LANDRIANI (Landriano), Gerolamo
Nacque intorno alla metà del Quattrocento figlio illegittimo di Antonio, di eminente famiglia milanese strettamente legata ai Visconti e agli Sforza., consigliere ducale, tesoriere generale e prefetto dell'Erario, ferito a morte il 30 ag. 1499 da Simone Arrigoni, della fazione antisforzesca, durante i tumulti che precedettero la cacciata di Ludovico il Moro.
Fu nipote di Pietro, consigliere ducale e siniscalco generale della duchessa Bona di Savoia, e di Giacomo, dal 1459 prevosto dell'abbazia di Viboldone, presso Milano, dal 1469 al 1485 maestro generale dell'Ordine degli umiliati. Il fratello Ludovico, anch'egli prevosto di Viboldone, fu vicario generale degli umiliati, consigliere ducale, tesoriere generale e prefetto dell'Erario. Il nonno paterno, Accursio, era stato sovrastante della Zecca, nonché sindaco di Milano nel 1456 e nel 1467.
Dottore dei due diritti, il L. fu uomo politico di eccezionale ambizione e ricoprì incarichi importanti nell'amministrazione sforzesca; fu inoltre umanista e frequentò il cenacolo letterario che si riuniva attorno a Giorgio Merula e al cancelliere ducale Giacomo Antiquario.
Seguendo la tradizione familiare, entrò nell'Ordine degli umiliati (i frati bianchi) e nel 1479 era già prevosto del convento cremonese di S. Abbondio, la cui rendita annua era di 1200 ducati. Dopo la morte di Giacomo Landriani, l'8 nov. 1485, il capitolo generale dell'Ordine, riunitosi all'inizio del 1486 a Siena per disposizione di Innocenzo VIII, nominò come suo successore Simone De Plenis, prevosto della casa umiliata di Pistoia, ma nell'aprile seguente una parte consistente di religiosi si riunì a Como e riconobbe come maestro generale il Landriani. Il papa annullò la nomina del L. e gli tolse tutti i benefici ecclesiastici, ma questi, forte dell'appoggio di Ludovico il Moro, di fatto signore del Ducato in quanto tutore di Gian Galeazzo Maria Sforza, non si piegò al volere pontificio e avviò una controversia protrattasi per più di due anni. Il 12 maggio 1488 Innocenzo VIII, forse convinto dai dispacci di Giacomo Gherardi, nunzio a Milano, del disinteresse del Moro per le sorti del L., confermò con un breve l'elezione del De Plenis. Tuttavia alcuni mesi dopo, in seguito a nuove e insistenti sollecitazioni di Ludovico, il papa tornò sulle sue decisioni e ratificò la nomina del L. per tre anni. Con una bolla del 10 luglio 1490 lo assolse da ogni irregolarità e gli restituì la prevostura di S. Abbondio e il diritto ai benefici. Il De Plenis fu ricompensato con benefici in territorio milanese e con una pensione su quella prevostura.
Il 28 genn. 1495 il L., insieme con il giureconsulto e consigliere di giustizia Antonio Stanga, fu incaricato da Ludovico Sforza di un'ambasceria straordinaria a Roma, presso Alessandro VI. La missione prevedeva una tappa intermedia a Siena, dove aveva trovato rifugio il cardinale Ascanio Sforza, fratello del duca e fiero oppositore del papa, costretto a fuggire da Roma dopo aver subito l'onta della prigionia.
Si trattava di favorire la riammissione del cardinale a corte, ma anche di preparare il terreno per un rovesciamento di alleanze che avrebbe visto Ludovico e il pontefice, pure favorevoli alla spedizione di Carlo VIII, aderire alla Lega santa con Venezia, Spagna e Impero in funzione antifrancese. La missione ebbe successo e il 23 febbraio la pace poteva dirsi conclusa con l'assoluzione papale e l'invito al cardinale Sforza a tornare a Roma. Come garanzia Ascanio chiese di avere in ostaggio nel castello di Nepi Cesare Borgia. Ma questi si oppose e il suo posto fu preso dal cardinale Giovanni Borgia, arcivescovo di Monreale e nipote del papa, liberato due giorni dopo quando lo Sforza, per la buona accoglienza ricevuta, si convinse di non correre più alcun pericolo.
