Gerione
Mostro demoniaco che D. assume dalla mitologia classica come Caronte, Minosse, Cerbero e altri. Figlio di Crisaore (figlio di Medusa) e della ninfa oceanina Calliroe, appare nel mito di Ercole quale gigante con tre corpi, re di tre isole iberiche, che l'eroe uccide per impossessarsi dei buoi rossi che G. nutriva di carne umana (Euripide Eracle 423; Apollodoro II 5 10; Virg. Aen. VIII 202-204).
Elemento costante nelle varianti del mito è la triplicità delle forme o del corpo, la quale sarebbe da riferire alle tre isole su cui G. imperava, o all'eccezionale concordia di tre fratelli dallo stesso nome. Non è accertato se il mito sia stato originario del mondo sotterraneo, o se a questo si sia presto collegato: G. appare comunque vicino a Persefone, presso il trono di Plutone, nella pittura etrusca della grotta dell'Orco a Tarquinia; Orazio lo canta prigioniero di Plutone (Odi II XIV 7-8); Virgilio può collocarlo, senza farne il nome, tra i mostri custodi dell'Averno, come " forma tricorporis umbrae " (VI 289).
D. e Virgilio incontrano G. nel basso Inferno, sul confine del cerchio dei violenti, e se ne servono per discendere a volo nell'alto burrato e accedere ai cerchi estremi della frode. Ma della tradizione mitologica sopravvivono, nella fantasia escatologico-cristiana di D., i soli motivi della tricorporeità e della sede infernale, come dati esterni di un personaggio demoniaco emblematico e complicato e nello stesso tempo misterioso e impressionante: ha faccia d'uom giusto, corpo di serpente, coda di scorpione; ha due branche pelose, dosso, petto, coste dipinte di nodi e rotelle. Pare certo che nella trasposizione siano intervenute influenze scritturali, per la coincidenza con le cavallette di Apoc. 9, 7-10, e figurative, per gli echi della zoologia figurale del Medioevo (cfr. A. Venturi, D. e Giotto, in " Nuova Antologia " CLXIX [1900]). È evidente, oltre tutto, l'impegno del poeta nei confronti dell'incontro e del personaggio, poiché vi spende tante terzine (If XVI 94-136, XVII 1-27 e 79-136) quante di solito occorrono per un intero canto. Ed è pertanto necessario evitare che aspetti e motivi particolari, questa volta numerosi e vivaci, distraendo dal nesso narrativo, disorientino nella problematica delle interpretazioni e delle prevenzioni pro e contro l'allegorismo una pagina potente e suggestiva della poesia dell'Inferno. L'attenzione all'intero episodio e alla sua collocazione nel ritmo della narrazione consente di cogliere nella sua integrità e verità poetica la figura di G., nata quasi tutta nell'invenzione stessa del mondo infernale dantesco e avente in quella la propria logica e la propria poesia.
L'apparizione di G. è preceduta da un lungo prologo, nel quale appare dominante il gioco di vaghe e complementari suggestioni, a cominciare da quel fiume c'ha proprio cammino / prima dal Monte Viso, ambiguo nel doppio nome e nel contrasto tra la definizione di ‛ acqua queta ' e il rimbombare in una possente cascata; cui segue la corda (v.), improvvisamente scoperta indosso al pellegrino e proiettata nel tessuto delle significazioni seconde per il tardivo rapporto con la lonza e la mimica rituale dello scioglierla dal corpo, porgerla aggroppata e ravvolta, lanciarla giuso in quell'alto burrato. Si aggiungano il silenzio di Virgilio, che induce il discepolo a vaghe congetture, e il predicare quella cautela con gl'ingegni sagaci, la quale se non è quasi falsità è certo una limitazione della spontaneità. Questo il preludio. Nell'imminenza dell'arrivo del personaggio, la parola di Virgilio è insolitamente vaga; la parola del narratore ritorna sulle cautele e le ambiguità, aggravate dal gratuito giuramento.
