GEREMIA (ebr. Yirmĕyāhū, o abbreviato Yirmĕyah; greco ‛Ιερεμῖας; Vulgata Jeremias; scrittori cristiani anche Hieremias)
Profeta israelita, autore del libro della Bibbia che porta il suo nome, ritenuto comunemente anche autore del libro delle Lamentazioni (v.).
Vita. - G. è uno dei personaggi dell'antico ebraismo di cui siamo meglio informati, e fra tutti i profeti è colui di cui meglio d'ogni altro intravediamo la storia intima e le ripercussioni psicologiche che il ministero profetico ebbe nello spirito di chi lo esercitava; il libro che porta il suo nome ci permette infatti una ricostruzione della sua figura morale abbastanza particolareggiata, giacché contiene, sebbene sparsi e non sempre chiari, dati autobiografici più numerosi e importanti d'ogni altro libro dell'Antico Testamento.
L'epoca in cui G. svolse la sua attivitȧ fu la più tragica della storia israelitica. Comparso in pubblico sotto il re Giosia, in un periodo relativamente calmo ma contenente in sé i germi d'una prossima crisi, egli si trovò in piena crisi politica e religiosa alla morte di Giosia. Costui era stato ucciso a Mageddo (Megiddo: 608) combattendo contro il faraone egiziano Neco II che attraversava la Palestina per puntare su Babilonia; al re ucciso era succeduto il figlio Joachaz (Sellum), che tuttavia dopo soli tre mesi di regno fu mandato prigioniero in Egitto da Nechao, oramai padrone della Palestina. A lui successe Joakim (Eliakim), col quale il partito favorevole all'Egitto, e ostile perciò a Babilonia, divenne padrone.
Ma ben presto lo stato delle cose fu capovolto dalla battaglia di Karkemish (605), in cui il principe Nabucodonosor di Babilonia sconfisse totalmente gli Egiziani di Nechao spintisi fino all'Eufrate; con questa sconfitta il faraone rientrò definitivamente in Egitto, disinteressandosi della Palestina. Joakim, diventato così automaticamente e contro sua voglia suddito di Nabucodonosor, dopo tre anni si ribellò (II [IV] Re, XXIV, 1): il monarca babilonese dapprima fece assalire il ribelle da popoli circonvicini a lui fedeli, e più tardi venne in persona a debellarlo definitivamente: ma, quando giunse in Palestina, trovò che Joakim era morto poco tempo prima, e gli era succeduto sul trono il figlio Joachin (Jechonia). Dopo brevissimo assedio Gerusalemme fu presa (597 a. C.); il nuovo re, insieme con la corte reale e moltissimi maggiorenti favorevoli agli Egiziani, furono inviati in prigionia a Babilonia; al posto di Joachin, il vincitore mise sul trono il minore dei figli di Giosia, cambiando il suo nome di Mattania in quello di Sedecia. Sotto questo re avvenne la catastrofe. Debole di carattere, egli si lasciò dominare sempre più dal partito egiziano, ancora molto forte nel paese, che voleva una rivincita alle umiliazioni subite da parte dei Babilonesi fidando nell'aiuto dell'Egitto. L'eccitazione latente divenne aperto entusiasmo quando salì sul trono il faraone Hofra (589), il quale, intraprendente qual era, dovette alimentare le speranze che i Giudei riponevano sull'Egitto. Il re Sedecia, dopo lunghi tentennamenti, cedette e si ribellò apertamente a Nabuchodonosor. La risposta venne immediata. Nel 588 Gerusalemme fu cinta d'assedio; il grande aiuto promesso dall'Egitto ai Giudei fu per costoro una tragica disillusione, giacché uscito Hofra con un esercito dalle sue frontiere, i Babilonesi sospesero l'assedio per andargli incontro: poco dopo il faraone rientrò (forse battuto) nel suo territorio, abbandonando alla loro sorte i Giudei. Ripreso l'assedio, Gerusalemme, nonostante il disperato valore dei difensori, cadde nel luglio del 586. Sedecia fu accecato e inviato prigione in Babilonia, i suoi figli uccisi, i maggiorenti della città in parte trucidati e in parte esiliati in Babilonia, la città col suo tempio fu letteralmente distrutta. Seguendo poi il loro costume, i Babilonesi deportarono in massa la popolazione dell'intera regione in Babilonia, mettendo a governare la gente di contado rimasta un giudeo filobabilonese, certo Godolia; il quale tuttavia poco dopo fu ucciso da facinorosi restati in paese. Costoro, compiuto il misfatto, fuggirono nell'ospitale Egitto trascinandosi appresso Geremia, ch'era rimasto a fianco di Godolia a organizzare la restaurazione del desolato paese (v. ebrei).
