Geografia dell’Impero
L’anno 298 è segnato da una serie di vittorie decisive dei tetrarchi. Nel settore orientale, mentre Diocleziano riporta l’ordine in Egitto, Galerio sferra un attacco decisivo contro i sasanidi e insedia il principe arsacide Tiridate sul trono dei suoi avi in Armenia. In Occidente, Massimiano combatte le tribù berbere e, pur costretto ad abbandonare gran parte della Mauretania, riprende il controllo del Nordafrica, mentre in Europa Costanzo Cloro, reduce dalla riconquista della Britannia, sconfigge gli alamanni, consolida la frontiera renana e mette le Gallie al riparo dalle invasioni.
Dopo un lungo periodo di crisi e invasioni, le città dell’Impero sembrano poter respirare. È il caso di Augustodunum (oggi Autun, in Borgogna), che aveva sofferto un assedio e poi il saccheggio da parte di militari ribelli. Uno dei suoi cittadini più illustri era il retore Eumenio, che vantava lontane origini greche: il nonno, un ateniese che aveva insegnato a Roma, si era trasferito nella città gallica per ricoprire una cattedra di retorica. Il nipote aveva seguito le sue orme per poi rivestire l’importante carica di magister memoriae sotto Costanzo Cloro. Per ricompensarlo dei suoi servigi, il Cesare gli aveva concesso di tornare a insegnare nella sua città con un salario consistente. Intorno al 298, Eumenio accenna a queste vicende in un elegante discorso pubblico, rivolto a un vir perfectissimus, ovvero il governatore di una delle province galliche. Mentre gli imperatori si impegnano a ripopolare e restaurare la città, il retore propone di restaurare, a costo di impegnare anche il proprio salario, le scuole Maenianae1.
Nella conclusione del discorso (la peroratio), Eumenio si lancia in una vivida descrizione delle pitture delle sale dell’edificio, che permettevano agli studenti di rivivere le campagne militari dei tetrarchi e soprattutto di contemplare una grande carta dell’ecumene, che riportava «tutte le terre e i mari tutti, e le città, le tribù e i popoli che i principi invitti hanno rispettivamente ricostruito con amore, sconfitto con valore, soggiogato con il terrore». Vi era rappresentata «la posizione di tutti i luoghi con i rispettivi nomi, tutti i fiumi con le loro sorgenti e foci, i luoghi in cui il mare forma dei golfi e quelli dove l’Oceano circonda l’orbe ovvero vi penetra con forza»2. Poiché Eumenio indica espressamente che il governatore aveva già visto la carta con i suoi occhi, si è pensato che la pittura del mappamondo fosse stata eseguita in un’epoca precedente, e che il retore proponesse di restaurarla, aggiungendo le pitture delle guerre nelle province3. Ma è più ragionevole ritenere che il retore avesse mostrato al governatore una mappa mundi manoscritta, proponendogli di riprodurla su grande scala nell’edificio di cui caldeggiava la (ri)costruzione: del resto, è proprio nel III secolo che Giulio Solino, nei suoi Collectanea, riprende la descrizione del mondo esposta nella Naturalis historia di Plinio, ma, a differenza di quest’ultimo, utilizza una mappa come punto di riferimento4. Quanto alle pitture destinate a rappresentare le imprese dei tetrarchi, la descrizione di Eumenio suggerisce un’ispirazione a modelli preesistenti, alludendo a personificazioni di province o contrade5. Ritroviamo lo stesso genere di immagini un secolo più tardi nelle figure della Notitia Dignitatum, un dettagliato inventario delle cariche militari e civili dell’amministrazione imperiale, concepito molto probabilmente con scopi pedagogici6. Le rappresentazioni geografiche della scuola di Augustodunum formavano un complesso programma destinato a suggerire ai giovani studenti, e certo anche ai notabili locali e all’anonimo governatore che le aveva contemplate, una vera e propria mappa mentale.
A distanza di qualche generazione, ritroviamo un simile intento retorico in un testo scritto sotto Costanzo II: la Expositio totius mundi et gentium, redatta in greco e successivamente tradotta in latino (vi è anche una rielaborazione in chiave cristiana, la Descriptio totius mundi, probabilmente del VI secolo). Anche questo testo formula un elogio dell’Impero, senza però insistere sui successi militari, ed evidenziando invece l’abbondanza delle province (a esclusione della Grecia e dell’Africa)7. Questo spiccato interesse per la produttività delle città e delle province imperiali ha fatto pensare che l’anonimo autore fosse un mercante. Si è poi immaginato che si trattasse di un alto funzionario imperiale, ma anche questo è improbabile, dal momento che, oltre a una serie di anacronismi amministrativi più o meno giustificabili, egli giunge a considerare il Noricum come una città: anche questa identificazione è quindi erronea. Più probabilmente, l’Expositio è stata redatta da un sofista delle province orientali e il suo testo, come gran parte di queste operette geografiche o pseudo-amministrative, era destinato più che probabilmente all’insegnamento8.
La tetrarchia consolida il processo di mutazione del sistema provinciale creato da Augusto. Risale proprio al 298, la data del panegirico di Eumenio, la prima attestazione di vicarii per le grandi aree chiamate diocesi: a questa prima riorganizzazione segue ben presto quella delle province. I tetrarchi si spartiscono le zone di operazione, preoccupandosi al tempo stesso di evidenziare l’unità imperiale: intorno al 291, un anonimo panegirista paragona l’Impero di Diocleziano e Massimiano a un patrimonium indivisum di cui essi fruiscono insieme, come fratelli gemelli9. A partire dal 305, le titolature dei componenti della tetrarchia evocano con insistenza l’impero universale che si identifica nell’orbis: oltre ai titoli frequenti di pacator o di restitutor orbis, si trovano espressioni come orbis terrarum dominus (Costanzo Cloro), ovvero si rispolvera la formula traianea di propagator orbis terrarum, utilizzata da Massimino Daia, fino ad arrivare alla vastissima gamma di varianti della titolatura di Costantino, dove la menzione dell’imperium Romanum si alterna a quella dell’orbis terrarum10.
Il panegirico a Massimiano (289) descrive gli obblighi del mestiere di imperatore
Si tratta di assumere nel proprio animo la cura di uno stato di tale grandezza, occupandosi dei destini del mondo intero, e, dimenticando in qualche modo se stessi, di vivere per i popoli ponendosi al disopra delle cose umane su un podio di difficile ascesa, da cui si può avere una visione di tutte le terre e i mari, e d’altra parte di ispezionare con gli occhi e la mente i luoghi dove il bel tempo sia sicuro e quelli dove si scatenerà forse una tempesta, controllando i governatori che emulano la vostra giustizia e i generali che sono al servizio della gloria del vostro valore. E ancora di accogliere messaggeri venuti da ogni parte e di spedire altrettanti ordini, preoccuparsi di tutte queste città, popoli e province, e trascorrere tutte le notti e i giorni senza mai smettere di pensare alla salvezza di tutti11.
Per assicurare questo costante controllo, un Augusto e i suoi delegati dovevano avere un quadro definito e aggiornato dei territori dominati, assicurato dal lavoro capillare della burocrazia. Per diventare funzionari, occorreva acquisire una buona conoscenza della geografia amministrativa imperiale: tra i documenti superstiti di questo apprendistato si può annoverare il cosiddetto Laterculus Veronensis, una lista delle diocesi e delle province imperiali conservata in un manoscritto della Capitolare di Verona. Questo breve testo rispecchia la situazione amministrativa del 314, quando la ripartizione per diocesi è ormai operativa12. Come analoghi documenti del V secolo (la Notitia Dignitatum o il Laterculus di Polemio Silvio), anche la lista di Verona va considerata come un testo pseudo-amministrativo, destinato probabilmente a uso pedagogico, senza quindi l’effettivo carattere ‘ufficiale’ che gli è stato implicitamente attribuito da chi se ne è occupato tenendo conto dei soli aspetti amministrativi.
La particolare sensibilità per le divisioni geografiche dei tetrarchi si riscontra in vari elementi. L’accordo del 314 fra Costantino e Licinio, alla fine di un lungo periodo di lotte per il potere, determina una divisione amministrativa tra Oriente e Occidente che di fatto continua a sussistere anche dopo la sconfitta di Licinio nel 324. Intorno al 313, il governatore della Sicilia dedica due iscrizioni gemelle a Costantino e a Licinio: entrambi vengono definiti rector orbis terrae13. Vengono create anche nuove denominazioni: dopo le vittorie sul fronte renano, Costantino conia delle emissioni monetali dove l’iconografia del verso rappresenta la tradizionale personificazione di un regno vinto, illustrata da legende come Alamannia e Francia: non si tratta più di scomposte tribù barbariche, bensì di vere e proprie confederazioni che, nella propaganda imperiale, vengono elevate alla dignità di Stato.
Un medaglione aureo coniato a Treviri fra il 313 e il 315 rappresenta sul recto un ritratto di Costantino e al verso l’immagine stilizzata in prospettiva di una città ovvero un palazzo cinto da mura, la cui porta è sormontata da una Vittoria, mentre al disotto si estende una superficie acquatica. Ai piedi della fortezza, da entrambi i lati, siedono due barbari vinti: quello a sinistra ha capelli lunghi e barba, quello a destra porta un tipico copricapo orientale. La legenda recita: Augg[ustorum II] gloria. Il medaglione – un doppio solidus – è stato a suo tempo interpretato come la prima raffigurazione della città di Treviri, mentre la superficie acquatica rappresenterebbe il Reno14. Ma in realtà la menzione dei due Augusti e l’iconografia dei prigionieri barbari danno al medaglione un più ampio e complesso significato: la fortezza invincibile e inespugnabile dell’Impero, che si estende sul Mediterraneo, è ben protetta dalla coppia degli Augusti che vincono i germani a Occidente, i persiani a Oriente. Al tempo stesso, questa fortezza sembra coincidere con il palazzo imperiale di Treviri, sede di Costantino, l’Augusto rappresentato sul medaglione. Se vi è un solo Impero, presto vi sarà anche un solo imperatore, come si vede anche da una dedica epigrafica della città di Sorrento, che onora Costantino con un’iscrizione dedicata instauratori orbis terrarum perpetuo / ac piissimo15.
