DE FRANCHI, Gerolamo
Nacque a Genova il 6 genn. 1585, primogenito maschio di Federico De Franchi Toso e di Maddalena, figlia di Gerolamo Durazzo. Ricevette come i fratelli una buona educazione retorico-letteraria e, in più, uno specifico addestramento alle arti militari.
Iniziò la sua carriera nel 1618, come commissario della fortezza di Savona; ma poi per molti anni non ricoprì incarichi politici. Dopo il 1620 si dedicò invece continuativamente alla gestione finanziaria del Banco di S. Giorgio: in esso fu per tre volte anche protettore delle Compere, la carica più elevata, ricopribile dai più forti possessori di capitali. Nel 1624-25 proprio tale carica, che escludeva la concomitanza con altre governative, spiega l'assenza del D. da cariche pubbliche, mentre Genova, coinvolta direttamente nella guerra dei Trent'anni, era stretta d'assedio e il doge, che era allora il padre del D., organizzava magistrature straordinarie per la resistenza. Gli anni trascorsi in S. Giorgio procurarono al D. un ulteriore, notevole arricchimento personale, che egli in parte investi in case e ville nel Levante cittadino, da Albaro a Nervi. Il 13 luglio 1635 venne estratto senatore, in sostituzione di G. F. Brignole Sale eletto doge: inserito tra i governatori, fu nello stesso 1635 nominato tra gli Inquisitori di Stato, magistratura di recente introduzione (1628), divenuta perpetua proprio in quell'anno, e destinata ad acquistare sempre maggiore importanza in un regime che diveniva sempre piùcensorio. Nel 1637, scadute le due cariche, entrò nell'ufficio dei Cambi. Nel 1640 contemporaneamente fece parte del magistrato dei Padri del Comune e resse il capitanato del Bisagno. Nel 1642, nuovamente estratto senatore e inserito tra i governatori, gli venne affidata la direzione della lotta contro i banditi.
Poiché il termine comprende i "ribelli", cioè i contumaci condannati per delitto di lesa maestà, la carica diventa significativa in anni in cui Genova sventa ricorrenti tentativi, più o meno autentici, di "congiure" (dal De Martini al Vachero, al Balbi, al Raggi). Per i collegamenti poi che il commissario dei banditi mantiene con i giusdicenti delle podestarie extraurbane, e per gli ovvi legami con gli Inquisitori di Stato (che infatti, con legge del 1663, avocheranno a sé le competenze della Giunta dei banditi), è evidente che le cariche ricoperte dal D. in questi anni sono collegabili ad un preciso disegno repressivo.
Infatti nel 1647 il D. era di nuovo eletto tra gli Inquisitori e, dopo essere stato tra i sindacatori supremi mentre il fratello Giacomo era doge, nel 1650, estratto per la terza volta senatore, presiedette nuovamente il commissariato contro i banditi (divenuto Giunta contro i banditi, con più ampia giurisdizione, con legge 13 nov. 1651). Nello stesso 1650 si era suicidato in carcere il "congiurato" Stefano Raggi, catturato per aver attentato alla vita del doge e di tutta la nobiltà: e l'enormità dell'accusa parla da sola. Forse anche la successiva nomina a presidente dell'ospedale di Pammatone (una delle grandi strutture assistenziali della Repubblica, ospitando in quel periodo 1.500 degenti) e l'eccezionale generosità che viene riconosciuta alla sua gestione si iscrivono in un disegno di organizzazione e controllo di tutte le possibili forze destabilizzatrici. Il D. ricopriva questo incarico quando l'8 sett. 1652 riuscì finalmente ad essere eletto doge, con 173 voti al primo scrutinio. Gli altri due candidati più votati, Giulio Sauli e Giovan Bernardo Frugoni, poi entrambi dogi, ebbero rispettivamente 115 e 106 voti.
Nei precedenti tentativi il D. aveva avuto come rivale il fratello (nel 1641 entrambi ottennero 153 voti e per poche unità uscì eletto Luca Giustiniani; nel 1648 Giacomo era stato eletto con 172 voti contro i 165 del De Franchi). Tutte le fonti sottolineano, e forse accentuano, la profonda diversità di carattere del D. rispetto al fratello Giacomo, che lo avrebbe preceduto sul trono ducale, nonostante gli fosse minore di età, grazie all'energia e alla risolutezza di cui il D. avrebbe difettato. Però, benché l'attività politica del D. appaia meno intensa di quella del fratello, dimostra una sorta di coerente continuità. E il fatto che per ben tre volte concorra alla carica dogale, riportando un alto numero di voti, suggerisce l'ipotesi che un ben definito settore della classe dirigente genovese si riconoscesse nella sua linea politica. Si trattava probabilmente di quella nobiltà "nuova", di cui la famiglia De Franchi era una delle più qualificate esponenti, divisa, oltre che da molti altri problemi di politica estera e interna spesso tra loro connessi (neutralismo formale o sostanziale; rapporti con la Spagna; economia navale o finanziaria o agraria), anche sul concetto stesso di governo. Di questa nobiltà "nuova" una parte era favorevole alla stretta autoritaria che di fatto, travalicando le leggi esistenti, si viene realizzando fin dai primi anni del '600 su posizioni talora più reazionarie di quelle della stessa nobiltà "vecchia" (con effetti di rigida chiusura rispetto alle nuova ascrizioni); l'altra parte era invece più attenta a difendere, nel rispetto delle leggi esistenti, la "libertà" garantita da una Repubblica aristocratica. Dei due fratelli dogi, mentre Giacomo è l'espressione di questo secondo gruppo, il D. dovette essere l'uomo del primo.