Il lancio della corda provoca, per una misteriosa corrispondenza, la salita di G.; ma la terzina che dovrebbe farne la presentazione accentua la preordinata atmosfera di mistero, e nella ancor vaga figura in movimento fa piuttosto vivere il paesaggio internale nella minacciosa sua natura (i ' vidi per quell'aere grosso e scuro / venir notando una figura in suso, / maravigliosa ad ogne cor sicuro); sì che la figura del mostro è già inscindibile dal mondo della dannazione (anche il paragone del marinaio, piuttosto che avvicinare alle misure umane l'atto dell'ascesa, ne vivifica un'arida meccanicità: che 'n sù si stende e da piè si rattrappa) e l'attesa dell'incontro definitivo, lungi dall'essere di ordine spettacolare, è tutta morale, in armonia con l'avventura del protagonista e con il mondo del male in cui essa si svolge.
L'esordio del canto seguente con la battuta di Virgilio " Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti e rompe i muri e l'armi! / Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza! " (XVII 1-3) non comporta, com'è parso a molti, una deviazione di mero, riprovevole o meno, allegorismo; bensì completa l'identificarsi dell'Inferno nella sua creatura, ovvero sigilla la natura figurale del mostro in cui si congiungono realtà fisica e realtà metafisica. La parola di Virgilio, infatti, si rivolge alla condizione psicologica del discepolo, e la istrada, proprio come aveva fatto già con la lupa (If I 94-111), verso il misterioso rapporto delle due realtà e la multiforme comunicabilità tra mondo terreno e mondo infernale. Non è esatto quindi asserire che quelle prerogative essenziali, la coda aguzza, la facoltà di superare ogni ostacolo, la presenza universale del suo fetore, disorientino la linea narrativa in una direzione tutta allegorica. Che esse siano proprie del mostro escatologico e non soltanto della frode (imagine, come in altre adozioni, ha valore congiuntivo e non disgiuntivo tra l'essere e l'esprimere) può riuscir chiaro se si precisi che l'invenzione dantesca non pone interruzione o salto - come può apparire nella partizione retorica dei ‛ sensi ' - tra lettera e allegoria: sì che G., come lupa-avarizia, non è distinguibile dalla frode per un gioco meccanico di sensi giustapposti; e pertanto esso è nell'Inferno e opera nel mondo (in quanto l'essere nell'Inferno è una cosa sola con l'operare nel mondo), quale forza demoniaca che nella piazza del mondo attua la sua avversione a Dio. Se G. non uscisse dall'Inferno sarebbe - nonostante tutte le suggestioni che dalle sue forme si son viste sprigionarsi - un'insulsa coreografia o una macchina in disarmo; e lo stesso Inferno si ridurrebbe a un museo delle cere, se gli scambi con la terra dei vivi, in andata e ritorno, si pietrificassero al di fuori della storia umana.
È questo che Virgilio in sintesi precisa a D.; e che sia Virgilio a parlare non si dovrebbe dimenticare, prima di attribuire a lui personaggio l'assurdo salto nell'allegoria (" Virgilio non si riferisce più alla persona di Gerione... ma al peccato che egli simboleggia ", Porena). Si noti poi che la didascalia posposta (si cominciò lo mio duca a parlarmi) non pare fatta per avallare la diffusa interpretazione della terzina come di uno " squillo di tromba " o di una " echeggiante esclamazione " che servirebbe solo a capovolgere nella spettacolarità l'atmosfera dell'incontro così accortamente indirizzata verso il mistero infernale e il suo riverbero nella sensibilità e nella coscienza morale di D. pellegrino.
Quando finalmente la didascalia narrativa perviene alla descrizione particolareggiata del mostro, con l'ampio indugio comparativo con i drappi orientali, le tele di Aracne, i burchi e il bivero, le connotazioni che individuano in dati esterni la malizia e le sue arti non sono riferibili al proposito allegorico sibbene a quella realtà (magica o soprannaturale) di G. che si è affermata nelle indicazioni che si son viste e che ora addirittura si conferma nei particolari della faccia, del fusto e della coda, e nella forza realistica dei riferimenti ad aspetti concreti e suggestivi della vita quotidiana e della cultura. È pertanto più giusto parlare qui di ‛ descrizione ' che non di ‛ costruzione ' del mostro; il Getto pensa a un " piacere di allegorista e letizia di creatore di simboli, di tecnico di una difficile arte pedagogica e pittorica "; Si tratta indubbiamente di sentimenti che vivono nel poeta in questa come in tante altre occasioni della sua creazione: non possiamo ignorarli; ma non li ricorderemmo in rapporto a un sopravvento allegoristico, se non collegandoli a quel giuramento sulla verità della visione, in cui si esprime dirittamente il " sentimento figurale " dell'uomo medievale, o se si vuole della " visio in somniis " (si vedano le implicazioni psicanalitiche recentemente proposte) o della fantasia creatrice (Grabher).
