geografia economica
Studio sistematico dell’organizzazione spaziale e della localizzazione dell’attività economica.
Lo studioso che per primo contribuì alla elaborazione di tale disciplina fu J.H. von Thunen, che nella prima metà del 19° sec. elaborò un modello in grado di dare conto della localizzazione dell’attività agricola in funzione dei costi di trasporto, che devono essere sostenuti per muovere prodotti aventi caratteristiche fisiche differenti verso un centro urbano, e dar conto delle rendite pagate sui diversi tipi di terra. Emerge così un vero e proprio modello di economia urbana, che descrive l’utilizzo della terra nei dintorni di una città, la cui esistenza non viene però spiegata in alcun modo. Neppure il tentativo di A. Marshall, fondato sulla considerazione dei possibili effetti indotti da economie esterne (➔ esternalità), riesce a dare pienamente conto dell’esistenza dei fenomeni di agglomerazione (➔) che sono alla base della nascita dei centri urbani, e più in generale della concentrazione dell’attività produttiva.
I contributi di W. Christaller e A. Losch – elaborati nel corso degli anni 1930 e 1940, nell’alveo della teoria centro-periferia – descrivono le proprietà efficienti di una struttura geografica caratterizzata dalla presenza di una suddivisione gerarchica tra centro e periferia. Ancora una volta non viene però fornita una spiegazione precisa dei processi che conducono alla formazione di tale gerarchia. È solo a partire dalla seconda metà degli anni 1980 che P.R. Krugman, sulla base degli studi da lui stesso condotti sul fronte delle relazioni commerciali internazionali in presenza di rendimenti crescenti di scala, contribuisce a ridare impulso agli studi di g. e., dando piena spiegazione dei processi di agglomerazione.
Nasce così la nuova g. e. (new economic geography), un filone di studi in cui vengono formalizzati i legami esistenti tra concorrenza imperfetta, rendimenti crescenti, complementarietà settoriali e processi di causazione cumulativa, che erano già stati proposti da studiosi quali A.O. Hirschman, K.G. Myrdal, R. Nurkse e P. Rosenstein Rodan, senza però un’adeguata rappresentazione formale. Tratto distintivo di questo nuovo filone di studi rilanciato da Krugman è la determinazione endogena dei processi di agglomerazione dell’attività produttiva, in particolare quella del comparto manifatturiero. Nel modello più semplice si assume l’esistenza di un’attività tradizionale (agricoltura), con rendimenti di scala costanti e mercati concorrenziali, e di un’attività moderna (manifatturiero), in cui invece la forma di mercato è imperfettamente concorrenziale e i rendimenti di scala sono crescenti. Entrambe le attività utilizzano come unico fattore produttivo il lavoro che può muoversi da una regione/settore all’altra. Proprio la mobilità della forza lavoro produce sia effetti centripeti, che spingono verso una ulteriore agglomerazione dell’attività produttiva moderna, sia effetti centrifughi, che giustificano invece una dispersione della stessa. La concentrazione di forza lavoro in una regione determina infatti legami sia a valle sia a monte, che tendono ad autosostenersi e una maggiore domanda finale, dovuta al fatto che i lavoratori sono anche consumatori. Ciò spinge le aziende a ricollocarsi all’interno di quella stessa regione, poiché diventa più semplice sostenere i costi fissi di entrata su un mercato di maggiori dimensioni. Si accresce così l’offerta di nuovi prodotti, un fenomeno che tende ad attirare nuovi lavoratori. D’altro canto, l’agglomerazione di attività produttiva/lavoratori genera anche esternalità negative che conducono a una dispersione dell’attività stessa. Il modello descritto può essere utilizzato per spiegare i fenomeni di agglomerazione/polarizzazione a livello sia regionale sia nazionale, dando conto anche delle tendenze relative alla originaria concentrazione e alla successiva disintegrazione geografica dell’attività produttiva manifestatasi nelle ultime fasi del processo di globalizzazione (➔).