G. era nativo di Anathoth, oggi ‛Anātah piccola borgata a nordest di Gerusalemme (Geremia, I, 1; XXIX, 27); suo padre si chiamava Helcia (Hilqiyyāhu) ed era di stirpe sacerdotale: probabilmente discendeva da quell'Abiathar, sommo sacerdote, che Salomone aveva relegato in Anathoth (I [III] Re, II, 26). Ebbe la sua vocazione al ministero l'anno 13° del regno di Giosia, cioè nel 626 (Ger., I, 2; XXV, 3), e in quel tempo egli era giovanissimo (Ger, I, 6): cosicché si può supporre che fosse nato circa 20 anni prima, verso il 650 a. C. La sua educazione e formazione spirituale dovettero svolgersi nel seno della sua famiglia, secondo i principî di pura religione jahvistica in essa tradizionali, e quasi di opposizione ai principî sincretistico-idolatrici che dominavano sotto i regni di Manasse e di Amon. La sua indole fu per natura pacifica e mite, e in moltissimi passi dei suoi scritti affiorano appassionati desiderî di quella dolce vita familiare che egli gustò nella prima giovinezza, senza più goderne nel resto della sua vita. Giacché, a far di questo uomo sereno un apostolo tutto fuoco e senza riposo, intervenne la sua vocazione profetica, che lo strappò via dall'ambiente a lui caro per gettarlo nel turbine dei conflitti politici e religiosi, dai quali egli nel fondo aborriva (cfr. Ger., IX, 1; XV, 10; XX, 7, segg., 14 segg.).
Entrato in lizza, G. affrontò direttamente la corruzione morale e religiosa che infierivano nel popolo (V, 7 segg., e passim nei primi capitoli) richiamando potenti e plebei alla fedeltà al patto che legava l'intera nazione a Jahvè (II, 1 segg.). Nello stesso tempo annunziava minaccioso la travolgente invasione di un popolo che sarebbe sceso dal settentrione (IV, 5 segg.): il quale invasore, secondo molti critici, sono gli Sciti, che verso quel tempo inondarono tutta l'Asia anteriore (cfr. Erodoto, I, 103-106), secondo altri e con maggior fondamento sono i nuovi e forti Babilonesi.
Il quinto anno del suo ministero (621 a. C.) avvenne un fatto di primissima importanza religiosa: secondo il racconto di II (IV) Re, XXII, 8 segg., fu scoperto nel tempio di Gerusalemme il "Libro della Legge". Molto si è disputato sul significato di questo racconto: il minimo su cui i critici sono d'accordo è che il libro pubblicato corrispondesse almeno alla maggior parte del Deuteronomio (v., e pentateuco); è anche certo che il nuovo libro godé immediatamente di tale autorità da essere di norma alla cosiddetta "riforma" del re Giosia, il quale tentò con sincero zelo di tradurne in atto le prescrizioni ispirate al più puro jahvismo. Questo capitale avvenimento non ha tuttavia ripercussioni palesi negli scritti di G.; ma ciò non significa che egli fo3se avverso o al libro pubblicato o alla riforma derivatane, sol che si rifletta come il principio animatore tanto di G. quanto del libro era il medesimo, cioè la lotta contro il sincretismo e l'instaurazione del pura jahvismo in pratica.