La fiera pessima non vive, in conclusione, la vita fittizia della macchina allegorica, né quella unicamente corporea del mostro traghettatore: gli elementi che più condizionano e caratterizzano il suo esistere sono la misteriosità e il rapporto con i due pellegrini. Quanto alla misteriosità - come atmosfera che circonda il mostro e come comportamento di questo -, diremmo che essa non è tanto da collegare alle subdole macchinazioni della frode, quanto alla natura misteriosa della frode stessa, che è assurdo sovvertimento della facoltà intellettuale, dono precipuo del creatore all'umana creatura che si fa distruttore dei vincoli d'amore su cui poggia l'essenza della stessa creazione: in questo senso è forse felice l'immagine del Lanza di " sfinge semovente ". Alla " fremente vitalità " che, come nota il Getto, agita e individua Cerbero, doveva far riscontro in G. un muto e quasi immobile gioco di apparenze, un'ambiguità e misteriosità di atteggiamenti, l'uno e gli altri, tuttavia, non come esterne prescrizioni di un meccanismo allegorico, ma come naturali elementi della sua ferinità infernale. G. è infatti un mostro che nel più complesso reparto della topografia infernale germoglia - se è consentita l'immagine vegetale nella dominante ferinità - dall'humus di una dannazione che non è solo offesa del divino (si pensi ai violenti testé lasciati e alla pioggia di fuoco che li martira) ma è perversione e oscuramento dell'umano: condizione tanto più tragica, volto tanto più misterioso del male, quanto più multiforme è la frode, ovvero quanto più è vasto e vario il campo in cui l'intelletto può celebrare le sue vittorie peccaminose.
Anche il cenno di Virgilio - e accennole che venisse a proda - immediatamente accolto dalla fiera - E quella... sen venne -, il colloquio a due nell'assenza di D. - mentre che torni, parlerò con questa - e il circostanziato ordine di partenza - " Gerïon, moviti omai: / le rote larghe, e lo scender sia poco; / pensa la nova soma che tu hai ", XVII 97-99 - rappresentano un rapporto misterioso tra i due, che imprime un altro geroglifico sulla figura demoniaca. Ma questi sono motivi che confermano come la realtà di G., secondo la necessità di ogni autentica rappresentazione, si completi nel rapporto con gli altri personaggi: e propriamente, oltre che con la decisa padronanza di Virgilio, che costantemente domina le forze del mostro, con lo stato di particolare tensione di D., dalla meraviglia iniziale al terrore di quel contatto diretto tra il proprio viaggio e la nefanda creatura; contatto che si ripeterà con Anteo (XXXI 130 ss.) e Lucifero (XXXIV 73 ss.), ma qui ha il suo tempo più drammatico - sie forte e ardito. / Omai si scende per sì fatte scale, XVII 81-82 -. Immobile e muta per sé, in un silenzio di ogni espressione che si direbbe tutto rappresentativo della bestialità e dell'irrecuperabilità della malizia, la vita di G. confluisce in quel duplice rapporto: il mostro è minaccioso per D., servo per Virgilio; e all'esaurirsi di un tale rapporto la fuga ne è il sigillo, di sconfitta per un verso, e per l'altro di ritorno alla misteriosa rocca del male.
Qui è forse opportuno notare quanto l'esegesi tradizionale abbia turbato la realtà del singolare personaggio, scegliendo tra le numerose indicazioni presenti nel paragone del falcone (vv. 127-132) l'immagine di disdegnoso e fello come direttamente intesa a significare la psicologia finale del mostro. In effetti il paragone è incentrato sulla proposizione principale discende lasso... per cento rote, la quale riprende la descrizione del volo interrotta ai vv. 115-116, e la conclude con l'ausilio della coordinata e da lunge si pone / dal suo maestro, disdegnoso e fello. Ognuno vede che non sono affatto questi ultimi due aggettivi l'unico aggancio del successivo così introducente al secondo termine di paragone: ne puose al fondo, infatti, ripete in sintesi l'atto del discendere e quello del ‛ porsi '; senza dire che i due aggettivi sono legati a un rapporto estraneo al paragone, il calare del rapace contro la volontà del suo domatore, che è l'opposto del caso di G. che scende proprio secondo la volontà dell'attuale domatore Virgilio. Con ciò non si vuole escludere che un riverbero della psicologia del rapace tenda a passare sulla psicologia del mostro; ma esso è comunque secondario, in quanto il misterioso personaggio, così ben definito nel mutismo totale, dall'ascesa come figura meravigliosa allo scatto finale fuori della scena, può fare a meno, come di una battuta tardiva e forse banale, di quell'ironizzante riverbero mimico sulla possanza della propria mostruosità infernale.
