gerghi di mestiere
I gerghi di mestiere o di categoria condividono, storicamente, con quelli della malavita un nucleo lessicale comune (➔ gergo) cui va aggiunto, come specificità, un lessico tecnico proprio delle diverse attività lavorative, spesso desunto dai dialetti e non sempre distinguibile dal patrimonio lessicale di questi.
La prima differenziazione tra gergo dei mestieri e gergo della malavita risale a Bernardino Biondelli, che, negli Studii sulle lingue furbesche (1846: 13-16), osservava come i lavoratori, nativi per lo più delle valli alpine i cui abitanti professavano da secoli, o si tramandavano di padre in figlio, l’uno o l’altro mestiere, fossero soliti emigrare ogni anno in varie città italiane ed europee, e ben presto si associassero ai loro «colleghi d’arte», con i quali condividevano fatiche e guadagni, il modo di vestire e, appunto, la parlata. Diversamente, secondo Biondelli, il «gergo de’ malandrini» o «gergo furfantino» si rifà all’esercizio di attività illecite, e si tramanda quindi attraverso gruppi di delinquenti e vagabondi, storicamente associabili a quelli dei mendicanti o questuanti che fin dal medioevo popolavano nelle loro peregrinazioni ogni parte d’Europa: per cui «trovasi un solo gergo comune ai malandrini d’ogni singola nazione».
Il rapporto tra i due tipi di gergo e le reciproche influenze è una questione a lungo dibattuta dagli studiosi, che si sono dovuti misurare con la difficoltà di tracciare origine e percorsi della propagazione e individuare l’entità degli scambi tra gruppi di parlanti in situazione di migrazione permanente (a partire dall’età medievale, epoca a cui viene fatta risalire la nascita dei gerghi di mestiere).
Alcuni (fra cui Trumper 1996) sono propensi a ritenere che i gerghi siano codici rappresentativi del periodo in cui inizia il disfacimento del mondo medievale, nascono nuove classi sociali e nuove tecniche di lavoro (della metallurgia, della tessitura), spostando l’attenzione su quelli che oggi potremmo definire lessici settoriali di mestiere (➔ linguaggi settoriali); senza per ciò negare la componente di contatto con i linguaggi della malavita, altrettanto vitali e compresenti. Sul versante degli studi storico-antropologici è stata in effetti recuperata l’unitarietà di fondo che lega alcune categorie sociali, a partire sempre dal tardo medioevo, quando povertà e marginalità accomunano sia i frequentatori di strade e di piazze che vivono di attività illecite, sia i gruppi di lavoratori, soprattutto migranti, che si spostano di paese in paese con occupazioni saltuarie o stagionali. Le frequentazioni e i contatti reciproci avrebbero determinato il cosiddetto fondo gergale comune.
Solo in alcuni casi la presenza di elementi lessicali comuni ha tuttavia permesso di ricostruire l’interrelazione tra ondate di correnti migratorie. Ne dà un esempio Sabatini (1956), relativamente al gergo dei muratori di Pescocostanzo in Abruzzo, definito lingua lombardesca, ossia di provenienza settentrionale. L’origine settentrionale delle maestranze specializzate gerganti, corporazioni di muratori (analoghe corporazioni, con i loro gerghi, erano attive anche a Ferrara e a Bologna), sarebbe provata da alcune spie lessicali, oltre che da documenti che testimoniano nel XVI e XVII secolo l’insediamento di un nucleo di emigranti lombardi: per es., tarrunà «parlare», ossia «parlare in tarón’» (termine designante alcuni gerghi trentini, lombardi e piemontesi); o ngalmì «capire», collegabile a calmone, che non è soltanto termine storico, ma è usato anche per individuare alcune parlate gergali lombarde e trentine.