Tornato da Roma, il 18 maggio 1495 il L. fu nominato consigliere ducale. Il 23 ag. 1496, insieme con i vescovi e i protonotari del Ducato di Milano, accolse solennemente a Melegnano il cardinale Bernardino Carvajal, legato pontificio che, accompagnato dal maestro cerimoniere Iohannes Burckard, andava incontro all'imperatore in viaggio verso la Lombardia. Nel settembre 1497, insieme con il giureconsulto e consigliere di giustizia Giovan Pietro Suardi, fu incaricato di un'ambasceria straordinaria in Spagna per trattare il rinnovo della Lega santa.
All'avvicinarsi dell'esercito francese comandato da Giangiacomo Trivulzio e dopo la partenza, il 31 ag. 1499, del cardinale Sforza - diretto con i figli del Moro Massimiliano e Francesco e con il tesoro ducale in territorio imperiale -, il 2 settembre Ludovico, vista vana ogni difesa e dopo avere rinunciato al Ducato in favore di Isabella d'Aragona, vedova di Gian Galeazzo Maria Sforza, si diresse verso Innsbruck sotto la protezione dell'imperatore.
Un'assemblea popolare, riunitasi il giorno prima nella chiesa della Rosa, aveva nominato un governo provvisorio composto da quattro illustri cittadini: il L., Francesco Bernardino Visconti, Antonio Trivulzio, vescovo di Como, e Giangiacomo Castiglioni, arcivescovo di Bari. Il Moro, per far valere il suo ruolo senza contrastare il popolo, aveva costituito un Consiglio di reggenza di sedici membri, compresi i quattro nominati dall'assemblea popolare. Con le truppe nemiche alle porte, il Consiglio si era limitato ad abolire il dazio sui generi alimentari di maggior consumo, a nominare un responsabile dell'ordine pubblico e a predisporre, nell'illusione che fosse ancora possibile una trattativa, i capitoli della resa: ci si impegnava, tra l'altro, a giurare fedeltà al re di Francia, a promettere un censo annuale e a chiedere un trattamento riguardoso per Isabella d'Aragona e per il figlio Francesco. La sera del 2 settembre i fanti del Trivulzio entrarono in città.
All'inizio del 1500, andate deluse le speranze riposte nei Francesi, quando a Milano si cominciava già a rimpiangere il Moro, il L. e altri esponenti del partito sforzesco (Leonardo Visconti, abate di S. Celso, Alessandro Crivelli, protonotario apostolico e prevosto di S. Pietro all'Olmo, e monsignor Battista Visconti) si diedero a fomentare il malcontento e a inviare lettere a Ludovico per sollecitare il suo intervento militare. La sommossa contro i soldati francesi scoppiò il 28 gennaio; il 2 febbraio il Trivulzio abbandonò Milano e due giorni dopo vi fece ritorno il Moro. Il giorno successivo il L. entrò a far parte di un governo provvisorio di sedici notabili sotto la direzione del cardinale Sforza, che aveva il compito di amministrare lo Stato durante l'assenza di Ludovico, subito partito per la campagna militare contro i Francesi. Dopo la sconfitta di Novara (9 apr. 1500) e la cattura del Moro, furono imprigionati anche Ascanio e molti esponenti del partito sforzesco, tra i quali il fratello del L., Ludovico, che perse la prevostura di Viboldone e fu liberato molti mesi dopo dietro pagamento di 6600 ducati. Il L. riuscì a mettersi in salvo e a rifugiarsi presso l'imperatore.
