MARUCELLI, Germana
– Nacque il 13 ott. 1905, a Settignano, presso Firenze, da Giuseppe ed Ester Romiti.
La cultura artistica e la tradizione artigianale toscana erano patrimonio delle famiglie paterna e materna: per parte di padre discendeva da un ramo collaterale e impoverito dell’illustre famiglia fiorentina, i parenti Romiti erano proprietari di una cava di pietra serena, gli zii Chiostri gestivano una sartoria, il fratello Vasco esercitò la professione orafa.
A queste risorse la M. attinse fin dall’infanzia; frequentò la scuola fino alla quinta elementare e si impiegò a undici anni nella sartoria Chiostri, sottoposta a un severo apprendistato. Nel 1921, in premio delle fatiche compiute, ottenne di accompagnare la zia a Parigi dove le sartorie italiane prendevano ispirazione, si rifornivano di figurini e attingevano alle novità della stagione; e a Parigi, esercitata ormai ad affinare l’abilità manuale in compiti esecutivi, mise a punto le tecniche fondamentali della creazione, seconda tappa del suo apprendistato.
Visitando gli atelier, imparò a esercitare la memoria per il disegno, i dettagli, i colori e apprese l’arte della scelta confrontando prezzi, materie prime, confezione e accessori.
Nel 1925 lasciò definitivamente la sartoria Chiostri per continuare il suo percorso, fuori dall’ambiente familiare, in un altro atelier fiorentino. Nel 1932 accettò la direzione della sartoria Gastaldi di Genova per la quale stipulò un accordo con l’affermata sartoria Fantechi di Buenos Aires, ottenendo da questa il credito necessario per effettuare acquisti a Parigi. All’epoca, era già famosa per l’eccezionale memoria che le permetteva di copiare alla perfezione un modello dopo averlo solamente visto.
Nel 1938 si trasferì a Milano, nelle centrale via Borgospesso dove Flora d’Elys, una cliente tanto facoltosa quanto generosa, le mise a disposizione una casa per installarvi abitazione e atelier. L’anno seguente sposò il ventitreenne cremonese Carlo Calza, dal quale, il 28 giugno 1940, ebbe l’unico figlio Gian Carlo. In questi anni – in conseguenza del fatto che, dal 1935, l’Ente nazionale della moda, per tutelare l’italianità del prodotto, aveva stabilito che ogni sartoria dovesse produrre una quota (dal 36 al 50%) con materie prime e su figurini italiani – la M., come altre sarte, in seguito a un’ispezione subì un processo e una condanna.
Se tali limitazioni mettevano in qualche difficoltà le sartorie italiane, tuttavia costringevano i creatori di moda, e tra loro la M., a ingegnarsi con le risorse disponibili, con maggiore impegno e più ampia autonomia. Anche in conseguenza di ciò alla fine degli anni Trenta, il mercato milanese dell’eleganza – che conservava il primato nonostante che a Roma avessero sede la corte, l’aristocrazia, il mondo politico e diplomatico e il cinema – offriva migliori opportunità creative ed economiche che la M. seppe sfruttare fino in fondo affrontando la terza tappa del suo percorso professionale: la ricerca di una moda autonoma, svincolata dai dettami parigini.
Alla dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, il marito si arruolò volontario in aviazione e, con il procedere del conflitto e l’intensificarsi dei bombardamenti su Milano, la clientela sfollò nelle ville di campagna. Quando l’edificio di via Borgospesso, colpito da un ordigno, non fu più abitabile, la M. seguì la d’Elys a Stresa, sul lago Maggiore, dove la presenza di famiglie abbienti e una parvenza di vita mondana garantivano la continuità del lavoro. Non fu soltanto la necessità di guadagnarsi da vivere ma un’autentica e profonda passione per il suo mestiere che condussero la M. ad adattarsi alla mancanza di tessuto, di manodopera e di locali; nell’ultima fase del conflitto si trovò a disegnare, tagliare e cucire in condizioni estremamente precarie. In queste circostanze drammatiche la M., ascoltando con sensibilità le clienti, fu capace di anticipare la svolta che si stava preparando nel gusto: dopo il vestire spartano e le rinunce del tempo di guerra, si profilava il desiderio di recuperare una femminilità accentuata e morbida, con abiti ricchi e sontuosi. Fin dal soggiorno a Stresa la M. creò «per le superstiti milionarie clienti quegli abiti a vita di vespa, ampissima gonna e petto a piccione che, più tardi, rivendicherà come prototipi del new look» (Vergani, pp. 39 s.).
I disegni del periodo testimoniano questa eccezionale capacità della M. di anticipare il gusto – in questo caso appunto il new look, nato ufficialmente solo nel febbraio 1947, con le creazioni di Christian Dior – che lei affermava di sentire «come se si aggirasse nell’aria», ma che rappresentava invece il frutto di un paziente dialogo con le clienti, di attenzione ai cicli della moda e, a partire dal dopoguerra, di un interesse particolare alle tendenze delle arti figurative.
Nel 1946 fu l’unica tra i sarti italiani a non andare a Parigi per prendere ispirazione. Fu una scelta a favore dell’autonomia, ma anche la conseguenza di uno stato di necessità, dovuto alle ristrettezze dei primi anni del dopoguerra quando, dispersa o impoverita la vecchia clientela, la M. incontrò difficoltà a riavviare il lavoro e gli affari. Riunita la famiglia dopo il ritorno del marito, si stabilì in via Cerva, dove diede vita ai «giovedì di Germana Marucelli», frequentati da artisti, letterati, giornalisti. Convinta della «interdisciplinarietà tra moda e arte», riprese il filo di un’esperienza risalente alle avanguardie di inizio Novecento (praticata, tra gli altri, dal futurista F.T. Marinetti e dalla sarta Rosa Genoni) e, nel 1948, in collaborazione con il pittore e scenografo P. Zuffi, presentò una collezione ispirata al surrealismo; nel 1950, poi, fondò e finanziò il premio di poesia S. Babila che fu assegnato a S. Quasimodo e, per un’opera inedita, al giovane e ancora sconosciuto A. Zanzotto.
