WASHINGTON, George
Nacque il 22 febbraio 1732 (1731) a Bridges Creek, nella contea di Westmoreland (Virginia) primogenito di Agostino Washington (1694-1743) e della sua seconda moglie Mary Ball (dal primo matrimonio erano nati quattro figli, di cui due vivi, Lorenzo e Agostino).
Agostino W. era piantatore e agrario come i suoi antenati, stabiliti nella Virginia dal 1658. È stato dimostrato che la famiglia discende da un ramo della distinta stirpe normanna de Wessyngton, stabilita dal 1538 sulla terra di Sulgrave, nella contea di Northampton. I W. che emigrarono nell'America erano figli di un sacerdote anglicano che i parlamentari cacciarono per troppa fedeltà alla monarchia. Tutti i W. occupavano una posizione agiata e socialmente elevata.
A tre anni, secondo le tradizioni orali (a sette, secondo una fonte scritta), il bambino si trasferì con la famiglia, forse in seguito alla morte del nonno, in una proprietà sul Rappahannock di fronte a Fredericksburg, dove Giorgio iniziò la sua educazione: tale proprietà gli fu poi lasciata dal padre quando morì nel 1743 (gli altri fratelli ricevettero cospicue dotazioni). Allora egli fu rimandato a Bridges Creek, presso il fratellastro minore, Agostino; e là egli frequentò la discreta scuola di un signor Williams, imparando, sembrerebbe, un poco di matematica, ma nessuna lingua oltre l'inglese, né moderna né antica. L'inglese egli lo scriveva sempre con stile vigoroso, ma senza troppi scrupoli sintattici o ortografici.
Esiste un manoscritto di lui tredicenne, che consiste di centodieci massime sul modo di comportarsi, dategli a copiare. Null'altro si sa di questi primi anni, ma un certo pastore protestante Mason Weems pubblicò nel 1800 (5ª ediz. accresciuta nel 1806), una breve biografia di W., e nella ristampa, che ebbe un successo favoloso e sproporzionato, introdusse diversi aneddoti che deve aver inventati di sana pianta. Da generazioni le storie della piccola scure con cui il fanciullo taglia un ciliegio e poi lo confessa al padre "perché non posso dire una bugia", e simili edificanti invenzioni, sono inculcate con ostinazione nei teneri orecchi dei giovani americani.
A 14 anni Giorgio abbandonò il desiderio fanciullesco di imbarcarsi e studiò per diventare geometra. Il fratellastro maggiore, Lorenzo, erede principale del padre, aveva la proprietà di Hunting Creek sul Potomac, che egli ribattezzò Mount Vernon (e che alla sua morte nel 1752 egli lasciò a Giorgio), e vi si era stabilito sposando una cugina di lord Fairfax, capo d'una famiglia che possedeva sterminate proprietà nella Virginia, il quale, venuto a stabilirsi nel nuovo mondo, affidò al giovane geometra (1748) il compito di misurare i confini delle sue terre oltre le montagne del Blue Ridge.
Così Giorgio a 16 anni fu distolto dalla vita comoda e più o meno oziosa del ricco piantatore e invece della caccia alla volpe conobbe i bisogni della grande nazione che stava nascendo in contatto con la natura e gl'indigeni. Sempre frugale e provvido, egli poté ora migliorare considerevolmente il suo già rispettabile patrimonio acquistando nuove terre, specialmente nell'ovest, il cui brillante avvenire il W. fu uno dei primi ad apprezzare. Nella biblioteca di lord Fairfax egli leggeva molto, e dai suoi diarî sappiamo che prediligeva durante questo periodo la storia inglese e la raccolta dell'affascinante periodico The Spectator. Il fratello Lorenzo, diventato nel 1749 direttore-capo della Ohio Company, e prevedendo che le precarie condizioni di lotta alla frontiera avrebbero presto reso inevitabile una guerra con i Francesi, volle preparare Giorgio alla vita militare e gli procurò un posto come aiutante-generale della Virginia col grado di maggiore. Questa vita fu interrotta dalla malattia di Lorenzo, e Giorgio, per salvarlo dalla tisi, accompagnò il fratello per passare l'inverno nell'isola Barbados, dove anche lui si ammalò di vaiolo. Guarì in un mese e tornò a casa, ma Lrenzo morì nel luglio 1782.
Nell'ottobre 1753 il governatore gli diede l'incarico assai importante di recarsi (non solo, come viene spesso detto) al Fort Le Boeuf, per spiare i movimenti dei Francesi, ed esigere una spiegazione delle loro intrusioni in territorî inglesi. Il diario che egli tenne di questa spedizione fu pubblicato in Inghilterra e molto letto, ed è uno dei documenti più interessanti per studiare la personalità stranamente elusiva di quest'uomo che in tutta la sua vita non si aprì mai con nessuno.
Tornò nel gennaio 1754, e nel marzo fu promosso tenente-colonnello del reggimento di Virginia inviato sotto il colonnello J. B. Fry al forte della Ohio Company, sul sito odierno di Pittsburgh. In viaggio seppe che i Francesi avevano occupato il forte, cui diedero il nome Duquesne. Ciò che successe allora rimarrà sempre un mistero.