Ma seguì la battaglia di Mageddo, che fu un tracollo per la missione di G. Ucciso in essa il re riformatore, avvenne naturalmente che gli osteggiatori della riforma, i quali erano insieme fautori di una politica favorevole all'Egitto, citassero quel tragico esempio a sostegno della loro tesi: la morte immatura del re era interpretata come una punizione, per aver egli con la sua riforma distrutto tanti santuarî locali nel paese; e così l'ondata dell'idolatria invase città e campagne. Ma G. continuò la sua missione: recitava in pubblico e in privato carmi contro Gerusalemme corrotta e contro il tempio, su cui fanaticamente confidavano i traviati, descriveva a tetri colori l'imminente punizione dell'esilio, in cui sarebbe finita la nazione, e per farsi meglio comprendere ricorreva all'uso orientale di compiere in pubblico azioni simboliche. Ma, naturalmente, i suoi ammonimenti infastidivano: arrestato e minacciato di morte (XXVI, 8 segg.), viene rilasciato; quindi alcuni fanatici tramano contro di lui una congiura per ucciderlo (XVIII, 18 segg.), che rimane senz'effetto; ancora una volta fu arrestato e tenuto prigione nel tempio dall'ispettore Pashur (XX). Con la battaglia di Karkemish il partito favorevole all'Egitto ebbe a sua volta un tracollo: i Babilonesi, verso i quali G. aveva raccomandato una politica di sottomissione, erano già padroni della Palestina e potevano giungervi ad ogni momento. Tuttavia questo pericolo non era avvertito, e si sperava o nell'ignoto o addirittura in Jahvè contro l'odiato nemico.
In questo tempo avvenne l'episodio narrato in Ger., XXXVI, importantissimo per la storia degli scritti del profeta. Aveva egli raccolto in un volume tutti i suoi scritti fin'allora composti e dato incarico al suo segretario Baruc (v.) di leggerli pubblicamente nel tempio in una speciale ricorrenza, ripromettendosi qualche efficacia da questa lettura. La lettura fu fatta, ma fra il popolo che l'ascoltava si trovò anche un cortigiano, il quale, impressionato dal tono minaccioso di quegli scritti, ne riferì a certi suoi colleghi, e costoro si fecero ripetere da Baruc in privato la lettura. Anch'essi ne furono allarmati, e riferirono l'accaduto al re Joakim, ma insieme consigliarono Baruc e G. di tenersi nascosti. Il re pure volle ascoltare la lettura, e manifestò con un gesto eloquente la stima che faceva di quegli scritti: man mano che si svolgeva il rotolo fra le mani del lettore, egli ne tagliava due o tre colonne e le gettava in un braciere che aveva dappresso; e così fino a che tutto il volume fu consumato nel fuoco. Ordinò quindi d'arrestare G. e il suo segretario, ma invano. In risposta, G. dettò nuovamente l'intero rotolo a Baruc, e di più vi aggiunse "molti discorsi simili a quelli" (XXXVI, 32).
Cessato il regno di Joakim, e passato quello insignificante e brevissimo di Joachin, il ministero di G. assume sotto il regno di Sedecia un carattere meno ardente e tormentato, un tono più calmo: è la calma della rassegnazione davanti alla catastrofe nazionale antiveduta immancabile. Sedecia cede sempre più al partito avverso ai Babilonesi, contro le vedute di G.: il profeta trae le conclusioni dal principio da lui sempre proclamato, che Jahvè si servirà appunto dei Babilonegi per distruggere la nazione peccatrice. Non sarà tuttavia una distruzione definitiva; sarà la prova del fuoco purificatore. Non di rado G., in mezzo a un'invettiva, spinge il suo sguardo oltre l'imminente sventura, e attraverso la catastrofe scorge il risorgimento della nazione purificata.
