ROVETTA, Gerolamo
Romanziere e drammaturgo; nacque in Brescia il 30 settembre 1851, dimorò a lungo nel Veneto, morì a milano l'8 maggio 1910. Al molto favore che gran parte della sua opera ottenne dal pubblico nei libri e nei teatri non corrisponde più il riconoscimento dei critici, perché (come, del resto, alcuni osservavano anche lui vivo) manca di solito così alle sue invenzioni come al suo stile una personale vigoria, un personale accento. Nondimeno, nella cronistoria letteraria della seconda metà dell'Ottocento italiano il R. manterrà un luogo onorevole, almeno per alcuni dei suoi molti lavori.
Dal 1875 al 1909, schivando d'accendere mischie e di combattere battaglie, continuò a offrire commedie, novelle, romanzi, con accortezza tecnica, con agevolezza corretta, con sani criterî, con misura, e secondando il gusto comune cui non mai concesse nulla di volgare, anche se talvolta, specialmente sulle prime, cadde nella caricatura dove questa non era nel suo proposito artistico, oppure abusò dell'ironia che avrebbe voluto contenere a fior di labbra. Sentì da sé che talora il "mestiere" gli prendeva la mano: e, quando ridusse a commedia il suo romanzo La baraonda, se ne confessò a un amico come di un errore artistico dovuto fare per necessità di guadagno. Ma furono sempre peccati veniali. Il R. rispettò e sé e il pubblico. Mater dolorosa (1881), La trilogia di Dorina (1889), Romanticismo (1901), sono le sue più caratteristiche composizioni teatrali: e crediamo che quest'ultimo dramma, in prosa, sagacemente ordito, caldamente scritto, con effetti ben previsti di commozione scenica e patriottica insieme (l'azione è nella Lombardia sotto gli Austriaci, negli anni precedenti il 1859), segni un punto notevole nei tentativi di rinsanguare con storica realtà il vecchio dramma romantico. Ciò gli riuscì meno bene nel dramma Il re burlone, 1905, su Ferdinando II re delle Due Sicilie. Fra le opere narrative, notevoli Mater dolorosa (1882), La baraonda (1894), Il tenente dei lancieri (1896), La Signorina (1900); dei quali il penultimo, forse per la sua stessa brevità, è il più gustoso, ed è peccato che la penetrazione psicologica non vi sia sorretta da un'arte più robusta o più elegante. Il R., mentre in Italia aveva valore quasi soltanto la produzione francese, seppe introdurvi, sia per gli argomenti, sia per il modo di trattarli, libri italiani d'amena lettura, e scene che, come in Romanticismo, sono propriamente italiane: basterebbe a dimostrarlo il raffronto con Patrie di V. Sardou. Almeno quella volta, per merito del suo animo patriottico più forse che della sua tempra fantastica, il R. creò tipi che non sono umanamente generici ma ben rappresentativi d'una data condizione storica, e però hanno anche, sia pure non fortemente concepita, una loro personalità. Certo, nel romanzo egli non conseguì mai tanto; e se fu cruda sentenza quella di chi affermò avere egli dell'Ottavio Feuillet, e, peggio, del Giorgio Ohnet, sentenza erronea perché insomma non fu mai un pedissequo imitatore degli stranieri, convien riconoscere che a torto si volle analizzare l'opera sua quasi fosse un'ampia, profonda, sicura espressione d'umanità. Tra l'uno e l'altro estremo c'è posto per una valutazione critica che, messi in rilievo i moti di quell'arte oscillante tra un'idealità convenzionale e un realismo senza intimo convincimento, riconosca l'equilibrio di buone qualità in servizio di una costante intenzione di arrivare, col dialogo drammatico anche nel racconto disteso, a rappresentare la vita, ora con un certo ironico pessimismo, ora con una certa passione sentimentale, che del pari convergono ad ammaestramenti morali e civili.
Bibl.: E. Bevilacqua, G. R. e la sua famiglia materna, Firenze 1925; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, 3ª ediz., Bari 1929, III, p. 163 segg.; L. Russo, I narratori, Roma 1923, pagine 122-123; G. Mazzoni, L'Ottocento, 2ª ed., Milano 1934, dove è data bibliografia in complemento alla prima edizione.