Pare che un piccolo gruppo di Francesi gli sia stato mandato incontro, sotto Villiers de Jumonville, per parlamentare. Gli Americani incontrarono improvvisamente questo gruppo, mentre riposava nella foresta; i Francesi, allarmati, afferrarono i fucili, e W. diede l'ordine di sparare. Il Jumonville con nove altri fu ucciso, 21 Francesi furono fatti prigionieri, un solo Francese poté fuggire (28 maggio). Intanto il colonnello Fry era morto, e W. gli succedette al comando della spedizione. Il 3 luglio fu costretto ad arrendersi a Fort Necessity, ma poté andarsene con tutte le sue truppe e con gli onori di guerra, dopo aver firmato un atto di capitolazione, redatto in francese (e che gli sarebbe stato tradotto infedelmente, egli asserì tre anni dopo) con il quale egli riconobbe di aver "assassinato" Jumonville. La Francia pubblicò questo documento e se ne servì per giustificare l'occupazione della regione dell'Ohio, in modo che questo incidente può considerarsi come la causa immediata della guerra dei Sette anni. Molto inchiostro è stato sparso sulla questione; oggi gli stessi storici francesi considerano la condotta del giovane ufficiale con minore severità (G. Robitaille, W. et Jumonville, Montréal 1933).
La proposta del governo (desideroso di nuove economie) di abolire tutti i gradi sopra quello di capitano, fu ritenuta inaccettabile dal W., il quale preferì congedarsi, esprimendo nello stesso tempo la sua preferenza per la vita militare. Però il suo amore delle armi - o l'ambizione - fu più forte di lui, e nel 1755 egli procurò di andare come aiutante del generale E. Braddock, prese parte alla terribile disfatta del Monongahela, in cui i quattro quinti degli ufficiali e un quarto dei soldati furono uccisi (9 luglio), mostrò un coraggio e un sangue freddo stupendi, seppellì il generale ed ebbe l'incarico di riorganizzare le forze armate della Virginia.
È generalmente riconosciuto, e lo fu subito, che se Braddock non avesse disprezzato i consigli del W., il disastro non sarebbe avvenuto, o comunque sarebbe stato assai minore.
Nella sua nuova funzione il W. seppe farsi rispettare, e una volta viaggiò fino a Boston per far imporre il riconoscimento del suo grado a un ufficiale inglese. L'ardore dei suoi 25 anni mal seppe sopportare l'incompetenza e la burocrazia del governo virginiano; egli si fece molti nemici, e poiché anche la sua salute aveva molto sofferto, dopo la presa di Fort Duquesne, dove le sue truppe furono le prime a entrare (25 novembre 1758), decise di dimettersi.
Nella primavera precedente egli aveva fatto la conoscenza, durante una missione militare, di una giovane vedova, bella, simpatica e ricchissima, e si era fidanzato con lei entro le 24 ore. Ora subito dopo la presa di Fort Duquesne, W. ritornò a casa, si congedò negli ultimi giorni di dicembre, e il 6 gennaio 1759 si sposò con Martha Dandridge, la vedova di Daniel Parke Custis.
Ora poteva vivere felice; giovane, ricco e stimato il miglior militare del continente, fu eletto alla Camera dei burgesses, si occupò intelligentemente di tutte le questioni pubbliche. Le sue terre erano un modello di amministrazione per ognuno. I suoi schiavi erano ben vestiti e nutriti, sebbene qualche studioso affermi che li trattasse con fredda durezza e rigor militare, aggiungendo però che non ne vendette e non ne comperò mai uno solo.
Ma quando nel 1765 venne l'agitazione contro lo Stamp act che iniziò la ribellione, egli stimò che "sebbene per difendere la libertà si possa benissimo ricorrere alle armi, ciò deve essere il dernier ressort". Appoggiò invece fortemente la politica che oggi si chiamerebbe boicottaggio delle merci inglesi. Nel 1774 egli comprese che il momento di agire era venuto. Un comizio tenuto nella sua contea e presieduto da lui votò un ordine del giorno nel quale si invitava l'assemblea a far rimostranze al sovrano, e a cui si rammentava che "un solo appello vi può essere dal sovrano". Nell'agosto dichiarò a Williamsburg che era pronto a radunare e ad armare mille uomini a spese sue e a marciare con essi per aiutare Boston.
Il resto della sua vita coincide con la storia americana di questi anni. Egli ricevette il 5 agosto 1774 la nomina a delegato al primo Congresso continentale che si riunì un mese dopo a Filadelfia. La sessione durò 51 giorni, ma non pare che W. abbia aperto bocca durante le sessioni.
