città, nel corso della quale sostenne il marchese Obizzo d'Este, guadagnandosi il favore del potente signore di Ferrara. Infine, alla morte del padre nel 1274, entrò in possesso di vaste proprietà e diritti nel Cadore, nel Bellunese e nel comitato di Ceneda. Tutto ciò deve aver contribuito al raggiungimento della posizione di potere che il C. conseguì nel novembre 1283. A Treviso negli anni precedenti i ghibellini avevano preso il sopravvento e costretto la città in una posizione di quasi isolamento in mezzo ai suoi vicini guelfi. Quando il 15 nov. 1283 a Treviso scoppiarono disordini tra le fazioni rivali dei guelfi e dei ghibellini, il C. era in città contemporaneamente al suo acerrimo avversario Gherardo de' Castelli. Una serie d'importanti personaggi, tra cui Rambaldo di Collalto, Artico Tempesta e Tolberto (III) da Camino "di sotto", si schierò a fianco del Camino. I Castelli e i loro sostenitori si dettero alla fuga e al vincitore toccò la signoria sulla città. Il C. fu nominato capitano generale della città di Treviso e del distretto; il popolo riunito approvò all'unanimità questa decisione del Consiglio. Un nuovo statuto della città, che l'appena nominato "capitano generale in perpetuo" ordinò subito di redigere, rafforzò il nuovo ordinamento e l'effettivo potere assoluto del "signore". I sostenitori del partito guelfo che erano stati banditi furono richiamati ed al loro posto circa cento ghibellini dovettero lasciare Treviso mentre i loro beni venivano confiscati. Dopo che un primo tentativo di accomodamento pacifico con i Castelli era fallito (esso prevedeva la cessione delle proprietà di quella famiglia al C. e ai Trevigiani dietro pagamento di una somma a titolo di riscatto), si giunse a un accordo sulla base dell'arbitrato del vescovo di Feltre Adalgerio di Villalta. Il C. tenne fede solo in parte alle condizioni dell'accordo. Provvide bensì al pagamento dei beni dei Castelli, con danaro preso in prestito a questo scopo a un alto tasso d'interesse, dai famigerati usurai padovani Rinaldo degli Scrovegni e Guglielmo del fu Alberto Dente de' Lemici; ma non fu concessa la grazia prevista per alcuni dei Castelli. Infatti, contro questa famiglia venne mossa una nuova accusa, quella di aver progettato una rivolta, e perciò tutti gli appartenenti a quella casata furono banditi per sempre da Treviso e dal distretto.
Gli anni successivi della signoria dei C. a Treviso trascorsero pacifici. Ci si occupò soprattutto del nuovo ordinamento interno. Contrasti sulla ricca eredità di Ensedisio del fu Iacopo de' Guidotti provocarono un disaccordo tra Padova e Treviso, che poté tuttavia essere composto entro breve tempo. Pericolosa si presentò nel 1291 la congiura di Tolberto (III) contro la signoria di suo suocero, soprattutto quando, dopo il fallimento della rivolta, Tolberto e suo fratello Biaquino (IV) trovarono protezione e rifugio a Venezia, cui si sottomisero con le loro proprietà.
