GERLANNO
Non conosciamo il luogo e la data di nascita di G.; di lui sappiamo quanto ci riferiscono i Miracula sancti Columbani (opera di un anonimo monaco di Bobbio, indirizzata al vescovo di Tortona, Giseprando [944-963/967], per contrastare le pretese da quest'ultimo avanzate sul patrimonio dell'abbazia): era originario della Borgogna e monaco ("sapientissimus" e "nobilissimus", come lo definiscono i Miracula), e giunse in Italia dalla Borgogna al seguito della regina Alda, seconda moglie di Ugo di Provenza, quando questi, nel 926, divenne re d'Italia.
L'origine borgognona di G. sembra assodata. Il nome G., infatti, si incontra raramente nelle fonti italiane, mentre nell'890 fu di un conte di Vaux ed è spesso presente nei documenti di Cluny. G. avrebbe dunque fatto parte di quel nutrito manipolo di transalpini da cui Ugo trasse numerosi suoi collaboratori, assegnando loro cariche laiche ed ecclesiastiche: gli stessi su cui autori italiani coevi, per esempio Liutprando (Antapodosis, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Script., III, Hannoverae 1839, II, 60; III, 45; V, 6), hanno dato un giudizio negativo.
Agli inizi del 927 G. venne nominato cancelliere del "Regnum Italiae" succedendo nella carica a un Sigefredo (anch'egli originario del Regno di Arles) che l'aveva retta dal 926, come si evince dalle formule di corroboratio dei praecepta di Ugo di Provenza. Nella sua attività G. appare coadiuvato da un altro provenzale, il notaio Pietro, che sembra aver avuto la delega della recognitio degli atti sovrani emanati fuori di Pavia; per quelli emanati nella capitale, invece, tale compito era svolto da Gerlanno. Questa ripartizione dei ruoli riflette l'importanza politica della Cancelleria durante il regno di Ugo. Non contento di insediare in quel posto chiave uomini di fiducia, che condividevano con lui l'avventura italiana e potevano controllare giorno per giorno l'andamento di un'amministrazione rimasta, almeno nominalmente, nelle mani di un esponente della passata classe dirigente (l'arcicancelliere Beato, che aveva iniziato la sua carriera come notaio sotto Berengario I), Ugo, potendo disporre di un proprio rappresentante permanente nella capitale, riusciva a rafforzare la propria autorità sul Regno, che non era ancora universalmente riconosciuta, come testimonia la rivolta guidata a Pavia, proprio nel 927, dai giudici di palazzo Gezone-Everardo e Walperto.
Tra il 12 maggio e il 12 nov. 928 G. fu promosso alla guida della Cancelleria, con il titolo di arcicancelliere, succedendo a Beato. Conservò tale incarico fino al giugno del 936. Contestualmente alla sua nomina ad arcicancelliere, divenne "rettore" dell'abbazia di Bobbio, succedendo a Silverado (917-926/928). Il titolo e le funzioni di abate o di vescovo si accompagnavano, infatti, alla carica di arcicancelliere, costituendone la rimunerazione. Tra il 928 e il 936, egli viene pertanto invariabilmente indicato come abbas et archicancellarius sia nei diplomi di Ugo, sia, successivamente, in quelli di Ugo e di Lotario.
Il monastero di Bobbio, pur godendo di una posizione economica forte (si fondava su un patrimonio situato principalmente nella zona orientale della diocesi di Piacenza, ma comprendeva anche possedimenti in Liguria, fino a Genova, e in direzione dell'Adriatico, passando per il lago di Garda, fino a Comacchio), era, tuttavia, fragile di fronte agli appetiti dei potentati locali e al progressivo consolidarsi dei diritti di quanti avevano assunto la gestione delle terre di S. Colombano e in particolare dei beni della mensa abbaziale, cui i re d'Italia avevano attinto, fin dal sec. IX, per dotare i propri vassalli di benefici fondiari. Ulteriori motivi di debolezza gli derivavano dalla circostanza che i vescovi di Piacenza, particolarmente potenti, intendevano far valere il fatto che il monastero di Bobbio, sito nel territorio di una "parrocchia" della loro diocesi, dipendeva dalla loro autorità per quanto riguardava la consacrazione degli abati, la pastorale e le decime. Ciò era stato confermato nell'891 dal papa Formoso, anche se contro questo provvedimento i monaci di Bobbio avevano in seguito ottenuto dagli imperatori Guido, Lamberto e Berengario I la conferma dei documenti che riconoscevano la loro esenzione dalla giurisdizione vescovile e la loro diretta dipendenza dalla Sede apostolica. Tuttavia, tra il 914 e il 917, il papa Giovanni X aveva rimproverato l'abate Teodelassio per il suo rifiuto a sottomettersi al vescovo. Fattori esterni (quali, per esempio, l'incursione ungara del 924 e gli attacchi che sarebbero stati portati da bande saracene contro Tortona agli inizi del quarto decennio del secolo) acuirono queste tensioni.
