GEZONE
Non conosciamo il luogo né la data di nascita di G.: le poche informazioni esplicite sulla sua vita derivano da quanto egli stesso ci dice nel prologo del suo De corpore et sanguine Christi. Era originario della diocesi di Tortona e lì prese gli ordini sacri; meditò poi di emigrare altrove, per sottrarsi agli impegni della vita secolare e potersi meglio dedicare al servizio divino, ma ne fu dissuaso dal vescovo Giseprando, che rifiutò di accordargli il consenso e gli promise di assegnarlo al monastero benedettino che progettava di costruire presso la chiesa di S. Marziano a Tortona: nel chiostro G. avrebbe potuto trovare la solitudine che cercava e avrebbe potuto realizzare pienamente le sue aspirazioni alla vita religiosa. Quando il monastero fu infine costruito, Giseprando propose a G. di diventarne abate, minacciando, in caso di rifiuto, di sostituire i pochi monaci che già risiedevano con dei canonici; dopo qualche resistenza, G. accettò.
Ricerche recenti, che si devono soprattutto a G. Braga (1985), hanno permesso di collocare queste informazioni, di cui non abbiamo ragione di dubitare, in un contesto storico più preciso. Giseprando divenne vescovo di Tortona fra il 25 marzo e la fine di aprile del 945, e il monastero di S. Marziano risulta funzionante già prima del maggio 947, quando a esso vennero concessi feudi dai re d'Italia Ugo e Lotario; fra queste due date andranno collocati l'incontro fra Giseprando e G. e il successivo accoglimento di questo nella comunità monastica. Poiché nel prologo al De corpore G. non fa alcun cenno a un suo predecessore nell'abbaziato e riferisce invece che al momento della sua nomina nel chiostro vi erano ancora pochi monaci, si ritiene in genere che egli sia stato subito nominato abate, primo di quella fondazione; ma la cosa non può dirsi del tutto sicura.
A partire dal quinto decennio del X sec. e fino a una data imprecisata, comunque successiva al 963, G. fu dunque abate del monastero di S. Marziano. A quanto si può capire, la fondazione del monastero, situato fuori dalle mura di Tortona presso la chiesa dove si conservavano le reliquie del martire, costituiva un elemento strategicamente importante nel governo episcopale di Giseprando. Ne è indizio il fatto che il culto di Marziano, da tempo in declino, assunse in quell'epoca nuovo vigore e il santo entrò nel novero dei patroni della città e della diocesi; e soprattutto il fatto che, a quanto si può capire dalla scarsa documentazione rimasta, il vescovo provvide a sostenerlo adeguatamente, ottenendo per esso importanti benefici.
Giseprando fu, forse per l'intera durata del suo episcopato, anche abate di Bobbio, e venne accusato di avere utilizzato tale prerogativa per impoverire il patrimonio dell'abbazia a vantaggio della propria diocesi. Si è supposto pertanto che da Bobbio Giseprando avesse asportato anche la dotazione libraria per il monastero da lui fondato a Tortona, e che tale donazione fosse stata utilizzata da G. per scrivere la sua opera. Da Bobbio a Tortona, in particolare, sarebbe passato l'attuale codice Vat. lat. 5767 della Bibl. apost. Vaticana contenente il De corpore et sanguine Domini di Pascasio Radberto, opera che G. avrebbe letto in questo stesso manoscritto; ma il fatto che il codice sia stato utilizzato in precedenza da Raterio, vescovo di Verona (metà del X sec.), può far pensare che esso provenga invece da Pavia, dove si sa che Raterio, in carcere, lesse e annotò alcuni testi patristici. Accanto a questa possibile influenza bobbiese, che sarebbe in ogni caso limitata al passaggio di libri, nel De corpore di G. compare una più significativa e marcata impronta cluniacense, alla quale pure non sembra estranea la politica ecclesiastica del suo vescovo. Giseprando era stato a lungo a Pavia alla corte dei re d'Italia Ugo e Lotario, con i quali intratteneva stretti rapporti l'abate di Cluny, Oddone, che fu anche loro ospite nella capitale. Il fatto che il monastero dertonense, oltre che a s. Marziano, fosse intitolato a Pietro, sembra costituire un riferimento preciso e programmatico al monachesimo cluniacense, tipiche del quale sono le dedicazioni al principe degli apostoli. Con questi presupposti si può meglio spiegare il fatto che nel De corpore G. utilizza in larga misura le opere di Oddone, che gli giunsero con ogni probabilità attraverso Pavia e Giseprando; per la stessa via potrebbe anche essergli giunto un codice di Ilario di Poitiers, che egli leggeva nella stessa forma testuale che circolava a Cluny. Da Bobbio o da Pavia saranno giunte anche le altre opere che G. conosceva e citava di prima mano: Ilario di Poitiers, Cipriano, Agostino, Giovanni Diacono, Gregorio Magno, Beda, le Vitae patrum e forse una raccolta di miracoli e di exempla sul tema dell'eucarestia.