A lui assai più che a Guglielmo d' Orange si addirebbe l'epiteto di taciturno. Egli parlava soltanto quando nessun altro diceva le cose che egli giudicava necessarie. In quei giorni scrisse la famosa lettera a un amico ufficiale inglese a Boston: "non è intenzione del governo della colonia o di qualsiasi altro governo del continente, cercare la sua indipendenza; ma potete nello stesso tempo essere sicuro che nessuno tra essi si sottometterà mai a perdere quei preziosi diritti e privilegi che sono essenziali per la felicità di ogni stato, e senza i quali la vita, la libertà e la proprietà sono resi del tutto malsicuri". Ciò non voleva dire che si era già dichiarato in favore dell'indipendenza, e per il momento egli preferì non pronunciarsi.
Nel secondo Congresso al quale egli fu nuovamente nominato nel marzo 1775, si sa che soleva assistere vestito sempre in divisa di colonnello virginiano, spettacolo forse più eloquente di dieci discorsi, tanto più che il suo esempio era unico. Il 15 giugno il Congresso pose fine alle lunghe tergiversazioni e decise di ricorrere formalmente alle armi. Quando Giovanni Adams affermò che bisognava affidare il comando in capo dell'esercito a W., questi lasciò l'aula. All'indomani apparve davanti all'Assemblea e accettò l'incarico, rifiutando ogni remunerazione, e dichiarando di voler soltanto essere rimborsato delle spese. Dichiarò, e credeva sinceramente, di essere inferiore al compito; però deve anche aver capito che non vi era nessuno disponibile più abile di lui. La scelta fu accolta senza aperta ostilità, ma l'Adams dice nel suo diario che aveva degli oppositori persino tra i delegati dal suo stato. Giovanni Hancock non nascose di voler aspirare lui a quell'alto posto. W. ricevette l'incarico formale il 17 giugno, partì verso il nord il 21 ed ebbe subito la notizia dei fatti di Bunker Hill. "La milizia ha combattuto?" domandò "Allora le libertà della nazione sono salve".
Infatti la guerra della rivoluzione fu vinta dallo spirito battagliero della nazione. E nel creare, nel fomentare questo spirito, è indiscutibile che W. ebbe grandissima parte. La sua presenza aveva quell'alone vivificante e stimolante, che soltanto pochissimi uomini hanno posseduto. Lo attesta un giudice imparziale, lo Chateaubriand: "Heureux... que ses regards soient tombés sur moi, je m'en suis senti échauffé le reste de ma vie: il y a une vertu dans les regards d'un grand homme".
Due progetti di W. per attaccare gli Inglesi che tenevano Boston ebbero la disapprovazione del suo consiglio di guerra, e non se ne fece nulla. Nella notte dal 4 al 5 marzo 1776, nonostante nuove opposizioni, egli fece occupare e saldamente fortificare le alture di Dorchester, distraendo il nemico con bombardamenti, così efficacemente che gl'Inglesi dopo brevi velleità di rispondere decisero di evacuare la città (17 marzo). Venti e più reggimenti perfettamente armati erano stati tenuti a bada per sei mesi da una milizia di borghesi senza polvere da sparo (la maggior parte dei quali, inoltre, erano andati in congedo ed erano stati sostituiti da altre reclute ancora più digiune di guerra) e avevano ceduto il campo senza colpo ferire. J. Montagu conte di Sandwich aveva dichiarato nella Camera dei lord che "tutti i Yankees sono vigliacchi": W. aveva fatto vedere di che stoffa era fatta la vigliaccheria degli americani.
Terminato il suo compito a Boston, W. procedette a fortificare e difendere New York, vero centro delle colonie (aprile 1776). Durante questo periodo si recò a Filadelfia per spingere alla dichiarazione d'indipendenza, firmata e proclamata il 4 luglio. Il 29 agosto egli fu battuto dalle forze superiori di lord R. Howe. L'esercito si disfaceva, i militi terminata la ferma si congedavano, e W. scrisse con energia al Congresso: "Vi è una grande differenza tra votare reggimenti e levare truppe". Le navi inglesi distrussero la piccola flottiglia americana e il 17 ottobre W. si ritirò a White Plains non conservando se non il Fort Washington, dove resistette all'attacco inglese (28 ottobre) con fierezza, ritirandosi a migliori posizioni soltanto tre giorni dopo. Fort Washington fu preso d'assalto, e così si perdettero quasi 3000 uomini. La rivoluzione pareva liquidata. W. ripiegò verso il sud attraverso le Jersey, con 2400 uomini. La popolazione accettava l'amnistia elargita da lord Howe, e poche reclute si presentavano. Qui si mostrò tutta la grandezza dell'uomo, il quale, lungi dall'abbattersi, ricorse con eroico furore all'offensiva. La notte di Natale, da Princeton, traversò (cosa da tutti considerata pressoché impossibile), il fiume Delaware pieno di ghiaccio, e aggredì i mercenarî Assiani di sorpresa a Trenton, infliggendo loro una disfatta che soltanto la mancata collaborazione degli altri comandanti su cui egli aveva contato non rese più decisiva. Nuovamente inseguito da Ch. Corfiwallis, egli lo aggredì improvvisamente durante la notte dal 2 al 3 gennaio 1777 e lo batté a Princeton. Un giudice non sospetto, Federico II di Prussia, dichiarò questa campagna il più grande fatto d' armi del secolo. W. parlò con troppa modestia dei suoi "due colpi di fortuna". L'11 settembre invece, tentando di difendere Filadelfia, egli fu battuto sul fiume Brandywine da Cornwallis e la città, fino allora sede del Congresso, fu presa da Howe. Non domo e troppo fidandosi delle sue reclute, si gettò nuovamente sugl'Inglesi a Germantown il 4 ottobre, e dopo un inizio che sembrava trionfale, fu severamente battuto.