Si consideri d'altronde che l'eccesso - se non l'arbitrio - dell'utilizzazione dei due aggettivi poggia sulla premessa congetturale della mala volontà del demonio ingannato; e se soddisfa il gusto di cogliere all'esterno un segno della psicologia del mostro, turba la coerenza del suo essere poetico, realizzato appunto nell'assenza di ogni espressione contingente (" da questo impenetrabile silenzio spira il maleficio della frode: non come sovrasenso, ma come l'aura stessa di quella vita che s'incarna nella figura e negli atti di Gerione ", Grabher).
Chi voglia andar oltre il generico concetto di frode, al quale comunque si richiamano i più espliciti motivi del testo poetico, può disporre di un ampio orizzonte d'interpretazione allegorica, che qui ovviamente non si può percorrere, e che va dalle più remote e minute indicazioni (nel triplice corpo Pietro riconosce i tre modi di frodare: con parole, come adulatori, mezzani, seminatori di discordie; con cose, come falsificatori, simoniaci, ipocriti; con opere, come barattieri, ladri, traditori; l'Ottimo vi ritrova i tre fratelli, di cui l'uno lusingava, l'altro rapiva, l'altro feriva) alle approfondite indagini dei moderni sui valori dell'invidia (Pascoli) e della malizia (Mantovani) e alle identificazioni con Satana tentatore di Eva (Proto) o con l'Anticristo (Pasquazi). Merita di essere ricordata, a illuminare il rapporto G.-Virgilio, la tesi del Gelli, secondo la quale G. rappresenta la ragione che, con operazione secondaria e accidentale, conosce il male; sotto questo aspetto la ragione " si può ancor chiamare in certo modo fraude, cercando ella di conoscere il falso per fuggirlo, e non per volerlo, come mostra di fare chi cerca una cosa " (p. 139). Siffatta ragione-frode è dominata da Virgilio che rappresenta la ragione nell'operazione sua propria di conoscere il bene e la verità.
Bibl. - F. Lanci, Della forma di G. e di molti particolari ad esso demone attinenti, Roma 1858; G.B. Gelli, Letture edite e inedite sopra la D.C., II, Firenze 1887; F. Cipolla, Il G. di D.; in " Atti R.Ist. Veneto " VI (1894-1895); G. Pascoli, Minerva Oscura, Livorno 1898; ID., Intorno la costruzione morale della D.C., in " Vita Italiana " III (1896) XXI; E. Proto, G., in " Giorn. d. " VIII (1900); F. Romani, Ombre e corpi, città di Castello 1901; V. Spinazzola, Il canto XVII dell'Inferno, Napoli 1903; B. Soldati, La coda di G., in " Giorn. stor. " XLI (1903) 84 ss.; D. Mantovani, Canto XVII, in Lect. Genovese II, Firenze 1906; A.R. Chisholm, The prototype of Dante's Geryon, in " Modern Language Review " XXIV 4 (1929) 415-454; M. Porena, La mia lectura Dantis, Napoli 1932; C. Grabher, Mostri e simboli nell'Inferno dantesco, in " Annali Facoltà Lettere Filosofia Magistero. Università di Cagliari " XXI (1953) 11; G. Getto, Il canto XVII dell'Inferno, in Lett. dant. 315-329; G. Cambon, Examples of Movement in the D.C., in " Italica " XL 2 (1963) 108-131; S. Pasquazi, All'eterno dal tempo, Firenze 1966; F. Lanza, Il canto XVII dell'Inferno, in Nuove Lett. II 117-135; F. Salsano, La coda di Minosse e altri saggi danteschi, Milano 1968; Lectura Dantis Mystica. Il poema sacro alla luce delle conquiste psicologiche odierne, Firenze 1969, passim.