La ripresa dell’Impero sotto la tetrarchia segna anche la ristrutturazione del complesso sistema viario imperiale: risale al periodo tra gli anni 284 e 313 un’intensa produzione di miliari con le relative iscrizioni. Viene potenziato il servizio del cursus publicus, il cui uso viene concesso eccezionalmente, su ordine imperiale o del governatore, a personaggi di riguardo: a partire dal 314, con il concilio di Arles, ne usufruiscono i prelati che si recano ai grandi concili riuniti dall’imperatore, o che vengono espressamente trasferiti in sedi importanti. Ma Costantino ha agevolato anche il viaggio in Egitto di Nicagora, discendente di Plutarco di Cheronea e dadouchos (portatore di fiaccola) nei Misteri Eleusini. Due iscrizioni dell’ambulacro del sepolcro di Ramses VI, nella Valle dei Re, testimoniano la visita di Nicagora alle «Divine Siringhe», compiuta a distanza di molti anni da quella del «divino Platone», con il contributo dell’«eusebestatos Costantino»16. Si è supposto, forse a ragione, che Nicagora fosse stato incaricato di organizzare con le autorità locali il trasporto di un obelisco, poi effettuato da Costanzo II, dal tempio di Ammone a Tebe fino al Circo Massimo a Roma (oggi nella piazza di San Giovanni in Laterano)17.
Il discorso Basilikon di Libanio, pronunciato tra il 346 e il 349, evoca i viaggiatori che «vuoi per le loro ricerche, vuoi per altri motivi» si spostano per terra e per mare, protetti dalla compattezza dell’Impero18. Libanio era particolarmente sensibile alla mobilità degli studiosi, e qui coglie l’occasione di celebrare Atene, dove aveva studiato fra il 336 e il 340, e la Bitinia, ovvero la città di Nicomedia, che lo aveva accolto dopo la sua cacciata da Costantinopoli nel 342. Una quarantina di anni dopo, i suoi discepoli, originari di tutto l’Oriente, formano una vera e propria rete nella città di Antiochia19.
Misure speciali vengono prese per assicurare il funzionamento delle stazioni di posta (mansiones) lungo le strade: si presta maggior attenzione alla qualità del cibo nei magazzini, destinato anche ai soldati20. Quando poi a mettersi in viaggio è un imperatore, il suo percorso viene reso noto con due mesi di anticipo, in modo che le comunità locali possano attrezzarsi21. Per gli autori cristiani, le mansiones rappresentano un pericolo, in particolare i luoghi di perdizione per eccellenza, le locande, dove i chierici non hanno il diritto di entrare (interdizione tuttora prevista dalle disposizioni canoniche)22. Ma questo non impedisce agli imperatori cristiani di potenziare la rete dei luoghi di passaggio, e talvolta si costringono personaggi di spicco delle comunità locali a sobbarcarsi la direzione delle mansiones. Un gruppo di notabili africani se ne lagna con Costantino, che in un rescritto del 334 pone fine a questa iniuria, decretando che «nessun individuo sia costretto a prestare il suddetto servizio obbligatoriamente»23.
Naturalmente, gli itineraria romani avevano un’origine più antica, come mostrano vari esempi di tradizione sia letteraria che epigrafica24. Ma non è forse un caso che la raccolta di percorsi nota come l’Itinerarium Antonini (il cui modello di base è la ben più antica Chorographia di Pomponio Mela) si dati in età tetrarchica ovvero agli inizi dell’età costantiniana25. Risale al IV secolo la cosiddetta Tabula Peutingeriana, una spettacolare realizzazione grafica di un Itinerarium che abbraccia i territori imperiali e quelli limitrofi, dalla Britannia all’India26. La mappa originale, di cui ci resta una copia medievale (probabilmente del XIII secolo), era lunga circa sei metri e alta una trentina di centimetri, e sembra risalire al IV secolo, un’epoca in cui Costantinopoli era già stata fondata e Antiochia non aveva ancora perduto l’antico prestigio: le due città, insieme a Roma, sono infatti rappresentate da una caratteristica vignetta che le distingue dagli altri centri, come si vedrà oltre. La peculiare forma allungata della carta determina notevoli distorsioni, ma la sua logica geografica è preservata dalla successione degli itinerari: l’effettiva funzione della Tabula era infatti quella di riportare le distanze dei percorsi.
Non è casuale che l’autore dell’Expositio sia stato stato identificato come un mercante. In effetti, nel mondo antico il mercante rappresenta una delle figure sociali più mobili. Un viaggio d’affari condotto e portato a termine sotto Costantino è attestato da un dossier eccezionale: una serie di papiri redatti da Teofane, un cittadino di Hermopolis nella provincia della Tebaide, che intraprende un viaggio di circa sei mesi dall’Egitto ad Antiochia, dal marzo all’agosto del 32027. L’archivio di Teofane rivela importanti dettagli del viaggio di un notabile locale, che porta con sé delle lettere di referenza per i governatori. Uno dei papiri riporta l’inventario degli oggetti trasportati: un bagaglio adeguato, con i mobili e i soprammobili apparentemente necessari per viaggiare, e anche ricche vesti e gioielli, per assicurare un aspetto dignitoso al viaggiatore, nonché le provviste e gli altri oggetti (compreso un flabello per farsi ventilare) necessari per il lungo tragitto. Teofane reca con sé anche mercanzie del suo paese come abiti e stoffe.
L’itinerario di Teofane comprende una sosta di circa due settimane a ‘Babilonia’, la fortezza di origine achemenide che si sviluppa in epoca tetrarchica come sede della provincia di Aegyptus Herculia e costituisce il primo nucleo abitativo della futura metropoli del Cairo. Il mercante si occupa dei suoi affari, non senza aver avvertito il governatore della sua presenza. Poi si sposta nella città di Athribis, dove compra dei viveri, e di lì si dirige verso Antiochia, che raggiunge in ventiquattro giorni, menzionando trentacinque località da lui attraversate. Le tappe sono variabili: in un sol giorno vengono percorse dalle sedici alle quarantacinque miglia romane. Poiché, a un certo punto del cammino, i «ragazzi» (i servitori del seguito) non bastano a difendere la carovana dai pericoli, per attraversare un segmento più pericoloso del viaggio vengono assoldati sei «sarmati», pagati in tutto novecento dracme. Le tappe della carovana vengono scrupolosamente annotate, con le relative distanze in miglia.
Teofane e il suo seguito si trattengono ad Antiochia per due mesi e mezzo, il tempo necessario per svolgere gli affari richiesti e le necessarie pubbliche relazioni con i funzionari locali. I papiri riportano scrupolosamente l’elenco delle spese, che comprendeva generi di prima necessità e l’absinthion, un vino aromatizzato. Il giorno 2 del mese egizio di Pauni (dal 26 maggio al 24 giugno), Teofane annota la spesa con il relativo prezzo in dramme:
pane di qualità 800
pane ordinario per i ragazzi 1.200
4 libbre di carne 1.200
uova 400
focacce per il pranzo 600
salsicce 400
formaggio 200
pesce sottaceto 100
olive 100
pesce fresco 300
noci e fichi secchi per il pranzo 200
verdure 100
legna da ardere 200
olio d’oliva ordinario 700
uno spathion di vino 2.800
kemoraphanos 100
noci e fichi secchi per la cena 100
porri 100
totale per la giornata 1 talento e 3.700 dramme
Le spese proseguono per il viaggio di ritorno: a un certo punto – siamo ormai alla fine di luglio – Teofane acquista cento dramme di «acqua di neve», ovvero acqua ghiacciata con neve di montagna. Il ritorno si svolge seguendo la medesima routine; nulla sappiamo degli affari di Teofane, né delle ragioni che lo hanno portato a svolgere una missione tanto costosa e forse destinata a essere rimborsata dal suo emissario o dalla sua comunità, come sembra desumersi dallo scrupolo con cui vengono compilati i giustificativi di spesa e come del resto era previsto dalla legge28.
Data la loro natura, i memoranda di Teofane sono importanti soprattutto per ricostruire il suo percorso e per i dati economici. I personaggi ufficiali di tanto in tanto menzionati restano figure difficilmente identificabili. Talvolta affiora qualche dettaglio supplementare: durante il soggiorno ad Antiochia, per il mese egizio di Pauni, Teofane registra la considerevole spesa di un talento destinato all’eusebeia, ovvero per onorare le cerimonie religiose – non è chiaro se il denaro si riferisca all’intero mese o a una particolare festività che si teneva ad Antiochia29. Originario di Hermoupolis, città che deriva il suo nome da quello del dio Ermete Trismegisto, Teofane può essere definito un seguace di un culto pagano tradizionale (infatti, durante il passaggio da Byblos, in Fenicia, acquista un contenitore per il vino in forma di Sileno). Certo non poteva ignorare i cambiamenti in atto, ma i suoi papiri non ne fanno menzione.
Il potere assoluto di Costantino è celebrato dallo storico Prassagora di Atene, un pagano che all’età di ventidue anni scrive «due libri di storia su Costantino il grande» (Phot., Bibl. 62,20B). Nel breve riassunto che la Biblioteca di Fozio dedica a quest’opera perduta, egli spiega così la sua presa del potere assoluto il dopo la sconfitta di Licinio:
pertanto il grande Costantino, quando il grande impero cercava un uomo degno, ottenne per sé i suddetti regni. Infatti era erede di quelli del padre, e di quello dei romani per aver sbaragliato Massimino; quello di Grecia, Macedonia e dell’Asia inferiore, poiché aveva posto fine all’impero del menzionato Licinio. Non solo, ma si annesse anche il potere sull’altra parte su cui regnava Diocleziano, poiché Licinio l’aveva posta sotto la sua giurisdizione, dopo aver ucciso in guerra Massimino, che era stato successore di Diocleziano. Impadronitosi di tutto l’impero, egli poté riunificarlo in uno solo, e fondò Bisanzio dandole il proprio nome. Dice quindi Prassagora, che pure era un adepto del culto dei greci, che per tutta la sua virtù e le sue ottime qualità l’imperatore Costantino offuscò tutti quelli che avevano regnato prima di lui30.