Assediata Gerusalemme l'ultima volta, G. rimasto in città fu guardato a vista; ma non recedendo dal suo atteggiamento di aperta disapprovazione fu imprigionato (XXXVII, 15); insistendo nelle sue ammonizioni, fu gettato in una cisterna perché vi morisse di fame (XXXVIII, 6), donde fu liberato per l'intervento di un cortigiano pietoso. Caduta poi la città, fu trattato con deferenza dai vincitori: quantunque gli fosse offerto di trasferirsi in Babilonia, preferì rimanere in Palestina presso il nuovo governatore Godolia per assisterlo nella sua opera di ricostruzione. Ucciso Godolia, il profeta fu consultato dai rivoltosi se fosse opportuno fuggire in Egitto; egli rispose da parte di Jahvè che dovevano rimanere in patria, diffidando - come aveva sempre insegnato - dell'Egitto. Ma la sua parola anche questa volta non fu ascoltata, e G. insieme col fido Baruc fu, suo malgrado, condotto dai fuggiaschi in Egitto (XLII). Anche colà continuò nella sua missione di ammonimento e consiglio (XLIII, 8 segg.). Nulla di certo sappiamo della sua morte. Secondo tradizioni tardive (Ps. Epifanio, De vitis profetarum, in Patrol. Graec., XLIII, 400) sarebbe stato ucciso a Tafni in Egitto, oppure (Talmūd, Seder olām rabbā, 26, 77) morto onoratamente in Babilonia, ivi condotto da Nabucodonosor quando conquistò l'Egitto. La figura di G. rimase poi sempre viva in mezzo alla nazione risorta (II Maccabei, XV, 14-16; Matteo, XVI, 11), come di colui che, solo fra tanta aberrazione, aveva insegnato la via giusta, pur concludendo la sua missione in un sublime insuccesso.
Scritti. - Prescindendo dalle Lamentazioni (v.), il libro di Geremia contiene gli scritti di questo profeta. Ma in primo luogo esso non è un libro composto organicamente, bensì una semplice collezione di scritti; inoltre, il solo titolo non è sufficiente garanzia per attribuirne personalmente a G. tutto il contenuto, risultando da un'analisi accurata dei singoli scritti o prove decisive o serî dubbî contro tale attribuzione. Il libro non è organico né cronologicamente né concettualmente, quantunque qua e là abbia notevoli tracce di questo doppio disegno. Di qui anche la difficoltà di darne un riassunto adeguato.
Comincia regolarmente con la vocazione profetica di G. (I); seguono i due vaticinî sull'empietà del regno di Giuda (II-IV, 4) e sull'invasione nemica (IV, 5-VI), da assegnarsi certo all'epoca di Giosia; i capitoli VII-X, che trattano della riprovazione del regno di Giuda, sembrano appartenere all'epoca di Joakim; il vaticinio sull'infedeltà all'Alleanza (XI-XII) presuppone chiaramente la pubblicazione del Deuteronomio, e per di più un notevole periodo di tempo già scorso, da cui risultasse l'infedeltà alle prescrizioni di esso; i varî brani prosaici e metrici raccolti in XIII-XVII sono, salvo pochi tratti, di epoca dubbia; il tratto XVIII-XX appartiene nelle parti più salienti all'epoca di Joakim; si riporta agli ultimi re di Giuda la collezione di frammenti in XXI-XXV; il XXVI torna addietro, ai primi tempi di Joakim; ridiscende all'epoca di Sedecia il tratto narrativo di XXVII-XXIX, come pure il sublime carme sulla nuova Alleanza in XXX-XXXI; i varî episodî narrati in XXXII-XXXIV avvennero durante l'ultimo assedio di Gerusalemme, mentre l'incontro con i Recabiti (XXXV) e l'abbruciamento degli scritti di G. (XXXVI) risalgono all'epoca di Joakim; narra le ultime vicende di Gerusalemme e gli avvenimenti seguiti alla sua caduta il tratto XXXVII-XLIV, ma il vaticinio su Baruc (XLV) risale ai tempi di Joakim; gli oracoli contro le nazioni pagane (XLV- LI) sono di epoche e occasioni varie; l'appendice storica (LII) ripete la narrazione della caduta della capitale e della deportazione.
Com'è sorta questa collezione di scritti? Certo a più riprese, e con l'intervento di più d'un redattore. Il suo primo nucleo si può giustamente vedere in quella, diciamo così, seconda edizione dei suoi scritti, che G. stesso redasse, dettandola a Baruc, dopo che il primo rotolo fu bruciato dal re Joakim (XXXVI; v. sopra). Ma questa edizione originale non passò tal quale nel nostro libro; una doppia serie di prove dimostra che essa fu ricopiata da redattori posteriori, i quali tuttavia si permisero spostamenti e altre modificazioni.