Nulla di preciso si sa di G. dopo la sua ascesa all'abbaziato, né è nota la data della sua morte. Notevole fortuna hanno avuto in passato due ipotesi che appaiono oggi prive di consistenza.
La prima, avanzata un secolo fa dal Buzzi e ripresa più di recente dalla Mazzuconi, riteneva che G. fosse in seguito succeduto a Giseprando sulla cattedra episcopale dertonense, e che ciò fosse avvenuto già a partire dall'inizio del 962. L'ipotesi si basava sul fatto che in un documento del febbraio 962 il vescovo di Tortona, ricordato fino a quel momento con il nome di "Giseprandus", è indicato con il nome di "Gezo", e che con il medesimo nome Liutprando di Cremona designa il vescovo di Tortona che prese parte al sinodo romano del novembre 963. In realtà, all'epoca il nome di "Gezo" non era altro che un diminutivo di "Giseprandus" e i documenti in questione, che non sono peraltro conservati in originale, possono benissimo avere adottato la forma equivalente; e del resto in un documento del settembre 962 il vescovo ha ancora nome Giseprando, sicché una sua precedente sostituzione con G. risulta impossibile. Poiché dunque pare da escludere che G. sia stato vescovo dopo Giseprando, neppure può essere invocato come terminus ante quem per la sua morte l'aprile 967, quando nella sede di Tortona risulta insediato un nuovo vescovo di nome Giovanni. Una seconda ipotesi, già proposta in forma dubitativa dal Mabillon e fatta propria dal Lugano, riteneva che G. avesse retto in età avanzata il monastero di Breme, in Lomellina, dove tra la fine del X e l'inizio dell'XI secolo è attestato un abate di nome "Garibertus qui est Gezo"; ma l'identificazione è improbabile da un lato per l'insolita lunghezza che la vita di G. dovrebbe avere avuto, dall'altro per il fatto che l'abate di Tortona non è altrove indicato come Gariberto. Dato che il nome "Gezo" risulta relativamente comune nei documenti di area padana occidentale del sec. X, appare perciò quanto mai probabile che si tratti di due omonimi.
Come già accennato il nome di G. è legato al trattato De corpore et sanguine Christi che esercitò un ruolo rilevante nel trasmettere in Italia settentrionale il dibattito sull'eucarestia, uno dei temi principali della riflessione teologica della seconda età carolingia in Francia. Esso è certamente successivo alla morte, presupposta dal prologo, di Giseprando, che risulta ancora in vita nel novembre 963. Il De corpore si presenta come un ampio trattato suddiviso in 70 capitoli. A eccezione del prologo, che ha avuto diverse edizioni, esso è stato pubblicato solo dal Muratori (in Anecdota… ex Ambrosianae Bibliothecae codicibus, III, Patavii 1713, pp. 242-303; poi in J.-P. Migne, Patr. Lat., CXXXVII, Parisiis 1879, coll. 371-406), che trascrisse il testo del manoscritto della Bibl. Ambrosiana di Milano (M.79.sup.), omettendo però tutte le parti che riproducevano letteralmente fonti patristiche note; sicché manca di fatto un'edizione completa.