Un’altra corrente migratoria problematica è stata supposta per spiegare le concordanze tra il gergo dei calderai di Isili in Sardegna, di Tramonti in Friuli, di Monsampolo nelle Marche e di Dipignano nel Cosentino. Fu infatti notata (da Pellis 1934 e Cortelazzo 1977) una sorprendente affinità linguistica tra tali diversi gruppi, geograficamente molto lontani, a partire dalla stessa designazione di mestiere o della parlata che a Isili è detta arbaresca o sa rromanisca, a Monsampolo rəvarèsca, mentre arvàr o rəvara è il «calderaio», corrispondente all’erbàru di Dipignano (propriamente il «compagno», cioè colui che appartiene allo stesso gruppo) e all’arvâr di Tramonti: queste voci sono tutte accostabili ad arbër «albanese» e arbërìshte «lingua albanese d’Italia». A questi bisognerà aggiungere l’arivarésco, il gergo di mestiere dei calderai di Vico Pancellorum sull’Appennino lucchese.
Sulle relazioni interne a questa grande area gergale di categoria sono state fatte varie ipotesi, tra le quali ha trovato maggior credito la ricostruzione di un percorso linguistico, supposto da Cortelazzo (1977), per il quale il centro di irradiazione del lessico dei calderai sarebbe da individuare in Dipignano nel Cosentino, dove la parlata arbëreshe degli albanesi d’Italia sarebbe all’origine della presenza di forme analoghe in varietà dell’Italia centrale, della Sardegna, del Friuli. Il problema che rimane ancora insoluto è se il flusso migratorio parta dagli stessi gerganti cosentini o se la propagazione sia avvenuta attraverso la mediazione di gruppi di zingari, che esercitavano il mestiere di calderai itineranti in diversi paesi (Kalderaša).
Tra i mestieri più rappresentati nelle parlate gergali, concentrati soprattutto nel Nord, in area abruzzese-marchigiana e nel cosentino, ci sono i calderai (detti anche magnani o stagnini), i ramai, gli arrotini, i seggiolai, gli spazzacamini, i muratori, gli ombrellai, i ciabattini, i bottai, i cordai, i venditori ambulanti, i merciai, i posteggiatori, le residue attività della ‘piazza’ e della vendita con imbonimento, i pastori.
Parole o espressioni di ambito gergale sono entrate nelle varietà dell’italiano: posteggiare era termine dei musicisti girovaghi napoletani che dovevano trovare un posto dove esibirsi; gonzo «sciocco, credulone» è entrato anche nel linguaggio giornalistico americano, per indicare uno stile che mischia fatti e finzione: un articolo gonzo; verbi polisemici come sgamare «accorgersi», o cuccare, quest’ultimo già presente in usi gergali nel XVI secolo, nel senso di «rubare» e «derubare», e poi innovato nel parlato giovanile.
La sopravvivenza del lessico legato ai mestieri è però duramente minacciata dall’esaurirsi delle antiche professioni: molte parole gergali sono scomparse se non sono entrate in ambiti di circolazione più vasta, rispetto agli usi locali, acquisendo nuovi significati. Il contributo più cospicuo alla risemantizzazione, sia pure transitoria, è dovuto al linguaggio giovanile.
Biondelli, Bernardino (1846), Studii sulle lingue furbesche, Milano, Civelli.
Cortelazzo, Manlio (1977), Note sulle voci albanesi nel gergo dei ramai, «Zeitschrift für Balkanologie» 13, pp. 57-62.
Pellis, Ugo (1934), II gergo d’Isili in Sardegna e quello di Tramonti del Friuli, «Ce fastu? Bollettino della Società filologica friulana» 10, 1, pp. 201-203.
Sabatini, Francesco (1956), La ‘lingua lombardesca’ di Pescocostanzo (Abruzzo), «Cultura neolatina» 16, pp. 241-257.
Trumper, John (1996), Una lingua nascosta. Sulle orme degli ultimi quadarari calabresi. Saggio sul linguaggio dei quadarari cosentini detto “ammascante”, Soveria Mannelli, Rubbettino.