In primo luogo, analizzando il materiale del libro, vi ritroviamo passi, anche notevolmente ampî, che sono ripetuti in luoghi differenti: brevi tratti che sono inframezzati a guisa di spiegazione nello svolgersi d'un carme o d'una narrazione, ma che non si collegano metricamente o stilisticamente col contesto: intestazioni e riferimenti storici troppo vaghi e generici per provenire dall'autore stesso: carmi e narrazioni strettamente affini con altri scritti biblici (cfr. Ger., XLVIII con Isaia, XV-XVI; Ger., XLIX con Abdia; Ger. XXXIX e LII con II [IV] Re, XXIV, 18 XXV): improvvisi passaggi dalla 3ª alla 1ª persona in parti narrative, ecc. Quest'ultimo rilievo mostra che il primo dei redattori, da cui provengono questi fatti, deve essere stato il fido compagno di G. stesso, cioè Baruc, al quale infatti molti critici fanno risalire buona parte dei tratti narrativi in prosa. Ma questo processo di redazione dovette svolgersi lentamente: ne abbiamo una prova confrontando il libro nell'originale ebraico con la sua recensione greca dei Settanta.
Questa antichissima fra le versioni bibliche discorda dall'odierno testo ebraico nel libro di Geremia più che in qualunque altro della Bibbia. Essa infatti è più corta dell'ebraico di circa un'ottava parte; inoltre gli oracoli contro le nazioni pagane, che nell'ebraico occupano i capitoli XLVI-LI, nei Settanta stanno fra i versetti 13 e 15 del cap. XXV, e per di più sono disposti in serie differente dall'ebraico. Probabilmente i Settanta, collocando tali oracoli verso la metà del libro, rappresentano la disposizione primitiva, giacché essa si ritrova in Isaia ed Ezechiele; e questa ipotesi è resa anche più fondata dal contenuto di XXV, 13. Comunque sia, è chiaro che la versione dei Settanta è stata condotta su un testo ebraico di Geremia che si trovava in uno stato di redazione anteriore a quello del nostro testo ebraico: il quale è giunto alla forma odierna, solo attraverso rimanipolazioni posteriori all'epoca dei Settanta.
È anche molto probabile che, contemporaneamente al primitivo nucleo degli scritti di G., circolassero in fogli separati altre minuscole raccolte di scritti attribuiti a lui, che vennero nelle successive redazioni incorporate nella collezione principale; come, d'altra parte, è probabile che la versione greca dei Settanta fosse opera di due traduttori, di cui uno per la parte I-XXVIII, e un altro per XXIX-LI. L'insieme di queste osservazioni è da aver presente nel decidere - allorché si può - se un dato passo proviene da G. stesso, o dal suo segretario Baruc, oppure può contenere un fondo geremiano diluito in redazioni posteriori. Il che non si potrà fare in via generica, ma solo analizzando caso per caso.
Lo stile di G., nei passi d'indiscutibile autenticità, appare ricco di sentimento, fatto ancor più risaltare da una costante semplicità, schiva di ricercatezze letterarie. Il suo ebraico è ancora il classico sebbene vi compaiano tracce di decadenza, che lasciano presentire l'avvento dell'aramaico, il tratto X, 11, redatto addirittura in aramaico, è una glossa tardiva caduta nel testo.