Non è quindi paradossale la decisione di fondare Costantinopoli quando, dopo la vittoria a Crisopoli, Costantino celebra i propri vicennalia e il potere assoluto sull’Impero. La nuova Roma non viene fondata come Roma alternativa, come vollero spiegare gli autori cristiani qualche generazione dopo, bensì come un prolungamento di Roma, una sorta di avamposto dell’Occidente puntato verso Oriente31. L’unità imperiale garantisce oltretutto la circolazione di almeno una parte dei sudditi fra Oriente e Occidente: così, «chi abita in Oriente non deve privarsi delle meraviglie del Nilo, e quelli che presso il Nilo vivono non sono ignari delle bellezze dell’Occidente»32.
Significativamente, il luogo più importante per la simbologia cosmica del nuovo Impero di Costantino è l’ippodromo di Costantinopoli, che raccoglie l’eredità del simbolismo cosmico romano e in particolare quello del culto solare33. L’ippodromo è un vero e proprio riassunto del mondo, dove la terra è rappresentata dall’arena, l’Euripo simboleggia il mare e le acque che la circondano, mentre l’obelisco centrale evoca la volta celeste e il sole allo zenit. Analoghe corrispondenze cosmiche si ritrovano: nei colori tradizionali delle quattro fazioni del circo – che ricordano le quattro stagioni e i quattro elementi –, nelle parti che compongono l’ippodromo (le dodici porte dei Carceres, le tre metae coniche situate alle estremità della posta, le ventiquattro corse, etc.) e, infine, nel senso stesso della corsa che si svolge fra un Oriente e un Occidente34. Ancora al tempo di Costantino VII Porfirogenito, nel X secolo, il Libro delle cerimonie preserva un antico rito di evocazione, in cui l’imperatore è invocato come una presenza solare35.
A circa un quarto di secolo di distanza, il «grande impero» è dominato dai due figli di Costantino, Costanzo e Costante. Il giovane oratore Libanio (tenendo probabilmente conto del modello di Prassagora) li celebra parallelamente nel discorso Basilikon, che peraltro si conclude con l’elogio di un Impero unitario ispirato al modello dell’Encomio a Roma di Elio Aristide, con «Una sola terra e un solo mare, le isole in comune, i porti aperti, le ‘Porte’ [ovvero i valichi di montagna] spalancate. Le navi da carico, che trasportano ovunque mercanzie d’ogni provenienza, si affollano nei porti […]. Negli scali di Sicilia si trovano i fenici, e viceversa nei porti fenici vi sono i siciliani»36. La situazione rispecchia le misure intraprese da Costantino per potenziare e facilitare il commercio marittimo, con l’emissione di varie misure a favore dei navicularii37.
I mutamenti della geografia amministrativa sono ribaditi dalla denominazione ufficiale di alcune province imperiali, almeno in Oriente, dove la cristianizzazione dell’Impero aggiunge nuovi elementi al quadro tradizionale. È forse già sotto Costantino, e certamente sotto Costanzo II, che la Frigia diventa Phrygia Salutaris, un epiteto che evoca la salvezza divina e che verrà di lì a poco attribuito anche alla Palestina, e più avanti alla Galazia, alla Macedonia e alla Siria. Col tempo, il cambiamento di denominazione accompagna lo sforzo per imporre una disciplina ecclesiastica unitaria, mentre la Chiesa elabora di pari passo un sistema amministrativo parallelo38.
Anche il primo concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 325 alla presenza dell’imperatore, voleva essere almeno in teoria un momento di aggregazione geografica per i vescovi invitati da ogni luogo dell’Impero. In realtà, solo una parte dei circa 1.800 vescovi vi poté partecipare39, provenienti in maggioranza dall’Oriente, e questo malgrado le facilitazioni offerte dall’Augusto, che concedeva ai vescovi l’uso del cursus publicus. Nella lettera di convocazione, conservata solo nella versione siriaca dei canoni del concilio, Costantino allude alla centralità di Nicea, preferita all’originaria proposta di Ancira, giustificando però la scelta con ragioni pratiche, come il clima salubre, la possibilità di convocare più agevolmente dei vescovi dall’Italia e dal resto d’Europa, e soprattutto di permettere all’imperatore (definito da Eusebio «vescovo per le cose esterne») di presenziare al concilio40.
Il processo di cristianizzazione investe anche la geografia e l’etnografia. Questo non implica però una rottura rispetto alla tradizione classica: la struttura teorica della geografia antica non viene messa in discussione e in genere i cristiani non fanno che aggiornare per i loro scopi la geografia classica senza per questo sconvolgerne del tutto le strutture41. D’altra parte, la diffusione del culto dei martiri cristiani porta alla creazione di una nuova geografia sacra, che si distingue da quella pagana per una sorta di mobilità dei luoghi, che più avanti verrà ulteriormente facilitata dal fenomeno della traslazione delle reliquie42. Costantino contribuisce personalmente a modificare il paesaggio della città di Roma, con la costruzione delle grandi basiliche di Pietro e Paolo, e operando altresì in un ampio settore dell’Oriente, dalla Cilicia alla Palestina, con la distruzione di importanti santuari pagani43. I cristiani, che stavano elaborando da tempo una nuova storiografia, possono ora proiettare materialmente sui territori mediterranei anche la ‘diversità’ della loro geografia.
Naturalmente, il luogo privilegiato è la Terrasanta (termine che risale al VI secolo). Già sotto Costantino, a Gerusalemme ci si raduna in preghiera sul monte degli Ulivi:
tutti i fedeli di Cristo si sono raccolti da ogni parte della terra, non come un tempo per la festività in Gerusalemme, né per adorare nel tempio che prima si ergeva in Gerusalemme, ma per recarsi a conoscere la distruzione e la desolazione di Gerusalemme, avvenute secondo la profezia e per adorare «sul monte degli Ulivi che è di fronte a Gerusalemme», dove fu presente la gloria del Signore, che aveva abbandonato la città di prima. Secondo l’esposizione che abbiamo fatto, veramente «si fermarono i piedi» del Signore e Salvatore nostro, dunque dello stesso Logos di Dio, grazie a quell’abito umano che aveva indossato, sul monte degli Ulivi. Ciò avvenne presso quella grotta, che là viene mostrata, quando pregò e trasmise ai suoi discepoli, sulla cima del Monte degli Ulivi, i misteri sul compimento della storia44.
Forse già nei primi anni del IV secolo, Eusebio di Cesarea redige la prima versione dell’Onomasticon, che faceva parte di una più grande opera sulla topografia della Palestina. Composto su richiesta di Paolino di Tiro (morto nel terzo decennio del quarto secolo), questo scritto attinge a una fonte che rispecchia la situazione geografica e amministrativa degli inizi della tetrarchia45.
Il progetto di Eusebio è di estremo interesse per comprendere le modalità della transizione. Nell’epistola introduttiva a Paolino, egli spiega il suo metodo di lavoro: dapprima ha tradotto nell’equivalente greco «i nomi degli ethnē che vi sono nel mondo, e che appaiono nella Sacra Scrittura con denominazioni ebraiche», passando poi alla lista dei toponimi dell’antica Giudea, e aggiungendo infine un’analisi dettagliata dei luoghi di memoria di Gerusalemme, la «rinomata metropoli» degli ebrei. Scopo dell’opera è quello di identificare i siti antichi, descrivendo eventualmente lo stato in cui versano, aggiungendo ulteriori particolari e trovando eventualmente un contatto tra il testo biblico e la realtà contemporanea46.
La sensibilità geografica di Eusebio (che ritroviamo anche nella Storia dei martiri della Palestina, con la sua mappa di luoghi di memoria tra Gaza e Scitopoli) merita particolare attenzione. La geografia biblica eusebiana non presenta le caratteristiche della geografia classica descrittiva, né risulta utilizzare il supporto di una mappa bidimensionale. I suoi punti di riferimento sono le strade romane ovvero, quando un sito biblico non si trova presso una strada, le città o gli elementi di una certa importanza. I particolari più esaurienti, con i riferimenti alle città e ai campi militari, si limitano alla Palestina e all’Arabia, mentre i dati più completi sulla Giudea si riferiscono esclusivamente ai centri fondati o riorganizzati dai romani dopo la costituzione della provincia nel 6 d.C. Si è dunque concluso che Eusebio, vescovo di Cesarea dopo il 313, lavorasse forse con documenti imperiali, che erano disponibili presso gli uffici del governatore della Palaestina I47.
Un sistema analogo a quello dell’Onomasticon (ma con alcune varianti ‘d’autore’) si ritroverà nel mosaico pavimentale della chiesa di Madaba in Transgiordania (VI secolo), con la sua celebre carta dei Luoghi Santi48. Ma già nella seconda metà del V secolo, la geografia dell’Asia Minore e della Palestina mostra il suo forte sviluppo nelle cosiddette carte di san Girolamo, tramandate da un manoscritto medievale e risalenti forse all’iniziativa di Eucherio di Lione, nell’ambito della costruzione di una mappa mundi universale che abbracciava tutto l’Impero49. In definitiva, la maggiore sensibilità per gli elementi geografici e paesistici sembra riscontrarsi anche nelle rappresentazioni cartografiche.