L'amicizia tra il signore di Treviso e il patriarca di Aquileia Raimondo ebbe modo di manifestarsi più volte nella nomina, cui si è in parte già accennato, del C. ad arbitro nelle controversie tra il patriarca ed il conte di Gorizia ed altre famiglie nobili del Friuli. Il C. ottenne anche importanti feudi dalla Chiesa di Aquileia e curò accortamente i suoi interessi negli affari friulani Il suo intervento fu decisivo per la composizione delle lotte tra Venezia, da una parte, ed il patriarca, il conte Alberto di Gorizia e la città di Trieste dall'altra, composizione che fu annunciata l'11 nov. 1291 a Treviso "sub logia egregii viri domini Gerardi de Camino civitatis et districtus Tarvisii capitanei generalis". Questa intesa tra il C. ed il patriarca subì un temporaneo, ma grave offuscamento per la pretesa avanzata dal patriarca di far rinunziare Treviso ai beni di cui la città e il patriarcato si contendevano il possesso sin dall'inizio del secolo. Il C. non volle dar seguito a questa richiesta, per cui il vescovo di Treviso Tolberto Calza, su ordine del suo metropolita, dovette comminare la scomunica al capitano ed agli altri magistrati del Comune e l'interdetto alla città (dicembre 1292). Ma lo stesso clero trevigiano non si ritenne più legato a questa disposizione episcopale e si appellò, data la situazione di sede vacante della cattedra pontificia, a un futuro papa. Il patriarca rinnovò e aggravò le censure ecclesiastiche. Solamente sotto il pontefice Bonifacio VIII si giunse ad avviare un lungo processo, che a causa degli appelli interposti da entrambe le parti divenne sempre più confuso. Infine il C. mosse con la forza delle armi contro il patriarca, appoggiando i sudditi a lui ribelli e occupando piazzeforti al di là della Livenza. Un armistizio all'inizio del 1294 non portò alla definitiva conclusione delle ostilità. Anche nei due anni successivi il C. prese parte alle lotte interne del Friuli e sfruttò l'occasione per rafforzarvi la propria influenza. Nella politica di opposizione al patriarca rientra anche il matrimonio della figlia del signore di Treviso, Beatrice, con il giovane conte Enrico di Gorizia, figlio di Alberto, celebrato nel 1297. La famiglia dei conti di Gorizia era da generazioni la più aspra avversaria del patriarca in Friuli. Come era spesso accaduto per il passato, nel settembre 1296 il C. dovette pronunciare un'altra sentenza arbitrale in una contesa tra il patriarca ed i conti di Gorizia. Solo nel dicembre 1297 si giunse ad una riconciliazione tra Raimondo della Torre ed il capitano generale di Treviso, che chiese, ed ottenne, il perdono per tutti gli attacchi portati contro il suo signore feudale e la Chiesa di Aquileia. Dopo questa pubblica umiliazione il patriarca gli confermò i feudi, e il ponte e le piazzeforti sulla Livenza. Contemporaneamente i legati papali tolsero le scomuniche e l'interdetto già comminati ai magistrati ed alla città di Treviso.
L'accordo tra il C. e il genero Enrico di Gorizia facilitò l'ascesa del conte alla carica di capitano generale del Friuli nonostante l'opposizione di alcune città della regione. D'altra parte il signore di Treviso si assicurò attraverso questo legame una forte influenza nel Friuli. In occasione delle ostilità sorte col nuovo patriarca Pietro Gerra a causa di nuove contestazioni di possedimenti, il C. poté contare sull'efficace aiuto del genero e della nobiltà friulana legata a lui. Questa volta la pace venne raggiunta per l'intervento del conte Alberto di Gorizia (1300). Il C. poté ricambiare il favore già l'anno dopo, quando, per la prematura morte di Pietro Gerra, la sede patriarcale rimase nuovamente vacante ed il conte Enrico di Gorizia riuscì a prevalere contro Mainardo di Ortenburg come capitano generale del Friuli soprattutto con l'appoggio del suocero.
