GEROGLIFICI
. Con questo nome si suole intendere la scrittura degli antichi Egiziani. Il termine deriva da Clemente Alessandrino (Strom., V, 4,20) che la designa γράμματα ἱερογλυϕικὰ "lettere sacre incise" e, benché errato (poiché la scrittura non ha niente di ieratico e non è riservata ai monumenti) e inducente spesso in errore i profani, esso continua a vivere per la sua comodità.
La scrittura egiziana consta d'innumerevoli figure che ritraggono l'uomo, le sue azioni, gli animali, i vegetali, nel loro intero e nelle singole parti, ogni cosa del mondo visibile. La serie è illimitata. Oggi si conoscono circa tremila segni, ma soltanto circa seicento ricorrono con frequenza. A differenza dei sistemi di altri popoli, quello egiziano non ama ricorrere a simboli: dei pochi usati, uno assai evidente è quello del mese indicato dalla falce lunare capovolto sopra una stella. Ogni oggetto è rappresentato dalla sua figura, più o meno stilizzata: il sole da un disco, il legno da un ramo di albero e così via. Naturalmente l'occhio e l'orecchio esprimono, oltre all'organo del senso, la funzione, ossia il vedere, il sentire e il non sentire; l'aria e il vento s'indicano mediante una loro azione, la vela rigonfia. Le figure erano però inadeguate a rendere le complessità del linguaggio; molte cose astratte e parecchie concrete non c'era modo di rappresentarle, ad esempio "padre", "vivere", "contare" e simili; e se un segno bastava a richiamare le idee vaghe di "testa", "via", "correre", "danzare", non precisava quale delle varie parole che nella lingua corrispondono a quell'idea si era usata. Tanto meno si poteva indicare se l'azione dal danzare avvenne ieri, avviene oggi, avverrà domani: "danzai", "danzi", "danzerà"; tutti i rapporti grammaticali rimanevano inespressi con grave danno della comprensione. Per ovviare a questi inconvenienti non c'era che una via: attribuire alle figure i valori fonetici della lingua parlata e adoperarli prescindendo dal loro significato ideografico. Ed è stata appunto la via che gli Egiziani hanno seguita. Ora nell'egiziano molti rapporti grammaticali fanno avvenire mutazioni nelle vocali che articolano la parola: Ad esempio, "faccia" si dice ḥór; invece "faccia di (qualcuno)" perde l'accento e si riduce a ḥĕr; "faccia (sua)" presenta un'altra vocale ḥrá(f); sono quelli che i grammatici chiamano stato assoluto, stato costrutto, stato pronominale. Ciò che nella coscienza stava intimamente legato con l'idea "faccia" non erano le vocali mutevoli, ma il complesso stabile delle consonanti. Questo spiega perché al segno della faccia venne attribuito il valore ḥr senz'altro; e si prescindette dalle vocali in tutti i geroglifici fonetici. Poiché nella lingua dominano le radici trilittere, sarebbe stato difficile giungere all'alfabeto. Ora già nella preistoria alcune consonanti, come j, w, r, in determinati casi cadevano o si contraevano in vocali; la desinenza del femminile singolare -ĕt nello stato assoluto era pronunziata -ĕ. In origine "casa" si sarà detta pôrej; ma si ridusse in seguito a pôre, allo stato costrutto pĕr-; il segno della casa venne adoperato per indicare il gruppo pr. Così "aspide" sembra fosse wa'ṣôjet "verde" ridottasi poi a ṣôje; la troviamo per esprimere il suono ṣ. Per trapassi simili la scrittura si arricchì di numerosi segni di due consonanti; 24 indicarono i suoni elementari della lingua, l'alfabeto. Questo compare già nelle prime iscrizioni che possediamo. Gli Egiziani erano pervenuti a tale risultato, non per analisi scientifica del loro linguaggio (è antistorico pensare a tal cosa), ma quasi meccanicamente. I segni fonetici servirono a scrivere le parole che non avevano ideogrammi, le particelle ed altri elementi grammaticali; ma poiché lo scopo era quello di chiarire i valori fonetici degl'ideogrammi, si mantennero questi a fondamento del sistema grafico limitandosi ad accompagnarli con gruppi di una, due o tre lettere per facilitarne la lettura (complementi fonetici). Sono questi gruppi che hanno dato modo agli studiosi moderni di rintracciare la lingua antica. Sarebbe erroneo supporre un primitivo stadio puramente ideografico per la scrittura egiziana; che essa sia in relazione con la pittura, il disegno, va da sé, ma tra un quadro, anche simbolico, e uno scritto corre molta differenza.