Poco tempo dopo il passaggio di Teofane dalla Palestina, l’anziana madre di Costantino intraprende un viaggio significativo in questa regione, tra il 326 e il 328. La politica religiosa di Costantino determina un cambiamento di prospettiva: Roma resta il centro ideale dell’Impero, Costantinopoli il suo prolungamento ideale verso Oriente, tuttavia cresce l’interesse per i Luoghi Santi, verso i quali peraltro i cristiani avevano già cominciato a viaggiare (un esempio illustre è quello di Origene, nella prima metà del III secolo). I viaggi di Elena e Costantino segnano l’avvio di una rivisitazione geografica della Terrasanta destinata a mutare la mappa mentale tardoantica. Alla griglia tradizionale dei riferimenti geografici si aggiungono da una parte il Paradiso Terrestre e dall’altra Gerusalemme, centro del mondo nella tradizione biblica. Il viaggio di Elena – una peregrinatio religiosa non priva di risvolti politici, in un Oriente non del tutto fedele al nuovo imperatore – aveva il fine ultimo di costruire edifici cristiani nei Luoghi Santi50.
Negli ultimi anni del regno di Costantino, un anonimo pellegrino – forse un alto funzionario – compila un itinerario che descrive il viaggio, intrapreso nella primavera del 333 e conclusosi più o meno un anno dopo, da Bordeaux fino a Gerusalemme e ritorno (in tutto, più di cinquemila miglia romane). Il testo elenca le varie civitates, mutationes e mansiones del percorso con le relative distanze, e menziona talvolta insediamenti minori come il vicus, il castellum o il palatium (si designa con questo nome una stazione particolarmente attrezzata, degna di accogliere i membri del palazzo imperiale). Il testo mostra anche una spiccata sensibilità per i passaggi da una provincia all’altra (oltretutto, le distanze da Bordeaux a Tolosa sono espresse in leghe anziché in miglia). Questo sembra rivelare un’implicita consapevolezza delle differenze amministrative, etniche e culturali51.
A una prima lettura, l’Itinerarium Burdigalense appare un elenco di luoghi arido e schematico, senza particolare sensibilità teologica e decisamente meno interessante della Peregrinatio Egeriae, scritta a distanza di due generazioni. Nondimeno, il testo rivela aspetti di un certo rilievo52. A intervalli regolari, viene tenuto il conto delle sezioni in cui si suddivide il viaggio: da Bordeaux ad Arles, da Arles a Milano, da Milano ad Aquileia, etc., con il relativo computo delle miglia, del cambio dei cavalli e delle soste, con una certa enfasi accordata alle città attraversate dal percorso, senza trascurare alcuni momenti importanti di passaggio, come l’ascesa al passo della Matrona (il Monginevro).
Di fatto, un centro abitato acquistava maggior pregio per la sua vicinanza a una strada: tra il 328 e il 330, la borgata di Orcistus in Frigia ottiene da Costantino l’elevazione al grado di civitas in base a vari argomenti (a cominciare dall’adesione al cristianesimo), che evidenziano in particolare la «posizione favorevole di questo luogo, dove confluiscono quattro strade, e dove si trova una mansio che, a quanto dicono, risponde a tutte le pubbliche esigenze»53. In definitiva, lo status di un insediamento doveva rispondere a due criteri: uno amministrativo, legato a peculiari logiche burocratiche e fiscali, e uno culturale, definito dal suo grado di urbanitas. Ma non veniva trascurato il fattore economico, poiché si riteneva più importante che una città o una regione fossero ‘autosufficienti’ e, di conseguenza, non gravassero sull’economia generale, riprendendo l’antico ideale di autarchia. Ne consegue un’ekphrasis più retorica che realistica, dove i pregi decantati non corrispondono necessariamente alla realtà territoriale54.
Il pellegrino registra alcuni luoghi per il loro interesse religioso (Tarso e Filippi per san Paolo, ma anche Tiana, città natale del filosofo-mago Apollonio). Altre annotazioni rinviano a personaggi del passato come Alessandro e Annibale (definito rex Annibalianus, forse confondendolo con l’omonimo membro della casa di Costantino), o come lo stesso Euripide in Tracia, che più tardi verrà ricordato anche da Ammiano presso la cursualis statio di Arethusa (27,4,8). Ma non va trascurato il riferimento all’uccisione di Carino da parte di Diocleziano a Viminacium, episodio su cui abbiamo tradizioni discordanti: oggi si tende ad accreditare l’Epitome de Caesaribus (39,11), che dà Carino vincitore nell’unica battaglia combattuta contro Diocleziano (o contro l’usurpatore Sabino55), sulle rive della Morava. Il pellegrino di Bordeaux segue qui la tradizione favorevole ai tetrarchi, che ritroviamo in Eutropio e, ancor più marcatamente, nell’Historia Augusta (h.A. Carin. XVIII 2). L’Itinerarium segnala l’uccisione di Carino dopo la menzione della civitas Viminacio, che dista peraltro dieci miglia dalla civitas Margo, il castello sulla Morava dove le fonti indicano il luogo della battaglia. Il pellegrino potrebbe aver raccolto una tradizione orale locale, diffusa in un centro come Viminacium, alla cui prosperità Diocleziano aveva ampiamente contribuito.
Il pellegrino evidenzia in modo particolare quattro metropoli: Milano, Roma, Costantinopoli e, naturalmente, Gerusalemme. Non sorprende più di tanto lo scarso interesse per un’antica, ricca e illustre città come Antiochia, laddove Costantinopoli ha appena cominciato la sua irresistibile ascesa, e Gerusalemme rappresenta una metropoli virtuale nell’immaginario del pellegrino cristiano, quando nella realtà la maggior parte dei luoghi di memoria ebraici e cristiani erano in rovina, ovvero occultati dalle strutture della colonia adrianea di Aelia Capitolina. L’anonimo di Bordeaux presenta invece una Gerusalemme ampiamente cristianizzata, non senza un riferimento alla romanizzazione della città sotto Adriano:
Vi sono in Gerusalemme due grandi vasche ai lati del Tempio (ovvero una a destra e una a sinistra), che costruì Salomone. Più avanti, in città, vi sono le vasche gemelle [la «piscina probatica»] con cinque portici, che chiamano Bethesda: ivi guariscono gli uomini che da molti anni sono malati. L’acqua delle vasche diventa rossa quando viene smossa. Vi è anche una cripta in cui Salomone torturava i demoni. Quivi è anche l’angolo di un’altissima torre dove salì Nostro Signore, e colui che lo tentava gli disse [lacuna: cfr. Mt 4,1-11], e il Signore gli rispose: «non tenterai il Signore dio tuo, ma lui solo servirai». Vi è un grande blocco angolare, di cui è detto: «la pietra, che i costruttori hanno scartato, è diventata chiave di volta». Sotto la sommità della torre vi sono molte stanze, dove si trovava il palazzo di Salomone. Vi è anche la camera in cui sedette a scrivere la Saggezza; questa camera è coperta con un solo blocco. Vi sono anche grandi cisterne di acqua sotterranea, e vasche costruite con grande impegno. Nello stesso palazzo, dove era il tempio costruito da Salomone, diresti che il sangue di Zaccaria sul marmo di fronte all’altare sia stato versato appena oggi. In tutto questo ambiente si possono vedere anche i segni dei chiodi delle calzature dei soldati che lo uccisero, che sembrano impressi nella cera. Vi sono due statue di Adriano e non lungi dalle statue vi è una pietra forata, dove gli ebrei si recano ogni anno e la ungono, si lamentano gemendo, si stracciano le vesti e se ne vanno. Vi è anche la casa di Ezechia, re di Giuda. E uscendo da Gerusalemme per salire a Sion, sul lato sinistro e giù nella valle, presso le mura vi è una vasca, detta Siloa, con un quadriportico, e fuori un’altra grande vasca. Questa fonte scorre per sei giorni e sei notti, ma poiché il settimo giorno è sabato, non scorre né di giorno né di notte. Da questa parte si sale a Sion e si vede il luogo in cui era la casa del sacerdote Caifa, e vi è ancora la colonna dove flagellarono Cristo. All’interno delle mura di Sion si trova un luogo dove David ebbe il suo palazzo. Delle sette sinagoghe che vi erano, ne rimane una sola: le altre, come disse il profeta Isaia, «vengono arate e seminate». Di lì, uscendo dalle mura di Sion, e dirigendosi verso la porta della Neapolis, sulla destra, giù nella valle, vi sono dei muri, dove era situato il pretorio di Ponzio Pilato. Qui venne processato Nostro Signore, prima della Passione. Sulla sinistra vi è la collinetta del Golgota, dove il Signore fu crocifisso. A circa un tiro di sasso da lì vi è una grotta dove il suo corpo fu deposto e il terzo giorno risorse. Lì, adesso, su ordine di Costantino è stata costruita una basilica, ovvero una casa del Signore di stupenda bellezza, fiancheggiata da cisterne da cui si trae l’acqua e, dietro, un bagno dove i bambini vengono lavati. Uscendo da Gerusalemme dalla porta che si trova verso est per salire al monte degli Ulivi56.
Dobbiamo vedere in questa descrizione, come è stato recentemente proposto, un «meccanismo di appropriazione e di espropriazione dello spazio e della memoria» ebraica57? La selezione operata dal pellegrino è indubbia, e permette di recuperare quella che, secondo Eusebio, era ormai da considerare come la novella Gerusalemme58. Basti pensare all’esempio della piscina probatica a Bethesda, luogo di guarigione per gli ebrei, destinazione di pellegrinaggio cristiano almeno a partire da Origene (è qui che Gesù guarisce lo storpio), ma, come confermano i dati archeologici, anche per i pagani. In realtà, i portici menzionati dall’anonimo erano ancora visibili ai tempi di Origene (intorno al 230) e tuttavia, un secolo dopo, erano scomparsi o quantomeno in rovina59.