Dopo la resa di J. Burgoyne a Saratoga, il vittorioso generale H. Gates intrigò con diversi altri generali, compresi J. Wilkinson, Th. Mifflin e un certo Thomas Conway, irlandese (onde fu detta la "Cabala Conway") per togliere il comando a W., ostacolando la sua attività e disprezzando i suoi meriti, per mettere il Gates al suo posto. Questi riuscì a diventare capo del Consiglio di guerra, vi fece entrare il Mifflin e nominò Conway ispettore generale. Ma W. non pensò a dare le dimissioni, seppe tener duro, e la cabala, priva di vera capacità esecutiva, si sgretolò miseramente. Non meno notevole dell'attività di W. durante la campagna delle Jersey fu la maestrevole inattività dalla quale non si lasciò smuovere dal biasimo e dagl'intrighi o da qualsiasi tentazione durante tutto l'inverno 1777-78. Il suo esercito era scalzo e vestito di stracci. Stabilitosi a Valley Forge, vicino a Filadelfia, egli sorvegliò lo Howe e con mirabile pertinacia ricostituì le sue forze, o piuttosto ricostruì ex novo un esercito americano, pur dovendo lottare con ogni mezzo contro l'inerzia e la malignità dei politicanti.
Quando gl'Inglesi decisero di tornare a New York, W. li attaccò a Monmouth (27 maggio 1778), ma il generale H. Lee mostrò una totale assenza di coraggio e fuggì trascinando le sue truppe con sé, e W., con tutta la sua presenza di spirito, poté appena trasformare l'apparente disfatta in una vittoria, riprendendo l'offensiva e infliggendo severe perdite al nemico. Questi però riuscì a entrare a New York. Il morale e il prestigio delle forze britanniche avevano subito una forte scossa. La mezza sconfitta valeva una vittoria. Quando il vecchio re Federico II di Prussia ebbe la notizia sentenziò: "L'America è perduta per l'Inghilterra".
Dalla battaglia di Monmouth sino alla fine della guerra, W. non ebbe più una parte militare importante, ma ciò non ostante egli rimase la figura più significativa anche durante questo periodo. Si oppose alla invasione, proposta dalla Cabala, del Canada con le truppe francesi del Lafayette, mostrando quale pericolo avrebbe potuto derivare al nuovo stato dal possesso di questo territorio francese di lingua e di tradizioni. Dovette reprimere ripetuti ammutinamenti delle truppe causati dalle rovinose finanze americane e dalla sfrenata speculazione dei fornitori. Dovette lottare continuamente col Congresso che non voleva o non poteva capire la sua politica alla Fabio Massimo e chiedeva sempre "delle azioni spettacolari", mentre W. aspettava soltanto il momento in cui, unendosi ai Francesi, avrebbe potuto assestare un colpo decisivo al nemico. Sentiva di non poter abbandonare la sua presa dello Hudson, l'unico punto di contatto con le colonie della Nuova Inghilterra. Nello stesso tempo spingeva avanti la formazione della confederazione, sebbene non sia possibile attribuire a lui la colpa della forma non felice nella quale questa fu poi realizzata. Appena rivelatasi l'insufficienza della nuova confederazione, egli stimolò il suo aiutante A. Hamilton a trovare rimedî per i difetti del nuovo sistema. Procurò l'invio di H. Laurens a Parigi per ottenere un prestito dalla Francia.
Il merito della resa di Cornwallis a Yorktown bisogna attribuirlo completamente a W. il quale l'ideò, la preparò per anni, e giunto il momento, si gettò sulla sua preda. Fu lui che ottenne da F.-J.-P. de Grasse di recarsi nella Chesapeake Bay, e gli procurò i rinforzi di de Barras; fu lui che finse un attacco su New York, per impedire che sir H. Clinton potesse inviare aiuti a Cornwallis; fu lui che la notte del 29 settembre iniziò l'assedio.
Durante i seguenti due anni fino alla conclusione della pace, persino quando si erano già iniziati i negoziati di Parigi, egli continuò la preparazione dell'esercito e le azioni militari. Quando fu certo che la guerra era finita, si occupò del pagamento di un premio ai veterani (lo stato delle finanze americane era tale che il Congresso non voleva dar loro nulla), e in conseguenza divenne così popolare nell'esercito che gli ufficiali, attraverso il colonnello Lewis Nicola, vollero addirittura invitarlo ad assumere la corona: offerta che egli rifiutò con cortese sdegno. Poco dopo sedò un ammutinamento delle truppe a Filadelfia, il che mostrò assai chiaramente che non dipendeva se non da lui attuare l'offerta dell'esercito. Il 23 dicembre 1783 egli depose il suo comando nelle mani del Congresso dal quale l'aveva avuto, ricevendo i ringraziamenti del presidente Tommaso Mifflin, suo vecchio avversario della Cabala.
