Alighieri, Geri
Figlio di Bello di Alighiero I, primo cugino del padre di D., noto comunemente col nome di G. del Bello. È il primo membro della propria famiglia incontrato da D. nel suo viaggio ultraterreno (If XXIX 13-39), ma in questo caso non c'è contatto diretto tra il dannato e il poeta: D. si rende conto della presenza del consanguineo quando ormai è in cammino verso la decima bolgia, e Virgilio lo trattiene dal soffermarsi osservando: lo tempo è poco omai che n'è concesso. Per quanto l'episodio si risolva in poche parole scambiate fra D. e la sua guida, la figura di G. si impone con un'alta carica di drammaticità, circonfusa com'è da un senso di solitudine, evocata al di fuori del canto che riguarda i suoi compagni di pena, mai nominata dal poeta, ma singolarmente viva nel suo minacciar forte col dito. I motivi fondamentali di questi versi parrebbero da trovarsi nel desiderio di D. di soffermarsi, nel senso di pacata pietà con cui interpreta il minaccioso accennare del congiunto, contrapposto ed equilibrato dal rigoroso razionalismo di Virgilio che soffoca sul nascere qualsiasi considerazione sentimentale che, nei confronti di un del mio sangue, faccia deviare il poeta dal senso di alta giustizia che lo deve guidare nel suo viaggio. Qui D. appare, ha osservato il Mariani, compreso di una profonda commozione che trasforma il vago desiderio di pianto, suscitato in lui dall'orribile visione della punizione dei peccatori del canto precedente, in un'amara angoscia che trova la sua espressione nella figura dello sventurato congiunto. A questa carica sentimentale concentrata in D. fa riscontro il razionalismo di Virgilio che, riferendosi a dati precisi, mette in evidenza l'urgenza di proseguire il viaggio " quasi dica in sì bassa materia come è a trattare di G. del Bello non è da spender tempo, però che di più alte e di più utili ci avea più copiosamente ", osserva l'Ottimo. Sempre a proposito dell'ammonimento dato da Virgilio a D., il Barbi, contestando un'ipotesi dello Scarano che vedeva in ciò un timore che D. accarezzasse propositi di vendetta, osserva innanzi tutto che il termine ‛ vendetta ' ai tempi del poeta stava a indicare giustizia e punizione anche divina (Pg XXXIII 36) e che il diritto di far giustizia era riconosciuto alla famiglia dell'offeso anche dalle leggi, per cui D. pur comprendendo dalle parole di Virgilio la giustezza della punizione di G., ammette il diritto che questi ha di aspettarsi la riparazione per opera di un suo consanguineo. Anche in altra sede lo stesso Barbi aveva messo in evidenza come nei confronti della vendetta l'atteggiamento di D. dovesse essere distaccato ma non assente; infatti, commentando l'ultimo sonetto della tenzone con Forese (Rime LXXVIII), contesta l'accusa di viltà sottintesa nell'espressione " la vendetta / che facesti di lui sì bella e netta ": nel caso specifico l'offesa non doveva esser tale da richiedere una grave riparazione, ma in casi più seri l'animo di D. non sarebbe venuto meno. Sempre a questo proposito il Sapegno, pur riconoscendo l'attualità della vendetta privata, e ammettendo una partecipazione sentimentale di D. al torto subito dal congiunto, vede in lui " una distaccata pietà che... non è mai indulgenza, e tanto meno rinunzia a un ideale etico superiore ". E proprio in questo contrasto fra le leggi divine e le consuetudini umane, in questa comprensione che non è partecipazione, trova la poetica dell'episodio, nel quale, a suo avviso, si esaurisce la parte veramente artistica del canto.
Alcuni elementi biografici e le chiose dei più antichi commentatori ci permettono di ricostruire la figura di G.: " persona piasevele e conversevole. Deletavase de cometere male tra le persone e savealo fare sí acuonzamente, che pochi se ne posseano guardare... Si se delettò anche in falsificar moneda, ma perché la casone della sua morte... fo per semenar gizania, sí 'l mette tra i altri in la nona bolzia; e perché l'A. seppe ch'el fo vizioso in lo falsario, si tratta de lui nel presente Cap.; azò che la iustisia per lo palese e per lo secreto sia piena e contentada " (Lana). Il suo nome si può presumere derivasse dal cognome, o più precisamente fosse un diminutivo di Alighiero, per quanto non si possa escludere fosse la forma abbreviata di Ruggeri. Il Bortolan, presupponendo l'identità di nome, richiamando biografi anteriori (Ubaldini, Gargani) e basandosi anche sulla tenzone precedentemente citata, ha cercato di dimostrare che G. fosse il padre di D., ma tale teoria fu con critica serrata e documentata smontata dal Barbi. G., dunque, fu figlio di Bello di Alighiero I e fratello di Lapo e Cione. Appartenente, come altri membri della casata, al partito guelfo, durante il predominio ghibellino della città fu in esilio ed ebbe danni alla sua casa nel popolo di S. Martino del Vescovo. Nel 1266, ultimo anno dell'esilio di G., in un memoriale bolognese è ricordato un " Zerio de Bello Alegheri da Firenze " che si può identificare col nostro. Proprio presumendo un'attività di