Se il viaggio del pellegrino di Bordeaux conferma la nuova polarità assunta da Gerusalemme, lo stesso non può dirsi ancora per Costantinopoli, la cui centralità nell’Itinerario (un breve soggiorno sia all’andata che al ritorno) sembra di ordine esclusivamente pratico. L’unica urbs è Roma: tutti gli altri centri sono civitates60. Il dato è confermato da una recente indagine sui soggiorni nelle residenze imperiali per il periodo 284-337: le sedi favorite degli Augusti sono sempre Roma, Treviri e Sirmio61. Poco più avanti Giulio Valerio, che sotto Costanzo II tradurrà in latino il Romanzo di Alessandro, riprende l’elenco delle urbes «che vengono lodate come le più grandi in tutto il mondo terreno»62. Si tratta di Antiochia, Cartagine, Babilonia, Roma e infine Alessandria: il criterio di grandezza è espresso con la misura della loro circonferenza. La grande assente è la nuova capitale, che pure Costantino aveva dotato di mura considerevoli63.
Un caso di particolare interesse è costituito dal ricco apparato iconografico del ‘calendario’ eseguito nel 354 da Furio Dionisio Filocalo, copista-lapicida ben noto per gli epigrammi dei martiri eseguiti per conto di papa Damaso. Una copia rinascimentale del codice-calendario riporta l’iconografia delle quattro Tychai ovvero personificazioni di residenze imperiali: Roma, Cartagine, Costantinopoli e Treviri64. Nonostante le trasformazioni ormai in atto, la Roma aeterna è destinata a restare a lungo (anche dopo i ripetuti saccheggi del V secolo) un punto centrale nella geografia mentale degli uomini tardoantichi65. Ma soprattutto, almeno nel caso del calendario di Filocalo (che presenta una serie di testi legati alla topografia di Roma), essa costituisce il punto centrale di una geografia delle conquiste romane, dove certo le altre residenze, in quanto sedi imperiali, vengono poste sullo stesso piano dell’Urbs, ma, almeno da un punto di vista geografico, assumono una funzione differente: Roma rimane al centro, mentre Cartagine, Costantinopoli e Treviri hanno di fatto il compito di controllare le tre parti del mondo – l’Africa, l’Asia e l’Europa – e sorvegliarne le frontiere. Questa centralità era stata già rivendicata nel III secolo da Solino (1,1), che non a caso sviluppa il suo discorso geografico riferendosi a una mappa mundi66, ed è enunciata implicitamente dall’Itinerario di Antonino67. Alla tripartizione dei geografi antichi, i cristiani potevano agevolmente giustapporre la tradizione biblica che attribuiva i tre continenti ai tre figli di Noè, come mostra già la Cronaca di Ippolito (III secolo), la cui traduzione latina – nota comunemente come Liber generationis e redatta nel 334 – viene riportata nel codice-calendario del 35468.
L’autore dell’Expositio totius mundi et gentium inizia la sua descrizione del mondo partendo da Oriente. L’impero persiano è indicato rapidamente, naturalmente in termini negativi, e quando infine si giunge alla frontiera lo scrittore commenta post hos [i persiani] nostra terra est, quasi a indicare il sollievo di chi finalmente rientra in patria. Ciò è tipico della mappa mentale elaborata nell’era costantiniana, segnata dalla guerra infinita con l’impero sasanide, che aveva portato a intensificare i controlli alla frontiera, in tempo di guerra come in tempo di pace. I due imperi rivali si preoccupavano particolarmente della porosità della frontiera elaborando delle strategie per contrastare la tendenza degli abitanti a spostarsi da una parte all’altra.
Sul piano strategico, i romani consolidano il sistema dei limites ovvero distretti di frontiera (attestati in Africa a partire dal regno di Filippo l’Arabo), a cui vengono assegnate delle unità specifiche su una base territoriale. I soldati saranno più tardi definiti limitanei: una costituzione del 17 giugno 325 parla di ripenses69.
Alla stessa epoca sembra datarsi la missiva che Costantino avrebbe inviato in risposta al «fratello» sasanide Shabur II:
Io sono il difensore della divina fede, e per ciò stesso partecipo della vera luce […] con al mio fianco la Potenza di questo Dio, mossi dai lontani confini dell’Oceano, e gradualmente suscitai in tutta l’ecumene la solida e sicura speranza della salvezza. E tutte le terre che, asservite al potere di crudeli tiranni, s’erano immiserite, vittime di quotidiane disgrazie, dopo che l’autorità dello Stato le ebbe giustamente vendicate, tornarono a rivivere come per l’effetto di una medicina70.
La lettera prosegue con una prolissa descrizione della triste sorte dei pagani: la stessa cattura dell’imperatore Valeriano, imprigionato da Shabur I nel 260, non è più considerata come un’onta per il prestigio di Roma, bensì come la giusta conseguenza della sua empietà71. In conclusione, Costantino chiede allo šāhanšāh magnanimità nei confronti dei cristiani che vivono sotto i sasanidi.
Fin da Augusto, i contorni della geografia dell’Impero vengono segnati anche dal cerimoniale delle ambascerie. Il Liber generationis registra, per il regno di Diocleziano e Massimiano, questa notizia: «il re dei persiani e tutti i [rappresentanti dei] suoi popoli deposero presso i templi imperiali trentadue delle loro tuniche fatte di perle, e portarono a Roma tredici elefanti, sei aurighi, duecentocinquanta cavalli»72. La notizia è rievocata qualche anno dopo dal traduttore latino della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe (noto oggi come lo Pseudo-Egesippo)73: nel ricordare i parti che inviano i loro figli a Roma come ostaggi al tempo di Augusto, Egesippo aggiunge il particolare dei doni offerti: vesti, collane, elefanti74. La menzione di «fiere di straordinaria bellezza» è riportata altresì dal panegirico di Claudio Mamertino75.
Anche per Costantino, l’accoglienza agli ambasciatori si trasforma in un cerimoniale che gli conferisce il ruolo di rector di tutti i popoli della terra. Eusebio rievoca il ‘quadro’ colorito di questi incontri, evidenziandone il carattere esotico:
Incessante era pertanto il flusso degli ambasciatori che giungevano da ogni luogo della terra per recare in dono quanto di più prezioso esisteva presso i loro popoli. Noi stessi avemmo l’opportunità di vedere, ferme in fila dinanzi alle porte d’ingresso del palazzo imperiale, straordinarie figure di barbari, tra loro differenti vuoi per l’abbigliamento vuoi per le sembianze del viso: molto diverse erano le acconciature della chioma e della barba, mentre un aspetto barbarico, e terribile insieme, emanava dai loro fieri volti, e la statura dei corpi era veramente enorme. Ad alcuni la pelle presentava un colorito rossastro, ad altri, invece, l’incarnato era più bianco della neve, ad altri più scuro dell’ebano e della pece, altri ancora avevano una pigmentazione intermedia tra il bianco e il nero: tra codesti barbari, infatti, si potevano scorgere anche blemmi e indiani ed etiopi, i quali «si dividono in due e abitano agli estremi confini del mondo»76. Uno alla volta ognuno di costoro, proprio come in un quadro, recava all’imperatore quanto presso il suo popolo vi era di più pregevole77.
È significativo che il casus belli della guerra tra Costantino e Shabur II sia stato attribuito alla cupidigia per le pietre preziose d’Oriente portate da un viaggiatore. Lo storico bizantino Giorgio Cedreno78 riporta in forma abbreviata la storia dei ricchi doni dell’India ricevuti da un certo Metrodoro, un personaggio di origine persiana (persogenēs) dalle indubbie qualità, ma anche dal comportamento equivoco. Questi, nel 324, era tornato da un viaggio in India, dove si era intrattenuto con i brahmani per apprendere le loro tecniche di concentrazione e autocontrollo, contraccambiandoli con l’allestimento di terme e mulini ad acqua, nella migliore tradizione che attribuiva ai romani la più elevata competenza tecnica al mondo79. Tornato carico di pietre preziose e perle (in parte da lui stesso sottratte ai santuari, in parte offerte dal «re degli indiani»), le porta in dono a Costantino. Questi rimane stupito per la ricchezza delle pietre preziose, e con disinvoltura Metrodoro gli spiega di averne portate ancora per via di terra, ma che i persiani gliele avevano sequestrate. La storia sembra risalire a un libro perduto dell’opera di Ammiano, in cui si narravano le «menzogne del filosofo Metrodoro»80. Al di là dell’ambiguità del personaggio e del carattere aneddotico della notizia, è evidente l’interesse per lo sfondo del commercio internazionale, che alimentava da secoli l’immaginario geografico dei romani e contribuiva a giustificare le conquiste orientali, a partire dalla vittoria del 324 che aveva dato a Costantino il potere assoluto anche sull’Oriente.
La consapevolezza di una frontiera posta sull’Eufrate incrementa l’interesse popolare per le spedizioni contro la Persia. Lo Pseudo-Egesippo dichiara con orgoglio che «l’Eufrate è romano»: il fiume, in precedenza inaccessibile su entrambe le rive, prefigura la prossima conquista di tutto l’Oriente, mentre l’Armenia, alleata dei romani, non solo si mantiene tranquilla ma controlla le «porte» (i valichi di montagna), badando accuratamente che nessuno le oltrepassi per turbare la pace81. Il contesto sembra rispecchiare la situazione successiva alla battaglia di Singara del 344, prospettata qualche tempo dopo da Libanio nel discorso Basilikon.
Sotto Costanzo II, in occasione della campagna contro i persiani, un certo Giulio Valerio elabora una versione latina del Romanzo di Alessandro, destinata probabilmente a circolare insieme al testo noto come Itinerarium Alexandri (che, in origine, sembra voler rievocare anche la campagna partica di Traiano). Il lettore può quindi consultare non solo un compendio della narrazione storica di Arriano, ma anche l’alternativa ‘mitistorica’ dello Pseudo-Callistene82. L’autore dell’Itinerarium dichiara pertanto a Costanzo:
Infine posi come titolo Itinerario, in luogo di Breviario, limitando anche nel nome il carattere di quest’opera, intesa come sprone alle tue virtù, poiché per l’animo, in particolare se assetato di gloria, è di stimolo sapere che nella medesima causa un giorno la fortuna ha secondato il disegno, tanto più che tu inizi le imprese di guerra dal punto al quale i più coraggiosi hanno innalzato i comandi sostenuti, e impari a servire per i trionfi dal punto in cui i più fortunati posero il coronamento delle imprese compiute; sì che certo, mentre affianchi alla matura esperienza del padre gli slanci della giovinezza, tu supererai i meriti dei principi più famosi […] Tu hai nei confronti dei persiani un compito ereditario; che essi, che tanto a lungo hanno tremato di fronte alle armi romane, accolti infine per opera tua nel nostro nome e ricevuta in dono la cittadinanza romana entro le nostre province, imparino a essere liberi per beneficio di chi governa, essi che là per la superbia dei re sono considerati tutti soldati in tempo di guerra e servi in tempo di pace83.