Subito dopo l'elezione, il D., che soffriva di gotta, cadde malato; ripresosi, volle essere incoronato il giorno dell'Epifania, suo genetliaco, del 1653. Nell'orazione tenuta in palazzo da L.M. Invrea, pur dissimulato dal tono agiografico di circostanza, sembra di poter leggere un giudizio politico riduttivo sul D. per la sua "moderazione". Eppure, proprio sotto il suo dogato, si realizzerà un drastico cambiamento di fronte nelle relazioni internazionali, anche se privo di durature conseguenze per il sovrapporsi di altri eventi.
La tensione nei rapporti con la Spagna, già crescente da qualche decennio, sfocia nel 1654 in un clamoroso episodio: a seguito della confisca da parte delle autorità della Repubblica di alcune barche del Finale, sorprese a frodare le gabelle e i diritti del Banco di S. Giorgio, le autorità spagnole per rappresaglia sequestrarono i beni e le rendite genovesi in tutti i domini italiani. Il governo della Repubblica reagì con apparente durezza e, rotte le relazioni economiche con la Spagna, cercò per via diplomatica solidarietà presso tutte le corti europee e parve sul punto di passare esplicitamente in campo antispagnolo. L'avvicinamento alla Francia di Mazzarino si tradusse tra l'altro nella restituzione al doge D. di una galea dell'armamento pubblico, che la Francia aveva sequestrato fin dal 1638, durante l'annosa guerra di corsa che le barche francesi conducevano lungo le coste liguri: restituzione epicamente celebrata dalla rimeria locale. Dopo agitate trattative il D. e il governo riuscirono ad ottenere con la Spagna un accomodamento, che riconosceva i diritti genovesi sul Finale, ma in pratica non cambiava la situazione precedente le confische (e infatti episodi simili si ripeterono nei decenni successivi), mentre l'intermezzo distensivo con la Francia si rivelava effimero. Forse proprio nella gestione di questo periodo tormentato sotto il profilo internazionale si trova la causa del lungo sindacato cui l'operato del D. sarebbe stato sottoposto dopo la scadenza.
Durante il dogato, il D. concesse il riconoscimento governativo al Collegio teologico, dopo averne sottoposto ad esame e votazione con i dodici governatori i rinnovati statuti. Prima di terminare il suo biennio, il 14 ag. 1654, partecipò in casa del fratello Giacomo al sontuoso banchetto per il matrimonio della nipote Settimia con il marchese d'Arquata, Giulio Spinola. Dopo una inchiesta sul suo operato dogale durata due anni, i supremi sindacatori concessero al D. il benestare: poté così entrare nel 1656 tra i procuratori perpetui, secondo la prassi costituzionale riservata agli ex dogi. Scoppiata nello stesso anno la terribile epidemia di peste, il D., nonostante l'età e le non buone condizioni di salute, per molti mesi svolse il ruolo di commissario di Sanità a Chiavari. Finito il contagio, riprese ad esercitare gli uffici inerenti la carica di procuratore perpetuo; inoltre, ancora nel 1666, gli venne affidata la direzione della repressione "in malviventes". Dopo essere stato a capo della commissione per la riforma del cerimoniale nel 1667, continuò a presenziare alle sedute del Senato fino al 28 giugno 1668. Nello stesso anno morì nel suo palazzo in piazza Banchi.
Venne sepolto non in S. Francesco di Castelletto come il padre e i fratelli, ma in S. Francesco d'Albaro, nella cappella da lui fatta ricostruire, come sottolinea nel testamento stilato il 14 nov. 1660. In esso, oltre a varie disposizioni su messe e beneficenze pubbliche e private, lascia al figlio Cesare un ingente patrimonio, con varie proprietà immobiliari nel centro della città e nel levante cittadino; lascia una casa anche al nipote Federico (che sarà poi doge), figlio del fratello Cesare, e fornisce di una ricchissima dote la nipote Maria, figlia di suo figlio Cesare e di Teodora Sauli e sposa a Paolo De Marini di Gerolamo. Dal matrimonio con Brigida Moneglia, il D. oltre a Cesare aveva avuto due figli: Angela, che sposò Giovan Francesco Sauli, e Giovan Benedetto, che sposò prima Ortensia da Passano e poi Teresa Grimaldi, fu senatore nel 1676 ed ebbe un figlio, Gerolamo.
Bibl.: Genova, Civica Biblioteca Berio, m. r., I, 2-2: Dall'Ottimo Cittadino L'Ottimo Principe, Orazione di Luca M. Invrea nell'incoronazione del Seren. G. D. ...; Arch. di Stato di Genova, ms. 495, c. 152; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, V, pp. 8, 28; L. Volpicella, I libri cerimoniali della Repubblica di Genova, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, XLIX (1921), 2, pp. 39, 266 n.; L. Levati, I dogi biennali della Repubblica di Genova dal 1528 al 1699, Genova 1930, pp. 139-150 (con bibl.); C. Costantini, La Rep. di Genova nell'età mod., Torino 1978, p. 101.