Il trattato appare in un certo senso tipico del X secolo, epoca in cui gran parte della produzione teologica costituisce una rielaborazione e una semplificazione delle ben più ricche e originali elaborazioni di età carolingia. Dopo l'ampio prologo a sfondo autobiografico e il sommario, l'opera si apre con una doppia serie di versi: la prima è un centone che, come ha dimostrato G. Braga, G. stesso ha ricavato selezionando alcuni versi che nel VI libro dell'Occupatio di Oddone di Cluny trattano dell'eucarestia, e non è, come si riterrebbe dal titolo (Versus domni Odonis de sacramento corporis et sanguinis Domini), una composizione originale di Oddone; la seconda è invece tratta alla lettera dal De corpore et sanguine Domini di Pascasio Radberto, opera della quale costituisce la dedica poetica. Il trattato prosegue con un florilegio di sentenze patristiche sul corpo del Signore, sulla sua sostanza e sulla sua generazione (cap. I-XXIII) e include poi, riportato quasi per intero, il trattato pascasiano (capp. XXIV-XXXV); seguono altre citazioni patristiche e una serie di exempla e miracula volti a illustrare il comportamento da tenere di fronte ai sacri misteri (capp. XXXVI-LXX). Di questi exempla il gruppo più significativo (capp. LVII-LXVII) è ripreso dal II libro delle Collationes di Oddone; ma di altri non è stata ancora individuata la fonte, e fra questi vi è quello, assai celebre, dell'ebreo convertito che, dopo essere stato a lungo osteggiato dai diavoli che gli impedivano il battesimo, ha infine la visione del corpo fisico di Cristo, che giace sull'altare dove il sacerdote celebra l'eucarestia (cap. XL). Sempre G. Braga ha dimostrato che non fa parte del De corpore quello che il Muratori aveva pubblicato come capitolo finale dell'opera (Definitio brevis de eucharistia), che è in realtà un brano dei Dicta de corpore et sanguine Christi attribuiti a Erigerio di Lobbes. Questo brano si legge in appendice all'opera di G., nel solo codice ambrosiano che il Muratori utilizzava, ed è certo un'aggiunta dovuta a un copista successivo; ma la sua supposta attribuzione a G. aveva fatto a lungo ritenere che l'abate di S. Marziano fosse stato l'anello di passaggio fra Remigio di Auxerre, la cui opera è utilizzata nella Definitio, ed Erigerio.
Se dunque l'opera di G. non presenta particolare originalità nel contenuto, riducendosi in massima parte alla giustapposizione di fonti preesistenti, citate in genere alla lettera, è interessante però il criterio preposto alla selezione e alla disposizione del materiale. Il De corpore si configura come una sorta di introduzione e commento all'omonimo trattato di Pascasio, che ne costituisce il centro e la parte più rilevante sul piano dottrinale; lo scopo è evidentemente quello di rendere più accessibile quest'opera, di carattere strettamente teologico e con un taglio rigorosamente argomentativo, da un lato mediante il suo inquadramento nelle dottrine patristiche di ascendenza tardo antica, dall'altro mediante la presentazione di un'esemplificazione pratica di tipo edificatorio che rendevano il testo pascasiano fruibile anche in ambienti culturalmente meno evoluti. Il destinatario del De corpore di G. è la comunità monastica del suo chiostro, per la quale il trattato rappresentava un testo di studio e approfondimento teologico sull'eucarestia, ma anche una raccolta morale e pastorale di più ampio respiro, come indica il fatto che gli exempla finali sconfinano spesso verso tematiche estranee all'argomento principale. Il pubblico cui il trattato si rivolge è dunque un pubblico di religiosi di media o modesta preparazione culturale; tenendo conto di questo, si possono meglio spiegare le piccole contraddizioni e ruvidezze rilevate dal Manitius, non troppo gravi per un'opera che si proponeva un fine in certa misura pratico.
Il De corpore di G. ebbe una discreta fortuna nell'Italia settentrionale; se ne conoscono 10 manoscritti, i più antichi dei quali risalgono alla fine del X secolo. L'opera circolò associata spesso a quella di Pascasio e ad altri scritti sull'eucarestia, e appare legata soprattutto agli ambienti cluniacensi, e in particolare all'abbazia di Polirone, nel Mantovano, dove erano conservati almeno due manoscritti dell'opera; questo può costituire un'ulteriore conferma dei legami che il chiostro di S. Marziano, Giseprando e lo stesso G. sembrano aver avuto con la grande abbazia borgognona.
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