L’Itinerarium si data probabilmente alla primavera del 340, quindi agli inizi della lunga campagna orientale di Costanzo II84. Negli stessi anni, Prassagora di Atene scrive sei libri «su Alessandro re dei macedoni», che implicitamente costituiscono il seguito ideale della sua biografia di Costantino85. Il confronto era già anticipato dal panegirista del 313, che riprende il vecchio topos della mollezza e della debolezza orientale per sminuire il macedone rispetto a Costantino, che aveva sgominato i valorosi romani di Massenzio con un esercito ben più ridotto di quello di Alessandro86. Relativamente più equilibrato è Libanio che, nel Basilikon, mostra l’inferiorità di un Alessandro (e, del resto, anche di Ciro e Dario), il quale non solo aveva origini più umili, ma era anche obbligato alla conquista, laddove Costanzo II e Costante avevano già a disposizione un solido Impero87.
Da un punto di vista cristiano, questo interesse per le più remote plaghe dell’Oriente assumeva anche un’importanza missionaria. Agli inizi del V secolo, nella versione latina rielaborata della Storia ecclesiastica di Eusebio, Rufino di Aquileia (o, meglio, di Concordia) spiega che sotto Costantino furono diffusi i «primi semi della Fede» nell’India ulterior, ovvero il regno di Aksum in Etiopia88. La cristianizzazione della regione, come del resto quella dell’Iberia e dell’Armenia, si afferma certo per ragioni politiche e diplomatiche89; ma le fonti cristiane hanno buon gioco nell’amplificare la storia dei fratelli missionari Edesio e Frumenzio, originari di Tiro, che insieme al loro parente e maestro, il ‘filosofo’ Meropio, si erano messi in viaggio sul Mar Rosso dove erano stati catturati dagli aksumiti. Rufino aveva incontrato a Gerusalemme l’ormai anziano Edesio, che gli aveva raccontato la sua storia. È probabile che la vicenda si sia svolta sotto Costanzo II anziché sotto Costantino, ma si tendeva ad attribuire a quest’ultimo lo stimolo di opere missionarie per sminuire la figura di Costanzo, eretico in quanto ariano.
Del resto, è proprio sotto Costanzo che si svolge il viaggio di un altro missionario, Teofilo: originario di un’isola dell’Oceano indiano e inviato a Costantinopoli come ambasciatore-ostaggio, egli diventa sacerdote (ariano) e viene poi inviato ad Aksum, da cui poi si sposta verso Aden e il Golfo Persico, dove fonda delle comunità cristiane in tre punti cruciali per la strategia commerciale romana nella regione. Teofilo solca infine l’Oceano Indiano, torna in patria e di qui prosegue l’attività missionaria in India, per poi dirigersi nuovamente verso l’Arabia felix e Aksum90. Proselitismo cristiano e ricerca di nuovi sbocchi commerciali cominciano ormai ad andare di pari passo.
Con la ripresa dell’Impero nascono nuove geografie e cosmografie, anche se non tutti gli autori se ne mostrano consapevoli. Certo, resta irrisolubile il complesso intersecarsi di finzione e realtà nelle descrizioni letterarie: ciò che caratterizza il Landschaftsbild tardoantico è soprattutto la presenza di elementi naturali un tempo lasciati da parte, e la tendenza alla disorganicità che allontana l’osservatore dalla visione centralizzata ed ecumenica del classicismo. Non è forse un caso che la più rappresentativa descrizione di locus amoenus nella poesia latina sia un carme di Tiberiano (un letterato e poeta non identificato con certezza, ma vissuto fra la tetrarchia e il regno di Costantino), con la sua descrizione di un fiume91. Gli excursus geografici di Ammiano rivelano il progresso di questa sensibilità per la descrizione dei luoghi92.
In questa società di transizione, le fonti vanno spesso decodificate: il conservatorismo enunciato nei testi, spesso solo formale, può occultare mutamenti strutturali radicali: si tratta della «pseudomorfosi» suggerita da Spengler e spesso evocata dagli studiosi, a partire da Eduard Meyer93. D’altra parte, sono proprio i cambiamenti sociali a mettere in luce, e a ridefinire in termini realistici, quelle realtà che la cultura classica aveva nascosto. Un chiaro esempio è fornito dall’opuscolo di Vibio Sequestre, con il suo elenco di mirabilia storico-letterari di luoghi celebri, ordinati per fiumi, fonti, laghi, boschi, paludi, popoli. Anche in questo caso vi è l’intento pedagogico di richiamare rapidamente alla memoria i lemmi degli autori citati: ma l’aspetto più sorprendente è l’inclusione delle paludi (compresa quella Stigia) tra i luoghi degni di nota. Queste brevi notizie rappresentano il primo caso in cui la palude viene isolata come elemento paesistico, sia pure nell’ambito di un discorso geografico confuso. Scrivendo in un’epoca più sensibile alla concretezza del paesaggio, Vibio, pur dipendendo in sommo grado dalla cultura precedente, nondimeno la rielabora in base a una visione che risente di quel processo di «democratizzazione della cultura» individuato da Santo Mazzarino, nel corso del quale acquistano dignità letteraria, ed entrano di conseguenza nella storia, nuovi popoli, nuove lingue, nuovi fenomeni e anche nuovi elementi del paesaggio, in precedenza poco visibili94.
Le vicende politiche influivano su queste inedite concezioni del mondo. La stessa ecumene era mutata, trattandosi non più di un organismo in espansione, bensì di una realtà politica dai confini ben marcati. E, se l’ecumene geografica era cambiata, lo stesso poteva dirsi per l’identità del paesaggio: non più mondo ideale e ordinato, fondato sull’equilibrio città-campagna, bensì realtà identificabile in tutte le manifestazioni del paesaggio naturale. I territori ‘marginali’ diventano parte integrante dell’ager, mentre la nuova società esprime chiaramente le potenzialità dell’intero territorio e l’esigenza di controllarlo da parte dell’autorità imperiale. La città perde terreno rispetto all’imperium, che non è più il virgiliano «impero senza fine», ma coincide con i limiti della nuova ecumene romana, cristiana e soprattutto cosmopolita. L’immagine dell’ecumene classica era quella di un mondo rassicurante, dove i barbari scomparivano in una dimensione marginale e l’ignoto si trasformava in un elemento meraviglioso. Ora che l’elemento barbarico è entrato a far parte della vita quotidiana, la tensione e l’angoscia non possono più essere allontanate. La società tardoantica, sempre più esposta all’incontro con l’Altro, deve quindi elaborare risposte complesse.
L’immagine dei barbari alla frontiera appare a più riprese. Nel 307, un anonimo panegirista loda Massimiano per aver sconfitto «le tribù più bellicose della Mauretania» (i ribelli Quinquegentani), stanandoli nelle loro montagne inaccessibili, dove credevano di essere al sicuro95, mentre il ‘giovane’ Costantino interviene senza sosta lungo i limites (i settori militari di frontiera), là dove l’imperium Romanum «incombe sui popoli barbari»96.
Uno scrittore vissuto sotto Costanzo II, l’anonimo autore del de rebus bellicis, rivisita così la geografia tradizionale dell’Impero, dove la frontiera rappresenta anche il confine tra civiltà e barbarie97:
Bisogna anzitutto rendersi conto che il furore di popoli che latrano tutt’intorno stringe in una morsa l’Impero romano e che la barbarie infida, protetta dall’ambiente naturale, minaccia da ogni lato i nostri confini. Infatti, questi popoli si nascondono per lo più nelle selve o s’inerpicano sui monti o sono difesi dai ghiacci; alcuni invece vagano e sono protetti dai deserti e dal sole cocente. Ci sono poi popolazioni difese dalle paludi e dai fiumi, che non è facile scovare e che tuttavia lacerano la quiete e la pace con improvvise incursioni. Genti come queste, che si difendono ricorrendo o alla natura dei luoghi o alle mura delle città e delle fortezze, devono essere aggredite con varie e nuove macchine militari98.
L’operetta descrive quindi le immaginifiche macchine destinate ad assicurare la vittoria finale, proprio come le ‘armi segrete’ della propaganda bellica del XX secolo. Infine, si suggerisce l’opportunità di assicurare le difese della frontiera grazie a una «fitta rete di castelli, in modo che si ergano a intervalli di mille passi con un solido muro e con fortissime torri», una frontiera costruita peraltro a spese dei proprietari terrieri locali. L’anonimo prefigura così la politica di creare un vero e proprio limes, evidenziando in particolare l’habitat naturale dei barbari, caratterizzato da terre marginali come foreste e paludi. Questi topoi sono già enunciati da Eumenio nella descrizione dei quadri della scuola di Augustodunum, dove una delle raffigurazioni rappresentava le personificazioni della Britannia e della Batavia, teatri delle operazioni militari di Costanzo Cloro, nell’atto di «elevare i loro capi infangati dalle foreste e dai flutti»99. Un’analoga, evocativa descrizione della Britannia si ritrova nel Basilikon di Libanio, con l’immagine dell’Oceano che placa le sue terribili tempeste all’arrivo della flotta di Costante100.