Bibl.: Prescindendo dai trattati esegetici dei Padri e da antichi commenti, fra i moderni sono da ricordare: Keil, Jeremia und Klagenlieder, di Keil-Delitzsch, Bibl. Comment über das A.T., III, Lipsia 1872; Payne Smith, Jeremiah, in The Speaker's Commentary, V, Londra 1875; Le Hir, Les trois grand-prophètes, Isaie, Jérémie, Ézéchiel, Parigi 1877; A. Scholz, Commentar zum Buche des Proph. Jeremias, Würzburg 1880; von Orelli, Jeremia, in Strack-Zöckler, Kurzgef. Comment. zu dem A. und N.T., Nördlingen 1887; Knabenbauer, Commentarius in Jer. prophetam, in Cornely, Cursus Scripturae Sacrae, Parigi 1889; B. Duhm, Das Buch Jeremia erklärt, in Marti, Kurzer Hand-Commentar zum A.T., Tubinga 1901; Cornill, Das Buch Jeremia erklärt, Lipsia 1905; Driver, The book of the Prophet Jeremiah, Londra 1906; Giesebrecht, Das Buch Jeremia übers. und erklärt, in Nowack, Handkommentar zum A.T., 2ª ed., Gottinga 1907; Peake, Jeremiah and Lamentations, Edimburgo 1910-12; Elliot Binns, The book of the Prophet Jeremiah, Londra 1919; A. Condamin, Le livre de Jérémie, Parigi 1920; Volz, Der Prophet Jeremia übers. und erklärt, Lipsia 1922; G. Ricciotti, Il libro di Geremia. Versione critica dal testo ebraico con introd. e commento, Torino 1923.
L'apocrifo di Geremia.
Si possiedono due documenti di scarso valore, in connessione fittizia col grande profeta: il primo, che va sotto il titolo comunemente di Paraiipomeni ovvero Ultimi fatti (letteralmente: Ultime parole) di Geremia, fu dapprima noto in una versione etiopica, edita su tre mss. da A. Dillmann, Chrestomathia aethiopica, pp. 1-16 (Lipsia 1866) poi in un testo greco edito da A. M. Ceriani, Paralipomena Jeremiae Prophetae (Mon. Sacr. et Prof., V, pp. 111-18, Milano 1868) e in una versione armena a doppia recensione, data in luce dai Padri Mechitaristi, Thanqaran, I, pp. 349-357 358-364 (Venezia 1896); l'altro è in arabo a caratteri siriaci (karshūnico), ed è stato pubblicato da due mss. del sec. XV-XVI da A. Mingana, A new fermiah Apocryphon (Bull. Ryl. Libr., XI, [1927], pp. 328-437).
Pare evidente che il primo documento sia servito di fonte al secondo, come cronologicamente anteriore, giacché i Paralipomeni risalgono al secolo II d. C., mentre il testo del secondo, per l'uso che fa del Diatessaron (v.) non può essere anteriore al sec. IV d. C.; ma ambedue lasciano vedere un'origine egiziana, spiegabile anche per il fatto d'una tradizione che assegna a quella regione il sepolcro del profeta. Indole giudaica offrono talune leggende trattatevi, ma rimaneggiate da cristiani.
In ambedue, grande è la parte di Abimelek, com'è detto nel primo documento, ossia Abedmelek, com'è chiamato nel secondo: egli fa la parte obbligata di dormire per tutto il periodo dell'esilio, da quando Geremia lo manda a cogliergli fichi, fino a quando questi li può mangiare ancor freschi "sessantasei anni dopo" in Babilonia, ove li riceve da un'aquila, come riferisce il primo, dall'arcangelo Michele come dice il secondo. I Parahpomeni soltanto ci parlano d'una lapidazione di Geremia a Gerusalemme, per aver predicato il Messia (dove evidentemente si alludeva a Gesù); la versione armena aggiunge che le sue ossa furono poi trasportate ad Alessandria, ove ebbero l'onore d'una visita d'Alessandro Magno. Invece il secondo apocrifo si dilunga a descrivere la festa del ritorno degli esuli e gli ammonimenti di Geremia ad evitare le nozze con donne pagane, punto curandosi di narrare gli ultimi fati del profeta.
Bibl.: J. R. Harris, The rest of the Words of Baruch, Londra 1889; K. Kohler, The pre-talmudic Haggada, in Jew. Quart. Rev., V (1893), pp. 407-419; A. Vitti, Apocryphum Jeremiae nuper detectum, in Verb. Domini, VIII (1928) pp. 316-320; A. Marmorstein, Die Quellen des neuen Jeremias-Apokryphons, in Zeitschr. der neutestamentl. Wissenschaft, XXVII (1928), pp. 327-337.