Le maggiori imprese guerresche in cui il C. fu implicato non andarono comunque oltre i confini del patriarcato. La politica veneziana del signore di Treviso si sviluppò infatti sempre su binari molto pacifici ed ordinati. La Repubblica era interessata a conservarsi il favore del C. a causa della possibilità di questo di bloccare completamente, per la posizione geografica del suo dominio, una delle principali vie di commercio tra la città sull'Adriatico e la Germania. Più volte fu assicurata al capitano la riduzione o l'abolizione del dazio o di "multe", e spesso furono sdambiate amichevoli ambasciate tra Venezia e Treviso. Le divergenze che nascevano a causa della vicinanza furono in genere subito pacificamente risolte. Il C. intrattenne stretti legami col marchese Obizzo d'Este, anch'egli guelfo. Il figlio di questo, Azzo VIII, venne armato cavaliere dal C. con grande sfarzo a Ferrara il giorno d'Ognissanti dell'anno 1294. L'anno dopo Azzo compì la stessa cerimonia per Rizzardo (II), che era figlio del signore di Treviso. Più volte furono inviate truppe a Ferrara a sostegno degli Este, che ricambiarono con doni ai Caminesi. Anche Iacopo del Cassero dovette essere vittima, nel 1298, della stretta amicizia tra i signori di Ferrara e quelli di Treviso. Molto probabilmente Rizzardo fu implicato nell'assassinio di quegli che era stato nominato podestà di Milano (Biscaro). A Padova il C. aveva da tempo delle proprietà e possedeva la cittadinanza. Rafforzò i buoni rapporti che egli intratteneva con il mondo politico locale grazie al matrimonio di sua figlia Agnese con Nicolò de' Maltraversi da Lozzo, uno dei maggiori esponenti della vita padovana, che era anche considerato il più ricco della città. Inoltre il signore di Treviso si servì degli usurai padovani per avere in prestito le sempre maggiori somme di denaro di cui aveva necessità e più volte dei padovani rivestirono la carica di podestà a Treviso. Da queste strette e durevoli relazioni di amicizia trassero vantaggio entrambe le parti. Il signore di Treviso intrattenne rapporti anche con la Curia, Firenze (Corso Donati), Trento, il Tirolo e l'Austria. La posizione interna del C. fu ratificata de iure dalla sua elezione a capitano generale e dai nuovi statuti del 1284, che avevano ampiamente mantenuto formalmente gli antichi ordinamenti interni. Ancora dopo l'anno 1283 negli atti ufficiali il podestà figura come la massima carica della città. Il C. avocò tuttavia a sé l'elezione di questo magistrato, se ne servì per legare a sé persone importanti, tra cui erano membri di note famiglie (Tommaso Quirini, Iacopo Tiepolo, Fresco d'Este). La carica toccò anche ad esponenti della fazione guelfa ed ai più stretti parenti del signore di Treviso. Gli antichi istituti del Consiglio degli anziani e del Consiglio Maggiore (dei trecento) continuarono pure ad esistere, anche se privi di un effettivo significato. Il capitano aveva il comando supremo delle truppe e rappresentava il Comune all'esterno. Il tesoro pubblico non poteva effettuare pagamenti senza la sua approvazione, ma dovette pagare anche le spese personali del capitano e di suoi parenti ed amici. Il C. si appropriò di beni demaniali o li distribuì ai suoi favoriti. In particolare la sua famosa figlia Gaia ottenne case, proprietà, diritti e numerose somme di denaro.
Fondandosi su modelli più antichi, gli statuti del 1284 contenevano ragionevoli norme di giustizia. È anche comprensibile che fossero previste pene particolarmente gravi per le congiure e reati simili. Tuttavia le fonti ci attestano che il C. non si sentì sempre legato alle disposizioni di legge. Con la sua approvazione furono convalidati anche degli atti illegali, e sentenze non gradite al capitano generale dovettero, a volte, essere revocate. Quanto il C. fosse disposto a violare costumi e leggi lo dimostra - a parte la morte di Iacopo del Cassero - l'uccisione del vescovo di Feltre e Belluno, fra' Iacopo (1297-98), di cui il signore di Treviso e suo figlio devono essere considerati responsabili. La responsabilità dei Caminesi in questo delitto rimase ignota in un primo momento; solo Bonifacio VIII decretò nel 1302 severe pene ecclesiastiche contro di loro, subito pronti al pentimento.
Gli statuti redatti dal C. prevedevano misure molto positive per lo sviluppo di Treviso. Furono presi provvedimenti per favorire l'espansione del commercio, con particolare riguardo alle indispensabili vie di comunicazione di terra e d'acqua. Accanto a Venezia, Treviso divenne un importante punto d'incontro per i mercanti tedeschi ed italiani. Fu curata anche la manutenzione e la pulizia degli stabili della città, in notevole sviluppo al tempo del Camino. Si deve pure segnalare un certo fiorire dell'industria, come la follatura dei panni, che erano portati a questo scopo a Treviso anche da Venezia. Minore successo ebbero le numerose misure previste dagli statuti in difesa della pubblica moralità. In questo senso peraltro il C., i suoi familiari ed altri nobili della città non diedero il buon esempio.