Riprendendo un passo in cui Giuseppe rievoca la successione degli imperi (BI V 421), lo Pseudo-Egesippo aggiunge alcune indicazioni sulla situazione contemporanea: il testo originale è quindi arricchito da una descrizione delle province del profondo Nord come la Britannia, la Scozia «che nulla deve alle terre», e la Sassonia «inaccessibile per le paludi»101. Nella stessa epoca, l’autore dell’Expositio conclude la sua descrizione delle province danubiane spiegando che «ciò che si trova al di là del Danubio appartiene alla stirpe dei sarmati»102.
Consapevole della presenza dei ‘nuovi’ popoli barbari, lo Pseudo-Egesippo modifica il discorso geografico del testo originale di Giuseppe: così, nel discorso in cui Agrippa descrive i territori dominati dai romani per dissuadere gli ebrei dal muover loro guerra103, il traduttore aggiunge nuovi lemmi geografici. Ad esempio, nel passo relativo al Mar Nero (363-368), ‘Egesippo’ parafrasa Giuseppe adattando il suo discorso alla nuova geografia dell’Impero (sviluppatasi peraltro almeno a partire da Claudio Tolemeo): entrano quindi nel testo i nomadi sciti, i «taurosciti» – un termine diffuso solo dopo il II secolo – e tutti i piccoli regni del territorio della Meotide e del Bosforo104. Il traduttore rielabora e integra il discorso di Agrippa evocando il Reno, solcato dalle navi da guerra romane, che i germani consideravano come uno scudo, «e ora è un guardiano della loro incolumità»; già i panegiristi di Costantino evocavano il terrore che egli incuteva, scoraggiando i barbari dall’attraversare il fiume105.
Spostiamoci ora a sud. L’invasione della Nubia da parte dei blemmi sotto Diocleziano contribuisce a una nuova percezione degli ‘etiopi’, un tempo annoverati tra i popoli favolosi, che ora acquistano un’identità etnica ben più realistica, anche se, curiosamente, la confusione tra Etiopia e India continua a persistere106. La tradizione delle ‘meraviglie d’Oriente’ circolava già nella celebre Lettera di Alessandro ad Aristotele, inserita nel testo del Romanzo di Alessandro nel III secolo, e ora diffusa anche in latino nella traduzione di Giulio Valerio. Nel V secolo, commentando un passo dell’Eneide, Servio cita una curiosa testimonianza tramandata da Tiberiano:
Giunto non agli inferi, ma al luogo in cui vi è la discesa agli inferi, cioè all’Averno, se gli inferi sono all’interno della terra. Altri meglio intendono: quelli cioè che ritengono che gli inferi siano sotto la terra, secondo l’opinione dei geografi e dei cosmografi, che dicono che la terra sia sferica […]. Se è così, si può giungere con la navigazione agli antipodi, che per noi sono ‘inferi’, come noi per loro. Tiberiano, inoltre, riporta una lettera portata dal vento dalla regione degli antipodi, che inizia con le parole: «noi superi mandiamo saluti a voi inferi», in cui tratta quel rapporto di reciproco rovesciamento a cui avevamo accennato prima107.
La dimensione geografica dell’era costantiniana non perde dunque di vista la componente utopistica ereditata dall’antichità classica, e ora debitamente cristianizzata. Lo mostra l’excursus sul popolo dei ‘camarini’, che occupa i primi capitoli dell’Expositio ed è sostanzialmente analogo a un testo tramandato in greco e in georgiano da un probabile originale siriaco, detto Itinerario dal giardino dell’Eden fino ai romani. Nella versione greca di questo testo, i camarini diventano Makarinoi; si allude così alla tradizione – sia biblica che ellenistica – che collocava ai confini del mondo le terre dei Beati (makarioi). In realtà, i camarini vanno identificati con popolazioni realmente esistite: un emporio di Kamara è noto per l’India, mentre le isole «Camari» sono collocate in Arabia. Tuttavia, l’ipotesi più suggestiva è quella che rimanda ai khmer, il popolo indocinese noto agli arabi come Qimar. Si insiste qui sul carattere utopico di queste popolazioni, che si distaccano dalle abitudini comuni al genere umano. Il tono del resoconto sembra quasi ironico:
Dicono che in Oriente si trovi il popolo dei camarini; di lì si dice che sbocchi un fiume enorme. Dunque questi uomini sono assai buoni e onesti, né gli si riscontra malvagità alcuna, nel corpo e nell’anima. Comunque, se vuoi imparare qualcosa di più preciso, dicono che non facciano uso né del pane che si trova da noi, né di altro cibo del genere, né del fuoco che noi utilizziamo. E affermano che il pane, invece, piove loro quotidianamente dal cielo e bevono miele selvatico speziato. Quanto al fuoco, glielo fornisce il sole: è così cocente che, non appena si distende dal cielo sulla terra, tutti verrebbero arrostiti se non si gettassero subito nel fiume, ove restano a sguazzare finché il suddetto fuoco non se ne ritorna al suo posto.
Naturalmente si governano da soli, senza sottostare a un dominio. Né si cibano di comuni alimenti come tutti. S’intende, poi, che del nostro corpo non hanno i mali; non si trovano loro pulci, pidocchi, cimici e lendini, e neppure alcuna infermità di corpo. Né usano, di certo, comuni vestiti come tutti: anzi, hanno una veste così pura da non poter essere mai insozzata. Qualora ciò accadesse, eseguono il lavaggio con una spada di fuoco, poiché bruciando migliora.
Non seminano né mietono. Del resto, vi si trovano mercanzie eccellenti, svariate e pregevoli, come le pietre preziose: ovvero smeraldi, perle, giacinti, il carboncello e lo zaffiro, sulle montagne. Tutte provengono di lì, in questo modo: il fiume nasce sui monti, dove stilla quotidianamente e separa le cime delle montagne, portando con sé, nelle sue acque abbondanti, i loro detriti. Gli indigeni hanno astutamente escogitato un modo di recuperare ciò che ne vien fuori: apprestano delle reti nelle strettoie del fiume e in tal modo raccolgono ciò che arriva.
Data la loro così felice condizione, non provano sofferenze né si ammalano; ma si limitano a morire e conoscono già il giorno in cui moriranno: infatti muoiono tutti sui centodiciotto-centoventi anni, sì che i più vecchi non vedono mai la morte di chi è più giovane, né i genitori quella dei figli. Conoscendo il giorno della morte, ciascuno si fabbrica un sarcofago con sostanze aromatiche (perché, da loro, gli aromi sono abbondanti), e vi si pone dentro in attesa di rendere l’anima. Poi, quando giunge l’ora, omaggia tutti dando loro l’addio, restituendo così il dovuto, e con molta disinvoltura. Ma questa non è che una parte delle cose buone di tale popolo: pur avendone molte da dire, le abbiamo tralasciate. Comunque sia, abitano un territorio che si estende per settanta giorni di viaggio108.
Come è stato osservato, l’excursus sui camarini presenta una sorta di versione più realistica, in qualche modo più ‘secolare’ di più antiche tradizioni sull’utopia, legata a una riflessione ideologica coerente, espressione di una componente sociale soddisfatta della propria condizione, che non aveva dunque bisogno di cercare mondi ideali109. Si tratta forse di uno degli esempi più interessanti del processo di democratizzazione della cultura, che implica anche una rivisitazione dei caratteri tradizionali dell’etnografia antica.
1 Paneg. 9. Si veda A. Hostein, La cité et l’Empereur. Les Eduens dans l’Empire romain d’après les Panégiriques Latins, Paris 2012, pp. 177-250.
2 Paneg. 9,20,2.
3 C.E.V. Nixon, B.S. Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors. The Panegyrici Latini. Introduction, Translation, and Historical Commentary, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1994, pp. 171-172, nota 78.
4 K. Brodersen, Mapping Pliny’s World: the Achievement of Solinus, in Bulletin of the Institute of Classical Studies, 54 (2011), pp. 63-88.
5 Paneg. 9,21,1-3.
6 G. Traina, Mapping the World under Theodosius II, in Theodosius II and the Making of Late Antiquity, Atti del convegno (Cambridge 2011), ed. by C. Kelly, R. Flower, in corso di stampa.
7 Il topos dell’Africa arida e torrida è frequente nella letteratura dell’epoca, ma vi sono eccezioni significative (Lact., mort. pers. 8,3 parla di «provincia opulentissima»). In generale cfr. D. Feissel, L’adnotatio de Constantin sur le droit de cité d’Orcistus en Phrygie, in Antiquité Tardive, 7 (1999), pp. 255-267.
8 C. Mole, Le tensioni dell’utopia. L’organizzazione dello spazio in alcuni testi tardoantichi, in Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, a cura di A. Giardina, Roma 1985, pp. 691-736.
9 Paneg. 11,6,3.
10 A. Mastino, Orbis, κόσμος, οἰϰοuμένη: aspetti spaziali dell’idea di impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, Napoli 1986, pp. 63-146, in partic. 102 segg., da aggiungere alla bibliografia di Th. Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stuttgart 1990.
11 Paneg. 10,3,4. Cfr. D. Brodka, Die Romideologie in der römischen Literatur in der Spätantike, Berlin 1998.
12 L’apparente anacronismo dell’Armenia maior è stato risolto con successo da C. Zuckerman, Sur la Liste de Vérone et la province de Grande Arménie, la division de l’Empire et la date de création des diocèses, in Travaux&Mémoires, 14 (2002), pp. 617-637.
13 ILS 677; AE 1966, 166.
14 K. Regling, Das älteste Stadtbild von Trier, in Amtliche Berichte aus den Königlichen Kunstsammlungen, 30 (1909), pp. 8-9.
15 CIL 10,677.
16 OGIS 720-721.
17 G. Fowden, Nicagoras of Athens and the Lateran Obelisk, in Journal of Hellenic Studies, 107 (1987), pp. 51-57. In generale si veda M. Di Branco, La città dei filosofi. Storia di Atene da Marco Aurelio a Giustiniano, Firenze 2006, pp. 104 segg.