Appena assunto il governo abbaziale, G. dovette, a sua volta, fronteggiare le usurpazioni compiute ai danni del patrimonio del monastero da "principes" (per usare il termine generico che ricorre nei Miracula), cioè di personaggi influenti, tutti più o meno legati alla cerchia di Ugo di Provenza. L'anonimo fa specificamente i nomi di un certo Gandolfo, del vescovo di Piacenza Guido, del fratello di questo, il conte di Piacenza Raginerio, e di un certo Alineo. Gandolfo, che (come apprendiamo da altre fonti) era vassallo del re, si era impadronito della curtis di Borgoratto Marmorola (ma sappiamo che ben presto rinunziò alle sue pretese). Il vescovo Guido era stato consiliarius prima di Berengario I, quindi di Rodolfo. Questa carica e la lunga durata del suo episcopato (dal 904 al 940) gli assicurarono una certa impunità. Il conte Raginerio, con ogni probabilità, doveva al fratello la sua carica, ottenuta non prima del 922. Alineo era vassallo del conte Sansone, un seguace di re Ugo, che aveva domato la rivolta di palazzo del 927 e ne era stato ricompensato con la carica di comes palatii. I molteplici interventi di G. presso il re per ottenere giustizia riguardo agli abusi subiti dal suo monastero rimasero lettera morta in quanto Ugo, fragile politicamente, temeva le reazioni dei nemici di Bobbio. In questa situazione G. si indusse allora a chiedere al re il permesso di far trasportare e di esporre a Pavia, in occasione di un'assemblea dei grandi del Regno, il corpo di s. Colombano, nella speranza che, alla sua vista, i responsabili degli attacchi contro Bobbio si ravvedessero. Il sovrano concesse il permesso.
La data della traslazione non è riportata dai Miracula. Il mese e il giorno (partenza da Bobbio un 17 luglio, rientro a Pavia il 30 dello stesso mese) si evincono dai calendari liturgici del X secolo, come anche quelli relativi al ritorno a Bobbio (Tosi, p. 137). Quanto all'anno resta il dubbio tra il 928 e il 929, poiché non sappiamo con precisione quando G. divenne abate di Bobbio, se a maggio o a novembre 928. Il 930 è escluso in quanto allora Raginerio non era più conte di Piacenza e Ugo, quell'estate, non sembra aver soggiornato a Pavia. Il 929 è la data più probabile in quanto il re, da metà marzo fino alla fine di agosto, rilasciò parecchi diplomi dal palazzo di Pavia.
Il 16 luglio del 928 o del 929 G. fece aprire la tomba del santo nella cripta di Bobbio. L'indomani, all'"ora terza", in presenza dei confratelli e degli ecclesiastici delle parrocchie circostanti, le reliquie furono poste in un'urna di legno costruita per l'occasione (l'autore dei Miracula sostiene di aver assistito alla sua realizzazione, senza conoscere lo scopo cui era destinata) e i monaci si misero in cammino. Il terzo giorno di viaggio - il 19 luglio, una domenica -, dopo una notte trascorsa a Sarturano, possedimento di Bobbio, e un'altra passata all'addiaccio, il corteo, preceduto dalla coppa che il santo aveva intagliato in una noce di cocco (la tradizione vuole sia quella ancora oggi conservata nel museo dell'abbazia di Bobbio) e dalla bisaccia in cui aveva tenuto il Vangelo, arrivò alle porte di Pavia. A San Pietro in Verzolo, dinnanzi all'urna del santo, quattro donne furono liberate dalla possessione del demonio. Su richiesta del re, che si riteneva indegno di riceverlo a palazzo senza essere andato ad accoglierlo, il corpo di s. Colombano fu posto nella chiesa di S. Michele Maggiore, che fungeva, all'epoca, da cappella palatina, malgrado la sua relativa lontananza dal centro del potere: vi aveva avuto luogo, infatti, l'incoronazione di Berengario I, di Luigi III e dello stesso Ugo. Si ebbero allora le visite, i miracoli e i doni in rendimento di grazia. Il giovanissimo Lotario II, sofferente di febbri, recuperò la salute dopo essersi assopito sotto l'urna del santo e dopo aver bevuto alla sua coppa; Ugo e Alda, riconoscenti, offrirono ciascuno un pallium e la regina promise di intervenire in favore dei monaci presso il suo sposo e gli optimates.
Dopo alcuni giorni G., nel tentativo di recuperare i beni di Bobbio, inviò due suoi monaci presso l'arcivescovo di Milano, Lamberto, per chiedergli aiuto. La risposta del presule (cui si può supporre che G. si fosse rivolto in considerazione della sua autorità sulla diocesi di Piacenza), per l'autore dei Miracula implicitamente schierato nel "campo dei vescovi", fu dilatoria e interessata: nel caso in cui il tentativo di G. fosse fallito, il metropolita si impegnava, in qualche modo, a riscattare il corpo di s. Colombano, di cui sarebbe così divenuto depositario, fino a coprire il valore delle terre sottratte.