G. a Bologna e identificando un " domino Adhygerio Adhygerii " prestatore nella stessa città nel 1270, con il padre di D., il Filippini costruisce una teoria che basandosi sulla società in affari di questi due personaggi, spiega il sonetto già citato, con il biasimo di Forese per il vile Alighiero che non ha vendicato il suo collaboratore ucciso per interessi comuni; ma questa teoria si fonda su troppi dati ipotetici, e quindi allo stato attuale delle conoscenze è senz'altro da escludere. Nell'agosto del 1276 troviamo G. in Firenze testimone, con il nipote Bellino di Lapo, al prestito di un'armatura. A quattro anni dopo risale il più significativo documento della sua biografia, che ci mostra come quest'uomo fosse facile alle risse e alle violenze. Fra il 2 e il 20 novembre 1280 infatti si svolse a Prato un processo nei confronti di G. e Cione Alighieri, contumaci, accusati, insieme ad altre persone, di aver aggredito e percosso un cittadino che conduceva un prigioniero, ferito quest'ultimo e quindi lasciato libero; in seguito a questo procedimento i due Alighieri furono condannati a pagare un'ammenda. Fra questo episodio e la morte di G. dové correre piccolo divario di tempo. Per quanto riguarda le circostanze che portarono alla sua uccisione e quindi alla conseguente vendetta, i commentatori danno versioni vaghe e discordanti. Iacopo mette come causa della morte di G. il seminar discordie, mentre Pietro, più esplicitamente: " occiso olim per quendam Brodarium de Sacchettis de Florentia, de quo, tempore quo A. haec scripsit, nondum facta erat vindicta de eo: sed postea nepotes dicti G. in eius ultionem quendam de dictis Sacchettis occiderunt ". Benvenuto, rifacendosi a entrambe queste versioni, sostiene che fu ucciso per aver seminato discordia fra i Sacchetti e precisa che la sua vendetta fu fatta dopo 30 anni; Landino aggiunge che fu compiuta da un figlio di Cione. Altri commentatori (Lana, Buti, Anonimo) indicano come uccisore un membro di una famiglia Geremei o Gerini, che però, osserva il Barbi, compare in Firenze in epoca molto più tarda. Questi inoltre mettono a causa dell'uccisione di G. un omicidio da lui precedentemente compiuto, ma ciò si può senz'altro contestare in quanto nel caso sarebbe lui stato ucciso per vendetta e quindi non avrebbe avuto a sua volta diritto a una riparazione. Stando a Benvenuto, la vendetta, poiché nel novembre del 1280 G. era ancora in vita, e supponendo che morisse subito dopo, avrebbe dovuto essere stata compiuta verso il 1310. Ciò concorda con l'esclusione dei figli di Cione dall'amnistia nota come " Riforma di mes. Baldo d'Aguglione " avvenuta nel settembre 1311; non essendo mai stati questi ghibellini e nemmeno della fazione dei Bianchi, si può pensare che essi venissero sbanditi e poi esclusi dall'amnistia per un fatto di sangue clamoroso come l'uccisione del Sacchetti. Qualora potessimo ridurre in 25 il lasso di tempo di 30 anni indicato da Benvenuto fra la morte di G. e la sua vendetta, potremmo vedere conseguenza del bando da Firenze la presenza di Lapo di Cione in Piacenza nell'ottobre del 1306, come stipendiario di questo comune. Per la persona del vendicatore si potrebbe pensare non al Lapo di cui sopra, ma a suo fratello Bambo (v.), ancora ignoto alla genealogia dantesca e agli studiosi di Dante. Si può ritenere che questi Alighieri, costretti a rimaner lontani da Firenze per effetto della loro esclusione dalla riforma di Baldo d'Aguglione, si rifugiassero a Bologna o nel contado bolognese, ove già si trovavano i loro consanguinei eredi di Bellino di Lapo (v.). E prova di ciò potrebbe essere il fatto che Simona del fu Cione degli Alighieri di Firenze viveva in Bologna nel 1330 nella Cappella di S. Michele dei Lambertazzi e vi era tassata per 25 libre.
In Firenze vissero, comunque, molte famiglie col nome " del Bello ", una delle quali ebbe dimora nel popolo di S. Firenze ed ebbe un certo rilievo nella vita economica della città, dalla metà del Duecento a tutto il secolo successivo; poiché in quella famiglia ricorse più volte il nome G., I. Sanesi attribuì erroneamente a G.A. i discendenti di G. del Bello di San Firenze.
Bibl. - I. Del Lungo, D. ne' tempi di D., Bologna 1888, 454; D. Bortolan, G. del Bello, Venezia 1894 (rec. di M. Barbi, in " Bull. " II [1895] 65-70); I. Sanesi, La discendenza di G. del Bello, Pistoia 1895 (rec. in " Bull. " III [1895] 29); ID., A proposito di G. del Bello, in " Arch. Stor. It. " s. V, XIX (1895) (rec. in " Bull. " IV [1896] 181-182); E.G. Parodi, in " Bull. " XXV (1918) 25; P. Rajna, Il casato di D., in " Studi d. " III (1921) 71; G. Livi, D. e Bologna, Bologna 1921, 141; R. Piattoli, G. e Cione del Bello a Prato nel 1280, in " Studi d. " XVI (1932) 126-136; ID., G. del Bello e Bellino di Lapo suo nipote (nuovi documenti), ibid. XVIII (1934) 99-104; ID., Codice 33, 35, 40, 45, 106, 148; Barbi-Maggini, Rime 361-366; N. Sapegno, Il c. XXIX dell'Inf., in Lett. dant. 567-573; G. Mariani, Il c. XXIX dell'Inf., in Lect. Scaligera I 1029-1038.