È molto diffusa la tendenza di considerare il W. esclusivamente o soprattutto come soldato, mentre è vero il contrario: egli fu sopra tutto uomo di stato. Nelle sue campagne militari non perdeva mai di vista gli obbiettivi politici. Ciò divenne ancora più palese alla fine della guerra. La formazione dell'Unione come esiste oggi è dovuta a lui, e soltanto in secondo grado a Hamilton e a Madison; e di questi due il primo fu il suo aiutante e discepolo. La sua influenza era ormai enorme, e ogni sua parola (il discorso di commiato dai soldati, la lettera circolare ai governatori), gettò la base del pensiero federale e costituzionale. Si era ritirato a Mount Vernon e diceva di volersi astenere da qualsiasi futura attività pubblica: ma in realtà egli non cessò, per mezzo di lettere e conversazioni, di interessarsi attivamente agli sviluppi politici della nuova nazione.
Quando nel 1786 si decise di tenere una convenzione costituzionale a Filadelfia, W. dichiarò di non potervi andare, avendo già addotto a pretesto la sua cattiva salute per sottrarsi a un altro invito. Ma fu unanimemente eletto delegato della Virginia. Infatti fino alla sua morte non ebbe mai, nelle quattro elezioni fattesi dopo la guerra, un solo voto contrario; ciò basta per mostrare l'immensa preminenza che aveva nel cuore della nazione su tutti gli altri uomini politici.
Fino all'ultimo giorno protestò di non poter andare alla convenzione. Ciononostante vi arrivò, con la sua costante puntualità, il 13 maggio 1787. Venne subito eletto - sempre unanimemente - presidente dell'Assemblea.
Le sedute durarono quattro mesi, e durante questo periodo egli parlò, come delegato, una sola volta, e per pochi minuti, per appoggiare una proposta di ridurre il numero di abitanti richiesto per fare una circoscrizione congressionale. Sembra che odiasse i discorsi pubblici. Il Jefferson disse una volta, molti anni dopo la sua morte, che non l'aveva mai sentito parlare per più di dieci minuti alla volta. La perfezione della sua arte politica sta appunto in ciò, nell'impiego del minimo necessario sforzo per ottenere lo scopo prefisso. È certo che la Costituzione fu, con qualche eventuale riserva, come la volle W. Sappiamo che era contrario alla possibilità di annullare il veto presidenziale con una maggioranza di due terzi. Egli votó, che si sappia, durante la Convenzione, cinque sole volte, e 3 di questi voti furono dati per rafforzare il potere presidenziale. Infatti i grandi poteri furono concessi al presidente soltanto perché tutti prevedevano W. come presidente a vita; per la stessa ragione non fu posto nessun ostacolo alla perpetua rieleggibilità del presidente. Il 17 settembre egli pose la sua firma al documento. Egli vedeva in esso la migliore costituzione che si potesse ottenere in quelle condizioni; e non vi vedeva altra alternativa possibile, se non lo scioglimento dell'Unione.
I sostenitori dello statuto, i quali si costituirono in partito politico con il nome di "federalisti", vinsero le elezioni, e tutti gli elettori votarono per W., come primo presidente dell'Unione. Non si pensò nemmeno alla possibilità di un altro candidato. Il 14 aprile 1789 la sua elezione gli fu formalmente comunicata; egli accettò subito; per pagare i suoi debiti e poter lasciare lo stato di Virginia, dovette farsi prestare cinquecento sterline. Partì il 16 e fu solennemente investito dei poteri presidenziali a New York il 30 dello stesso mese.
Durante il primo periodo d'ufficio egli non ebbe un vero partito politico a sua disposizione, ma nemmeno una vera e propria opposizione. Non esisteva nemmeno un governo, nessun ministero, nessuna finanza, e niente fondi, nessuna marina e, ciò che era peggio, nessuna tradizione sulla quale creare tutte queste cose.
Per questa ragione l'impronta lasciata da W. sul governo degli Stati Uniti è indelebile, e sappiamo che egli era ben conscio che ogni suo atto avrebbe creato un precedente. Nell'esser riuscito nel gravissimo compito, e non nelle sue vittorie militari, nell'aver eretto una costruzione che sta già saldamente sfidando il suo secondo secolo di vita con una vitalità non inferiore a quella di qualsiasi altro stato del mondo, sta la grandezza di W.
Nella scelta del suo gabinetto W. seppe evitare nepotismo e favoritismi di ogni sorta, sebbene sia naturale che abbia limitato la sua scelta alla cerchia di coloro che avevano favorito la formazione della nuova Unione. Egli diede il portafoglio del Tesoro al nazionalista Hamilton, e il dipartimento di stato a Jefferson, partigiano della teoria che accentuava la sovranità degli stati. Così si può dire che questo primo gabinetto di W. fu la culla dei due grandi partiti politici americani: dal Hamilton derivò il partito federalista, poi risorto col nome "whig" e alla fine coi nome di "repubblicano"; dal Jefferson il partito allora chiamato per quasi quarant'anni "repubblicano" e soltanto più tardi "democratico".