Negli ultimi giorni di luglio del 929, Ugo indisse una speciale assemblea a palazzo, nell'aularegia, cui furono convocati, fra gli altri, i principi incriminati. Tale riunione viene definita dalla fonte "colloquium" e in essa si può ravvisare un'udienza di giustizia. Il re e i suoi optimates bevvero alla coppa di s. Colombano. L'ordalia fu un successo, in quanto i colpevoli non ebbero il coraggio di sottomettervisi: il vescovo Guido e suo fratello Raginerio rifiutarono di bere e, nella notte, presero la fuga. Il conte, nel corso della cavalcata, fu ferito e, circostanza non riportata nel testo, morì poco tempo dopo: il già ricordato vassallo Gandolfo, infatti, appare testimoniato come conte di Piacenza dal luglio dell'anno seguente. Il miles Alineo, che aveva proclamato a gran voce che le reliquie, da lui definite "ossa caballina vel asinina", non sarebbero riuscite a piegarlo, cadde in preda a delirio. Dovette la salvezza solo al fatto che confessò davanti a tutti il suo peccato; si fece mettere al collo una corda che attaccò al piede dell'urna di s. Colombano: una penitenza pubblica, dunque, arricchita da un rituale di umiliazione e da un gesto di autodedizione al santo. Tutte queste manifestazioni ebbero ragione della resistenza degli altri principes, molti dei quali restituirono a Bobbio le terre contestate, ponendo i bastoni dell'investitura nella bisaccia del santo. Riconosciuti in tal modo i diritti del monastero, il re fece dare pubblica lettura dei privilegi pontifici e dei diplomi regi e imperiali in favore di Bobbio, che egli stesso confermò con un diploma a noi non pervenuto.
Avendo così ottenuto soddisfazione, G. e i suoi monaci, con il corpo del santo, rientrarono a Bobbio, dove giunsero il 30 luglio 929, dopo aver fatto tappa, significativamente, a "Barbada" (presso Pavia), la curtis che avevano recuperato contro il marchese Radaldo nel 915, e a Borgoratto Mormorola, la proprietà che era stata loro restituita da Gandolfo poco tempo prima.
È proprio a proposito della lettura dei documenti forniti da G. che i Miracula svelano il loro vero obiettivo. La rievocazione delle bolle pontificie (di Onorio I, di Teodoro I, di Martino, di Sergio, di Gregorio, di Zaccaria e di altri non nominati) è il pretesto per inserire una lunga citazione che stabilisce l'autonomia di Bobbio, posta sub Apostolica Sede, nei confronti dei vescovi "vicini" (leggi Piacenza e Tortona), particolarmente in materia di decime e di amministrazione dei sacramenti. Il passaggio, seguito dall'apostrofe a un vescovo (probabilmente Giseprando di Tortona), nella quale lo mette in guardia contro i pericoli legati al suo atteggiamento nei confronti del monastero, è ripreso, secondo Bresslau, da un atto di conferma, perduto, del privilegio di Teodoro I (quest'ultimo conosciuto attraverso una copia tarda) che l'editore dei Miracula ritiene non anteriore al IX secolo. I dubbi circa la sua autenticità, espressi all'inizio del XX secolo, sembrerebbero oggi superati, come ha mostrato recentemente di ritenere l'Anton. D'altro canto non possiamo dimenticare che G., il quale si era formato nella Cancelleria e aveva libero accesso agli archivi del palazzo, non avrebbe avuto difficoltà a manipolare la documentazione, o quanto meno a inserire qualche interpolazione nelle copie fatte per costituire il dossier degli atti che stabilivano i diritti dell'abbazia contro quelli del vescovo di Piacenza. Il Piazza ha anche sottolineato come il diploma di Rodoaldo (652), che confermava la libertà di Bobbio "qui sub apostolorum principis Beati Petri sede consistit", ci sia giunto in una copia datata "intorno al 900" da C. Brühl (cfr. Piazza), il quale comunque ammette "un'ampia rielaborazione" del testo. La formula, secondo cui gli imperatori danno conferma dei privilegi pontifici che stabilivano l'autonomia di Bobbio dall'autorità vescovile, compare solo in un diploma di Berengario I dell'888, testo tramandato, come tutti gli altri che a esso si riferiscono (Guido nell'893, Lamberto nell'896, Berengario di nuovo nel 903), in una copia qualificata, in mancanza di meglio, "contemporanea". Nel contempo, non si è forse dato sufficiente rilievo al fatto che la lettera di rimprovero indirizzata da Giovanni X all'abate Teodelassio nel 914-917 era conservata presso un suo avversario, e cioè nella cattedrale di Piacenza, anche lì come "copia del X secolo". Tutto il dossier dovrebbe essere preso nuovamente in considerazione tenendo conto del conflitto esistente tra G. e il vescovo Guido di Piacenza.
Dopo questi eventi, nulla ci riferiscono le fonti su G., che dovette morire prima dell'avvento del suo successore, come abate di Bobbio, Liutefredo, nel 936.
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