Negli anni successivi il L. pose le sue doti di diplomatico al servizio di Massimiliano d'Asburgo. Fu in contatto con i Dieci di Firenze, cui comunicò, nel settembre 1506, la morte del re di Polonia Alessandro Iagellone. Fu inviato a Venezia nel gennaio 1507, e vi ritornò nel gennaio successivo nell'ambito di una trattativa sollecitata dalla Serenissima che, preoccupata per l'eccessiva potenza francese, offriva aiuti e danaro all'imperatore perché venisse in Italia. Prese poi parte alle trattative che portarono alla Lega di Cambrai (10 dic. 1508), con la quale fu sancito l'isolamento di Venezia, preludio alla sconfitta di Agnadello del 14 maggio 1509.
Nel giugno 1512 il L., fuoruscito da Milano, fu inviato dalla Lega santa (Spagna, Inghilterra, Svizzera, Venezia e Stato pontificio) nella sua città per chiederne la resa pena il saccheggio. Cacciati i Francesi, fece parte di una delegazione che Milano, minacciosamente sollecitata dal rappresentante della stessa Lega, Federico Balbo, inviò a Pavia per portare la propria adesione alla coalizione antifrancese. Restituito il trono ducale a Massimiliano Sforza, figlio del Moro, il L. fu nominato, nel 1513, senatore ducale e conservatore dello Stato. Nello stesso anno, per contribuire alle spese belliche di Massimiliano, impose ai Cremonesi, che gliene serbarono rancore, una tassa di 15.000 ducati d'oro sulle proprietà cittadine e rurali. Nel 1515, conquistato per l'ennesima volta il Ducato dai Francesi, il L. dovette allontanarsi da Milano fino a quando, nel 1517, un provvedimento di Francesco I concesse a lui e agli altri fuorusciti di tornare e di essere reintegrati nella precedente condizione.
Nel maggio 1519 una congregazione di preposti degli umiliati, riunita a Roma alla presenza del cardinale Trivulzio, protettore dell'Ordine, stabilì, con approvazione di Leone X, che il L., come il suo predecessore, mantenesse a vita la carica di maestro generale, nonostante le regole dell'Ordine prevedessero una durata massima di tre anni.
Durante la prevostura del L. fu completamene ricostruito il chiostro del convento di S. Abbondio, caratterizzato da motivi architettonici ispirati alle opere romane di Donato Bramante, la cui ricezione in area lombarda può essere attribuita alla mediazione del prevosto di Viboldone Ludovico Landriani, esperto di aritmetica, geometria e architettura. I lavori, iniziati alla fine del Quattrocento, si conclusero il 25 giugno 1511, come testimonia la data incisa alla base di un pilastro angolare esterno; un'altra incisione, al centro dello stesso pilastro, riporta le abbreviazioni "HIE./LA./GE.", da sciogliere con Hieronimus Landrianus Generalis. Ludovico Landriani fu quasi certamente tra gli ideatori del ciclo di affreschi, attribuiti a Francesco Casella, di una delle sale del convento cremonese. Attraverso i ritratti di filosofi e astronomi antichi, raramente rappresentati, come Tebithcore e Timocarris, le Storie di Ercole e i ritratti degli imperatori, l'opera celebra la cultura umanistica degli umiliati e del loro generale, e la scelta politica filoimperiale e romana.
Il L. morì a Cremona il 25 febbr. 1525, in S. Abbondio, e fu sepolto nella chiesa del convento.
Un poemetto in terzine in volgare a rima incatenata di poco più di 600 versi, composto tra il 1532 e il 1544 da frate Mario Pizzi, prevosto degli umiliati di S. Maria degli Ottazzi di Milano, poi di S. Giovanni Evangelista nella stessa città, lo ricorda come il primo e il più colpevole di tre maestri generali, sotto la cui gestione si accentuarono la corruzione e la decadenza morale dell'Ordine.
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