Dopo il 1792 il presidente innegabilmente inclinò verso il partito federalista, soprattutto nelle gravi questioni suscitate dalla rivoluzione francese.
Egli è stato spesso tacciato, con una comune e spiegabile confusione tra moralità privata e pubblica, di "ingratitudine" verso la Francia che così grande parte aveva avuta nello stabilire le libertà americane. Ma egli faceva l'interesse del proprio paese; e a questo riguardo si può notare che le parole così spesso affibbiate a W. (non sempre in buona fede) dai giornalisti - e non solo dai. giornalisti - americani, che l'America deve evitare "entangling alliances", non furono affatto pronunciate da lui nel suo discorso di addio, ma da Jefferson nel suo discorso inaugurale. Le parole di W. furono invece: "Perché intrecciando il nostro destino con qualsiasi parte dell'Europa, complicare (entangle) la nostra pace e la nostra prosperità nelle reti dell'ambizione, rivalità, interesse, umore o capriccio dell'Europa? La nostra politica evidente è quella di navigare al largo di alleanze permanenti, con qualsiasi parte del mondo estero". W. era troppo realista per voler precludere agli americani le alleanze, e parlava soltanto di alleanze "permanenti" (specialmente con la Francia) che nessun popolo ha mai sopportato senza danno.
Rieletto nel 1792 per altri quattro anni, il dualismo latente del suo gabinetto si mostrò più apertamente. La neutralità nella guerra tra Francia e Inghilterra (politica che oggi si vede come l'unica possibile per un regime giovane che aveva bisogno soprattutto di tempo e di pace per consolidarsi) fece inferocire i radicali: e anche qui si vede la grandezza di W. La sua energica repressione, nel 1794, del "Whisky Insurrection" nella Pennsylvania (contro l'imposta federale sul whisky) sebbene effettuata senza sangue gli procurò accuse di tirannia. Il trattato negoziato da J. Jay con l'Inghilterra gli procurò la taccia, che dura ancora oggi, di "anglofilo", se non di aver venduto il paese all'Inghilterra; si elevarono accuse contro di lui (lui, che aveva rifiutato sempre di ricevere uno stipendio) di aver rubato 4000 dollari dal tesoro; lo si accusò di voler cingere la corona reale nella formalità dei suoi ricevimenti, durante i quali, vestito di velluto nero, con la mano all'elsa della spada, egli riceveva e faceva rimanere tutti gli ospiti in piedi. Il gabinetto oramai era privo, dopo una serie di dimissioni, dei suoi migliori uomini. Cominciarono le volgari campagne di stampa: si osò parlare di una ghigliottina per il "patrigno della patria". Nel 1796 la Camera rifiutò di aggiornarsi una mezz'ora per onorare il suo genetliaco, come era sempre stato fatto nel passato. In una riunione di Gabinetto egli, sempre così padrone di sé, parlando delle infami accuse mossegli contro, perdette il controllo di sé stesso e si infiammò notevolmente, raccontava il Jefferson, dichiarando che avrebbe voluto piuttosto essere morto che nella sua situazione presente (ma si deve notare che Jefferson scriveva queste cose molti anni dopo la morte del suo grande avversario).
Ciò nonostante, nel 1796, egli avrebbe certamente potuto essere rieletto, se non unanimemente, sempre con grandissima maggioranza se avesse voluto; e, se fosse vissuto, altre volte ancora. Il prestigio del suo nome, nella grande massa della popolazione, non è mai scemato. Ma egli era stanco della lotta. Sentiva di avere bene meritato dalla patria, di avere dato alla nuova nazione un governo forte all'interno e rispettato all'estero, una finanza sana, e - soprattutto importante ai suoi occhi - il rispetto di sé stessa. Nel settembre 1796 pubblicò il suo commiato dalla nazione, che generazioni di fanciulli americani hanno imparato a memoria. Nemmeno allora gli oppositori tacquero: lo accusavano di avarizia, di orgoglio, di mediocre abilità militare. Nel marzo 1797 consegnò la presidenza al suo successore John Adams e si ritirò sulle sue terre. Considerava l'Adams come un continuatore della sua politica, e gli diede il suo cordiale appoggio. Non aveva nessuna mira recondita di un eventuale ritorno al potere: ciò è certo. Ma la pubblicazione delle famose lettere XYZ suscitò una tale ondata di sdegno contro la Francia repubblicana in tutto il paese, che si pensò seriamente alla possibilità di una guerra, ed è naturale che il governo ricorresse a W. per formare un nuovo esercito nazionale, affidandogli il 4 luglio 1798 l'incarico di comandante in capo dell'esercito, offerta che egli accettò il 13 luglio, con la riserva che egli non avrebbe prestato vero servizio militare se non nel caso di ostilità effettive, e con il diritto di nominare i tre maggior generali. Circa questa questione nacquero divergenze abbastanza serie tra lui e il presidente che terminarono con la sua vittoria: Hamilton dovette essere il primo dei tre generali, col rango anche di ispettore generale. In questa questione il partito federalista aveva mostrato di essere diviso in due frazioni, una hamiltoniana e una anti-hamiltoniana; e pochi mesi prima di morire W. aveva profetizzato la morte del partito per questa divisione a base di personalismi e non di principî.