La signoria del C. portò a Treviso, al contrario di epoche precedenti, se non la libertà cittadina, almeno la pace interna senza le lotte spesso violente, prima consuete, tra i vari partiti. La posizione di rilievo e la fama di cui godeva tutt'attorno il signore si ripercossero certamente in modo significativo sulla città. Essa divenne teatro di festose cerimonie cui accennano con enfasi i cronisti contemporanei "Tra le sue mura ebbero luogo sfarzose cerimonie in occasione di conclusioni di trattati di pace, e anche di nozze e di investiture solenni. La corte del C. attirò uomini di scienza e d'arte, e poeti come Ferrarino da Ferrara. L'esponente più famoso dei Camino ricordato nella Divina Commedia (Purg., XVI, vv. 124-140) insieme con Corrado da Palazzo e Guido da Castello come uno dei "tre vecchi ancora in cui rampogna / l'antica età la nova, e par lor tardo / che Dio a miglior vita gli ripogna", entrò nella letteratura mondiale come il "buon Gherardo". La descrizione del signore guelfo di Treviso fatta da Dante (Convivio, IV, xiv, 12s.; Purg. XVI, vv. 124-140) e dai commentatori merita forse un leggero ridimensionamento, ma l'abilità del C. come promotore di paci ed arbitro riconosciuto tra i potenti, la sua saggezza e moderazione nell'uso del potere lo innalzano senz'altro al di sopra della maggior parte dei personaggi contemporanei del suo livello.
Negli ultimi anni di vita il C. tende a ritirarsi sempre più dalla scena. Dopo aver preso parte attiva per circa 40 anni alla vita politica della Marca trevigiana e del Friuli ed aver esercitato per due decenni la signoria sulla città, nel 1303 fece testamento.
La successione a Treviso spettò al figlio Rizzardo (II), mentre il secondogenito Guecellone (VII) ottenne ricchi possedimenti nel comitato di Ceneda. Ancora vivo il padre, Rizzardo appare al comando delle truppe trevigiane, ma è significativo che il C., come il capitano di Verona Alboino della Scala e quello di Mantova Guido Bonaccolsi, si offrisse come mediatore nella guerra incombente tra Padova e Venezia (1304). Un trattato di pace fra le due città venne concluso il 5 ottobre del 1304 a Treviso. Rizzardo rinunciò però alla neutralità, si legò a Venezia e pose quindi termine alle amichevoli relazioni con Padova. Era la fine della tradizionale politica del C., che era ancora in vita. Non ebbe ripercussioni sulla città una congiura tentata nel 1305 contro la signoria dei Camino a Treviso, i cui retroscena non sono stati chiariti e che fu scoperta e soffocata con l'aiuto dei Veneziani.
Il C. morì nel marzo 1306 e fu sepolto, secondo il suo desiderio, in un'arca marmorea presso la porta della sagrestia della chiesa di S. Francesco a Treviso.
Fonti e Bibl.: H. Wiesflecker, Die Regesten der Grafen von Tirol und Görz, Herzöge von Kärnten, II, 1, Innsbruck 1952, nn. 1, 303 s., 315-341, 498;G. B. Picotti, ICaminesi e la loro signoria in Treviso dal 1283 al 1312, Livorno 1905, pp. 74ss. (con indicazioni delle fonti e della letteratura precedente); Id., Gaia da Camino, in Giornale dantesco, XII (1904), pp. 81-90;F. Ercole, Comuni e signori nel Veneto, in Nuovoarchivio veneto, n.s., XIX (1910), pp. 255 ss.; G. Biscaro, Il delitto di G. e di Rizzardo da Camino (1298),ibid., XXVIII (1914), pp. 388-415; Id., La correità di G. e Rizzardo da Camino nella uccisione di Iacopo del Cassero, in Mem. stor. forogiuliesi, XIX (1923), pp. 189-203; Id., Dante e il buon Gherardo, in Studi medievali, n.s., I (1928), pp. 74-113; L. Gava, La signoria dei da Camino in Belluno, in Arch. stor. di Belluno, Feltre e Cadore, XXVII (1956), pp. 55-76; G. da Camino, Ida Camino della Marca Trevigiana, Torino s.d. (ma 1958), pp. 13 ss.; G. Netto, Il trattato di Treviso del 1291:Benedetto XI e G. da C. tra Venezia e Aquileia, in Atti e mem. della Soc. istr. d'arch. e st. patria, LXVIII (1968), pp. 39-55; Enc. dantesca, I, pp. 775s.