Nel 1948, intanto, era riuscita a rilanciare adeguatamente la sua attività grazie a I. Montanelli, il quale aveva suggerito a F. Marinotti, industriale tessile alla guida della Società nazionale industria applicazioni Viscosa (SNIA Viscosa), di avvalersi della M. come consulente di produzione e pubblicità. Fu grazie a un finanziamento di 25 milioni di lire di Marinotti che la M., nel 1949, rilevò la sartoria Ventura in corso Venezia 18, dove aprì atelier, laboratorio e il salotto del giovedì. Nel febbraio 1951 partecipò alla sfilata di villa Torrigiani a Firenze, organizzata da G.B. Giorgini, un uomo d’affari toscano in relazione con i buyers americani, per lanciare la moda italiana, meno cara e altrettanto ricca di creatività e fantasia di quella parigina. Nel decennio 1950-60 si affermò come una fra le maggiori creatrici italiane, partecipando a iniziative di spicco per la promozione dell’eleganza nazionale: dalle sfilate del Centro internazionale delle arti e del costume di palazzo Grassi a Venezia alle iniziative fiorentine di Giorgini. Sempre all’avanguardia, quando traslocò l’atelier al n. 35 di corso Venezia, affidò l’arredamento all’artista P. Scheggi, il quale, ben lontano dallo stile tradizionale del salotto, optò per spazi ampi, nei quali la luce era esaltata da numerosi specchi.
Soprattutto nel dopoguerra la M. collocò al centro della sua ispirazione le arti figurative – classiche e d’avanguardia –, come confermano i titoli prescelti per le diverse collezioni: nel 1954 la linea «fraticello» rimandava ai pittori toscani del Quattrocento e nel 1960 la linea «vescovi» riecheggiava lo stile dello scultore G. Manzù. Non per questo perse di vista il mercato, come è evidente dalla collezione «pannocchia» del 1957, destinata ad accontentare la generazione di giovani donne indipendenti e dinamiche, con abiti a sacco, tailleur con giacca a sacchetto, vestiti da sera corti, a tunica o blusanti. Prima al mondo, nel 1963 offrì al pubblico desideroso di trasgressione la collezione «scollo a tuffo», che in certo modo anticipava di alcuni mesi il topless lanciato dallo stilista tedesco-californiano Rudi Genreich. Nel 1965, sempre alla ricerca di nuove strade, lanciò la linea «optical» realizzata insieme all’artista cinetico G. Alviani. Nel 1967 propose i primi modelli «unisex» e nel 1968 presentò la linea «alluminio», caratterizzata da corazze e corsetti in metallo, a metà tra il gusto medievale e quello spaziale.
Nel gennaio 1972, a Firenze, sfilò la sua ultima collezione. Alla nascita del prêt-à-porter volle rimanere fedele al suo artigianato di lusso e preferì vestire una limitata ma affezionata clientela; aprì nella sartoria una scuola di cucito, anche questa ristretta alle nipoti e a poche amiche.
Negli ultimi anni di attività preferì restare un’artista solitaria, spesso isolata perché troppo audacemente all’avanguardia. Incurante delle gelosie e rivalità del mestiere, tenne rapporti con il mondo della creazione artistica piuttosto che con quello dell’industria e degli affari. Sfruttata dagli imitatori, non sottrasse mai il suo aiuto agli artisti, e soprattutto ai giovani.
La M. morì a Milano il 23 febbr. 1983.
Fonti e Bibl.: I. Brin, Dodici mesi di paura per i grandi sarti francesi, in L’anno 1951, Milano-Roma 1952, p. 176; F. Pivano, Le favole del ferro da stiro, Milano 1964, p. 12; I. Brin, È suonata l’ora della op-art, in Corriere d’informazione, 19-20 genn. 1965; G. Marucelli, Le presenze, pref. di G. Dorfles, Milano 1974; G. Butazzi, Moda: arte, storia, società, Milano 1981, p. 96; A. Fiorentini Capitani, Moda italiana anni Cinquanta e Sessanta, Firenze 1991, p. 10; V. Steele, Italian fashion and America. The Italian metamorphosis 1943-1968 (catal., New York… 1994-95), Roma 1994, p. 497; G. Vergani, Maria Pezzi, una vita dentro la moda, Milano 1998, pp. 39 s., 53; V. Dolci, G. M., tesi di laurea, Libera Università di lingue e comunicazione IULM (Milano), a.a. 2001-02; E. Merlo, Moda italiana: storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Venezia 2003, ad ind.; D. Davanzo Poli, I sarti, in Storia d’Italia (Einaudi), Annali 19, La moda, a cura di C.M. Belfanti - F. Giusberti, Torino 2003, pp. 559 s.; E. Morini, La semplice, meravigliosa moda italiana, in Anni Cinquanta, la nascita della creatività italiana, Milano 2005, p. 271. Si vedano inoltre: N. Villa, Le regine della moda, Milano 1985, ad ind.; Diz. biogr. delle donne lombarde, a cura di R. Farina, Milano 1995, s.v.; Diz. della moda, a cura di G. Vergani, Milano 2003, p. 492.