La sua fine fu, come la sua vita, semplice e priva di ogni elemento pittoresco. Il 12 dicembre 1799 fece la solita passeggiata a cavallo, e si prese una infiammazione alla gola, in termini medici una acuta laringite edematica (malattia poco comune che oggi si sarebbe potuta guarire con la tracheotomia) che gli causò una morte molto dolorosa per lenta soffocazione. W. sopportò quest'ultima prova con tranquilla rassegnazione; "è un debito che bisogna che paghiamo tutti"), disse sorridendo. Diede poche istruzioni per i funerali, non pronunciò nescuna grande parola. La sera del 14 settembre, alle dieci, dichiarò: "Io muoio ora". Pochi minuti dopo si mise a contare le sue pulsazioni, e mentre contava il suo viso si mutò, e la mano ricadde. Non volle nessun discorso ai suoi funerali.
Egli è sepolto nella tomba di famiglia a Mount Vernon, e i tentativi di farlo trasferire nel Campidoglio non hanno mai potuto essere attuati.
Sin dal ventesimo anno W. apparteneva alla massoneria, e considerava tutte le sette protestanti con uguale indifferenza.
Era di alta statura (circa un meiro e novantatré), la testa ben formata ma non grande, il naso lungo e diritto, gli occhi d'un grigio azzurro notevolmente distanti l'uno dall'altro (caratteristica notata anche in Garibaldi), le occhiaie profondamente incavate, sotto una fronte straordinariamente vasta. Il viso era lungo più che largo, con zigomi alti e tondi, e il mento vigoroso. Era di capelli scuri, ed aveva abitudine di portarli sempre incipriati. Nella gioventù, quando non era arso dal sole, era piuttosto pallido; più tardi, florido. Lo sguardo era penetrante e attento, e l'espressione triste e fine.
Il suo comportamento fu universalmente notato per la grande dignità e maestosa grazia. I più celebri ritratti di lui sono il busto di Houdon, e le tele di Gilbert Stuart e John Trumbull.
Non lasciò figli, ma il ramo collaterale della famiglia non è ancora spento. Lo stemma dei W. è d'argento a due fasce di rosso, sormontate da tre stelle di cinque raggi dello stesso; cimiero: un corvo volante, corona marchionale.
Bonaparte sentenziò alla sua morte: "Appartiene così poco ai tempi moderni, che ci comunica le stesse impressioni dei più augusti esempî dell'antichità. La sua opera è appena terminata, e già attira la venerazione che diamo soltanto alle cose consacrate dal tempo". E il Fox esclamò nel parlamento inglese con feroce ironia: "accanto a lui, tutti i sovrani europei (con l'eccezione della nostra famiglia reale) diventano piccoli e spregevoli". La sua figura è talmente grande che occorre una particella di grandezza, e il senso di superiore distacco che ne deriva, per capirlo. Goethe lo capiva; il Carlyle, a cui invece sfuggì la sua grandezza, la sua "eroicità", vi vedeva soltanto un "Cromwell senza sangue". Il suo segreto sta forse qui: è forse l'unico grande uomo della storia che non solo non si preoccupò minimamente della storia (nemmeno nella morte, "nel momento in cui tutti posano", ha egli posato); ma per riuscire nel suo compito, si rinchiuse deliberatamente nel suo mistero e nel gelo di una finta indifferenza, sotto la quale nascondeva (i pochi momenti di sfogo lo rivelarono) il fuoco di un'anima fiera e appassionata e sovrumanamente volitiva.
Fonti: Life and writings of Washington, edited by J. Sparks, Boston 1834-37, voll. 12; Writings of George Washington, ed. W. C. Ford, voll. 14, New York 1889; queste due edizioni sono state sostituite dalla grande edizione fatta per il centenario del 1932 dal governo americano; Writings of George Washington from the original manuscript sources, 1745-1799; prepared under the direction of the U. S. G. W. bicentennial commission and published by authority of Congress, John C. Fitzpatrick, editore, Washington 1931-33, voll. 24; J. D. Richardson, ed., Compilation of the messages and papers of the presidents, Washington 1896, I; Last will and testament of G. W., ivi 1911 (Senate Document 86, 62° Congresso, 1ª sessione); Diaries of George Washington 1784-89, a cura di J. C. Fitzpatrick, Boston 1925, voll. 4; G. W., Journal of my Journey over the mountains 1747-48, ed. J. M. Toner, Albany 1892; Calendar of the correspondance of G. W., commander in chief of the continental army, voll. 5, Washington 1906-15 (elenco cronologico delle lettere originali che si trovano, come le carte di quasi tutti i presidenti americani, nella Library of Congress).