Abbiamo detto che i geroglifici sono numerosi. Sebbene in teoria tutti i segni possono essere usati foneticamente, la pratica li restringe a pochi e il bisogno imprescindibile di comprendere e di farsi comprendere determina una forma tradizionale, storica, di ogni parola che varia nei secoli. Naturalmente nel corso del tempo, per alterazioni fonetiche altri segni hanno acquistato valore alfabetico o bilittero. A volte taluno si è divertito a scrivere usando foneticamente segni che nell'uso comune non erano adoperati in tal modo; ma si tratta più che altro di bizzarrie dette scritture "enigmatiche", che sarebbe errato credere, per questo termine infelice, una scrittura segreta. Nel papiro medico Ebers è stato indicato così una volta il nome della galena; è inconcepibile che non si volesse far conoscere uno degl'ingredienti della ricetta. Tali rompicapi piacquero soprattutto nei tempi greco-romani. L'Erman ha segnalato un'iscrizione di Esne del sec. II d. C. dove il coccodrillo, dio cittadino, è usato 230 volte in un testo di 350 segni.
Si è veduto sopra in seguito a quale processo i geroglifici fonetici constassero di sole consonanti e si comprende bene che al lettore pratico della lingua non offriva alcuna difficoltà la restituzione delle vocali. L'imbarazzo nacque quando, per le ampie relazioni con i paesi esteri, occorse scrivere parole straniere. Nei tempi più antichi si cercò di rimediare al difetto usando etimologie popolari. Il nome della Lidia, Asia, in cuneiforme Assuwa, venne scritto come l'imperativo del verbo "andare" Azûje (con tutta probabilità a'zûjej). Ma come tramandare usando questo ripiego le centinaia di nomi di città che i faraoni avevano soggiogate in Asia e in Africa? Già sulla fine della XI dinastia troviamo tracce di un sistema con il quale alla meno peggio si cerca d'indicare le vocali. Si sono scelti segni bilitteri uscenti in -', -j, -w che paiono usati per le sillabe -a/e, -i/e, -u/o. Lo stesso sillabario è nei cuneiformi e si può sospettare che gli Egiziani lo adoperassero dapprima per trascrivere da quelli. Nei particolari si notano varie incongruenze dovute a molteplici cause (tra l'altro ignoriamo le deformazioni che certi nomi potevano avere subito in bocca del parlante egiziano); ad ogni modo sembra assurdo supporre che questa "scrittura sillabica", come si suole chiamarla non fosse un ripiego per indicare le vocali. Sui monumenti i geroglifici (durarono sino a Teodosio I, 394 d. C.) sono in rilievo o incavati, disegnati appena nel contorno o ritratti con arte in tutti i particolari. Nei manoscritti per lo più hanno la più semplice espressione (v. anche epigrafia: Egitto). La forma onciale e corsiva, il ieratico, si trova già all'inizio della I dinastia; da questo, molto più tardi, si sviluppa il demotico (v.).
Circa il modo di trascrivere i geroglifici sono stati usati svariati sistemi. Lo Champollion si valeva dell'alfabeto copto e lo seguirono i primi suoi discepoli, per un certo tempo il Lepsius, sino ancora al 1882 lo Chabas. La proposta di sostituirvi le lettere latine fu avanzata dal Lepsius nel 1854 per ragioni pratiche, tipografiche; ma il valore assegnato alle singole lettere rimase sempre quello che il copto o le trascrizioni greche indicavano. Solo verso il 1874 le parole semitiche ritrovate in egiziano convinsero lo stesso Lepsius che due pretese vocali corrispondevano all'āleph e al ‛ayin ebraici; apparve pure che due omofoni di h erano h e ḥ; tre omofoni di k dovevano essere distinti in q, k, g. Nel 1892 uno studio dell'Erman sulle primitive relazioni tra il semitico e l'egiziano dava modo allo Steindorff di proporre una nuova trascrizione che, combattuta con violenza da vecchi egittologi (cfr. Proc. Soc. Bibl. Arch., XXIV-XXVI), veniva accettata dai giovani ed ha finito col trionfare. Essa è, seguendo l'ordine moderno dell'alfabeto: ', ἰ o j, ‛, w, b, p, f, m, n, r, h, ḥ, ñ, é, s, ś, š, k, k???, g, ṯ, t, d, ḏ. Poiché si riconosce che s corrisponde a zájin, ṯ a sāmech, che d non esiste in egiziano e mostrando l'etimologia che il misterioso ñ è l'arabo ghain, il Farina ha introdotto un'altra trascrizione più coerente: ', j, ‛, w, b, p, f, m, n, r, h, ḥ, é, ġ, z, ś, š, q, k, g, t, s, ṭ, ṣ.
Molta varietà è regnata riguardo all'inserimento delle vocali. Lo Champollion leggeva gl'ideogrammi secondo il copto, trascurava le vocali tra i segni fonetici. Poi si diffuse l'abitudine d'introdurre una e tra le consonanti e qualcun'altra a capriccio. La comparazione metodica tra l'egiziano antico e il copto, iniziata dallo Steindorff e sviluppata efficacemente dal Sethe nel primo volume del suo Das ägypt. Verbum, mostrò la complessità della fonetica egizia. Si decise quindi: nei lavori tecnici limitare la trascrizione dei geroglifici alle loro semplici consonanti (che, è naturale, si leggono inserendo una e a piacere); nelle opere rivolte anche ai profani si preferisce, quando si può, forme consone alle leggi fonetiche egizie. V. egitto: Lingua.