Bibl.: La quantità delle opere su W. è cospicua, ma di scarso valore. Una biografia sufficiente non esiste; il miglior modo di studiare la sua vita è ancora di compulsare la storia degli Stati Uniti; si vedano anche le bibliografie citate sotto i nomi delle singole battaglie combattute da lui.
Le tre più celebri biografie di W.: Washington Irving, Life of G. W., New York 1855-59, voll. 5; John Marshall, Life of G. W., Filadelfia 1804-07, voll. 5 e atlante, ultima ristampa, con indice, New York 1930, voll. 2; e l'esecrabile vita di M. L. Weems, cit., Georgetown 1800, forse la 70ª ediz. a New York 1927, sono antiquate; le prime due, per la posizione del Marshall e il valore letterario dell'Irving sono ancora da consultarsi.
Tra le biografie più recenti, la migliore è ancora H. C. Lodge, G. W., New York 1889, voll. 2, nella serie: American Statesmen. Ottimo il libro di Firmin Roz, Washington, Parigi (1933). Altri libri stranieri: C. de Witt, Histoire de Washington, con prefazione del Guizot, Parigi 1855; Bernard Fay, George Washington, gentilhomme, Parigi 1932; A. F. Guidi, W. and the Italians, nel volumetto Italy and the Italians, New York (1933).
Sta uscendo un'ampia biografia, quella di Rupert Hughes, ancora non terminata, New York 1926 segg.; il terzo volume giunge al trattato di Parigi 1781; mostra indipendenza di spirito e acume critico. Notiamo ancora (omettiamo i titoli per evitare monotonia): i libri di Woodrow Wilson, New York 1903; John Corbin, Unknown W., New York 1930; T. G. Frothingham, Boston 1930; J. D. Sawyer, New York 1927, voll. 2; S. Decatur, Private affairs of G. W., from the records and accounts of Tobias Lear esquire, his secretary, Boston 1933; W. S. Baker, Itinerary of General Washington from June 15, 1775 to Dec. 23, 1783, Filadelfia 1892, assai utile; id., W. after the revolution, ivi 1898; W. C. Ford, New York 1900, voll. 2; E. E. Hale, ivi 1888; C. Ging, Londra 1894; P. L. Ford, Filadelfia 1896, rist. 1926; R. Parkinson, Tour in America, Londra 1805, voll. 2; la parte che descrive la sua visita a Washington fu ristampata a Baltimora nel 1909; D. Ramsay, New York 1807; L. M. Sears, ivi 1932; W. R. Thayer, Boston 1922; G. W. P. Custis, Recollections of W., Filadelfia 1859 e rist.; N. Hapgood, New York 1901; W. Heath, Memoirs, Boston 1798; Tobias Lear, New York 1906; B. J. Lossing, ivi 1860, voll. 3, e ristampe; H. B. Carrington, W. the soldier, ivi 1899; R. Rush, W. in domestic life, Filadelfia 1857. É anche essenziale studiare le presentazioni di W. nelle principali storie degli Stati Uniti: Avery (V-VII), Bancroft, Belcher, Channing (III-IV), Hildreth, Lecky, McMaster (I-II, il quale ha riunito tutti gli attacchi contro W.), Trevelyan, Van Tyne (I-II), Von Holst, Winsor (VI-VII, il quale ha anche una particolareggiata iconografia).
Per gli attacchi contro W., v. anche: J. C. Fitzpatrick, The G. W. scandals, (Alexandria 1929) e W. E. Woodward, G. W., the image and the man (il quale non sempre è obiettivo), New York 1926. Una miniera di informazioni utili con un'incredibile confusione di cose inutili si trova nei tre enormi volumi pubblicati dal governo americano per il bicentenario: History of the George Washington Bicentennial celebration, Washington 1932, voll. 3.
Per la famiglia Washington, v.: H. I. Longden, History of the W. family, rist. dal Genealogists Magazine, Northampton 1927; H. C. Smith, Sulgrave manor and the Washingtons, Londra s. a. (ma 1933); M. D. Conway, English ancestry of W., in Harper's Magazine, LXXXIV, 1891; ma specialmente la celebre pubblicazione: H. F. Waters, Examination of the English ancestry of G. W., in New England Historic Genealogical Society, Boston 1889.
Iconografia: G. Eisen, Portraits of W., New York 1932, voll. 3; C. M. Garland, W. and his portraits, Chicago (1931); F. D. D. Whittemore, G. W. in sculpture, Boston 1933; J. H. Morgan, Two early portraits of G. W., Princeton, N. J. 1927; e Winsor, s. citato.
Bibliografie: La più completa bibliografia è la raccolta delle schede su W. che vende la Library of Congress, e che si trova nel grande catalogo nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma. Inoltre: W. S. Baker, Bibliotheca washingtoniana, Filadelfia 1889; Catalogue of the Washington Collection in the Boston Athenaeum (compresa la biblioteca venduta da W. a Henry Stevens), Cambridge 1897; Channing, Hart, Turner, Guide to the study of American history, capitoli 19-22, Boston 1912; A. B. Hart, G. W., Chicago 1927; Wisconsin State historical society, G. W. a list of manuscripts, books and portraits in the library, Evansville, Wis., 1932.