18 Lib., Or. 59,171.
19 Lib., Or. 62,27-28. Cfr. R. Cribiore, The School of Libanius in Late Antique Antioch, Princeton-Oxford 2007, pp. 95 segg.
20 Cod. Theod. X 26,2, 364 d.C.
21 h.A. Sev. Al. XLV,2. Cfr. B. Salway, Travel, itineraria and tabellaria, in C. Adams, Travels and Geography in the Roman Empire, ed. by R. Laurence, London-New York 2001, pp. 22-66, in partic. 36 segg.
22 T. Kleberg, Hôtels, restaurants et cabarets dans l’Antiquité romaine. Études historiques et philologiques, Uppsala 1957, p. 95.
23 Cod. Theod. XII 1,21.
24 B. Salway, The perception and description of space in Roman itineraries, in Wahrnehmung und Erfassung geographischer Räume in der Antike, hrsg. von M. Rathmann, Mainz 2007, pp. 181-209.
25 P. Arnaud, L’itinéraire d’Antonin: un témoin de la littérature du Bas-Empire, in Geographia Antiqua, 2 (1993), pp. 33-49.
26 Cfr. il recente R. Talbert, Rome’s World. The Peutinger Map Reconsidered, Cambridge 2010.
27 J. Matthews, The Journey of Theophanes. Travel, Business, and Daily Life in the Roman East, New Haven-London 2006.
28 Dig. XVII 2,25,15.
29 J. Matthews, The Journey of Theophanes, cit., p. 108, evoca la festa di Adone, che però si celebrava in luglio.
30 Phot., Bibl. 62,20B-21A.
31 G. Dagron, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974, p. 542. Contra T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Oxford 2011, pp. 111 segg.
32 Lib., Or. 59,171.
33 Il circo pervade il sistema simbolico del mondo costantiniano: per un’utile sintesi cfr. G. Vespignani, Ἱ’Iππόδρομος. Il circo di Costantinopoli nuova Roma dalla realtà alla storiografia, Spoleto 2010, pp. 145 segg.
34 G. Dagron, Naissance d’une capitale, cit., p. 63.
35 Const. Porph., De caer. I 52[43], con l’analisi di G. Dagron, L’hippodrome de Constantinople. Jeux, peuple et politique, Paris 2011, pp. 75 segg.
36 Lib., Or. 59,171.
37 L. De Salvo, Economia privata e pubblici servizi nell’impero romano: i corpora naviculariorum, Messina 1992, passim.
38 Ch. Pietri, Les provinces ‘Salutaires’: géographie administrative et politique de la conversion sous l’Empire chrétien (IVe s.), in Aevum inter Utrumque. Mélanges offerts à Gabriel Sanders, éd. par M. Van Uytfanghe, R. Demeulenaere, Steenbrugis 1991, pp. 319-338 = Ch. Pietri, Christiana respublica. Éléments d’une enquête sur le christianisme antique, Roma 1997, pp. 609-628.
39 Sull’argomento si rinvia al saggio Il concilio di M. Simonetti in quest’opera.
40 H.G. Opitz, Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites, Berlin-Leipzig 1934-1935, Urkunde 20.
41 H. Inglebert, Interpretatio Christiana. Les mutations des savoirs (cosmographie, géographie, ethnographie, histoire) dans l’antiquité chrétienne, 30-630 après J.-C., Paris 2001, pp. 77 segg.; P. Gautier Dalché, L’héritage antique de la cartographie médiévale. Les problèmes et les acquis, in Cartography in Antiquity and the Middle Ages: Fresh Perspectives, New Methods, ed. by R.J.A. Talbert, R. Unger, Leiden 2008, pp. 29-66.
42 P. Maraval, Lieux Saints et pèlerinages d’Orient, Paris 1985, pp. 23-60; B. Caseau, Sacred Landscapes, in Late Antiquity. A Guide to the Postclassical World, ed. by G.W. Bowersock, P. Brown, O. Grabar, Cambridge (MA)-London 1999, pp. 21-59, in partic. 43.
43 M.-Y. Perrin, Le nouveau style missionnaire. La conquête de l’espace et du temps, in J.-M. Mayeur et al., Histoire du Christianisme, II, Naissance d’une chrétienté (250-430), Paris 1995, pp. 585-621, in partic. 604-606.
44 Eus., d.e. VI 18,23, trad. P. Carrara.
45 Si vedano l’introduzione di S. Timm, Das Onomasticon der biblische Ortsnamen, Berlin-New York 2005, e R. Notley, Z. Safrai, Eusebius, Onomasticon. A Triglott Edition with Notes and Commentary, Boston-Leiden 2005, pp. xiii-xv; ma sui limiti di questa edizione cfr. la recensione di S. Timm, in Zeitschrift für antikes Christentum, 14 (2010), pp. 581-591.
46 Costituiscono alcuni esempi Aulon, Amman, Bala, Dothaeim, Golgotha, Thanak, Phinon, rispettivamente in Eus., Onomast. 38, cfr. Dt 1,1; Eus., Onomast. 41, cfr. Dt 2,91; Eus., Onomast. 193, cfr. Gen 14,2; Eus., Onomast. 371, cfr. Gen 37,17; Eus., Onomast. 365, cfr. Mt 27,33; Eus., Onomast. 492, cfr. Gs 12,21, 17,11, 21,25; Eus., Onomast. 922, cfr. Gen 36,41.
47 B. Isaac, Eusebius and the Geography of Roman Provinces (1996), ristampato con un Postscript in Id., The Near East under Roman Rule. Selected Papers, Leiden-New York-Köln 1998, pp. 284-309.
48 L. Di Segni, The Onomastikon of Eusebius and the Madaba Map. The Madaba Map Centenary 1897-1997. Travelling through the Byzantine Umayyad Period. Proceedings of the International Conference (Amman 1997), ed. by M. Piccirillo, E. Alliata, Jerusalem 1999, pp. 115-120 = http://198.62.75.1/ www1/ofm/mad/articles/DiSegniOnomasticon.html.
49 P. Gautier Dalché, Eucher de Lyon, Iona, Bobbio. Le destin d’une mappa mundi de l’Antiquité tardive, in Viator, 41 (2010), pp. 1-22.
50 I.W. Drijvers, Helena Augusta, the Cross and the Myth: Some New Reflections, in Millennium, 8 (2011), pp. 125-174, in partic. 137 segg. Sui ‘paesaggi costantiniani’ cfr. H. Sivan, Palestine in Late Antiquity, Oxford 2008, pp. 16-29.
51 J. Elsner, The Itinerarium Burdigalense: Politics and Salvation in the Geography of Constantine’s Empire, in Journal Roman Studies, 90 (2000), pp. 181-195; B. Salway, The Perception and Description, cit., pp. 205 segg.
52 J. Matthews, The Cultural Landscape of the Bordeaux Itinerary, in Id., Roman Perspectives. Studies in the Social, Political and Cultural History of the First to the Fifth Centuries, Swansea 2010, pp. 181-200.
53 Edizione di A. Chastagnol, L’inscription constantinienne d’Orcistus, in Mélanges de l’École Française de Rome. Série ‘Antiquité’, 93 (1981), pp. 381-416 = Aspects de l’Antiquité tardive, Roma 1994, pp. 105-142.
54 Si veda il caso particolare studiato da C. Saliou, Rhétorique et réalités. L’eau dans l’Éloge d’Antioche (Libanios, Or. XI), in Chronos, 13 (2006), pp. 7-27.
55 Zos. I 73,3.
56 itin. Burdig. 589,7 segg.
57 O. Irshai, The Christian Appropriation of Jerusalem in the Fourth Century: The Case of the Bordeaux Pilgrim, in Jewish Quarterly Review, 99 (2009), pp. 465-486, in partic. 476.
58 Eus., v.C. III 33,135.
59 S. Gibson, The Excavations at the Bethesda Pool in Jerusalem, in Proche-Orient Chrétien, numéros Spécial 2011, pp. 17-44.
60 J. Matthews, The Journey of Theophanes, cit., p. 193.
61 J.-P. Reboul, L’Ordo urbium nobilium d’Ausone au regard des évolutions de la centralité politique dans l’Antiquité tardive. Approches historique et archéologique, in Schedae, 8 (2007), pp. 107-140.
62 Iul. Valer., 1,31.
63 J.-P. Callu, Antioche la Grande: la cohérence des chiffres, in Mélanges de l’École Française de Rome. Série ‘Antiquité’, 109 (1997), pp. 127-169 = Culture profane et critique des sources de l’Antiquité tardive. Trente et une études de 1974 à 2003, Rome 2006, pp. 643-685. Resta il problema delle vignette della Tabula Peutingeriana, dove le città maggiori sono Roma, Costantinopoli e Antiochia, ma non sono indicate Alessandria, Cartagine e Treviri. B. Salway, Travel, cit., p. 47, propende per una «selezione […] idiosincratica».
64 G. Bühl, Constantinopolis und Rom: Stadtpersonifikationen der Spätantike, Kilchberg 1995, pp. 83 seg.; A. Haug, Das spätantike Rombild zwischen Visualisierung und Imagination, in Das antike Rom und sein Bild, hrsg. von H.-U. Cain, A. Haug, Y. Asisi, Berlin-New York 2011, pp. 69-91.
65 A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1994.
66 Cfr. K. Brodersen, Mapping Pliny’s World, cit.
67 B. Salway, The perception and description, cit., pp. 184-185.
68 Parallelamente, l’epica nazionale sasanide attribuisce la divisione del mondo ai tre figli di Feridun, con la formazione dei regni dell’Eran, di Roma e della Cina. Sui problemi della geografia sasanide cfr. T. Daryaee, Šahrestānīhā ī Ērānšahr. A Middle Persian Text on Late Antique Geography, Epic, and History, Costa Mesa (CA) 2002.
69 Cod. Theod. VII 20,4. B. Isaac, The Meaning of limes and limitanei, in Journal of Roman Studies, 78 (1988), ristampato con un Postscript in Id., The Near East, cit., pp. 345-387.
70 Eus., v.C. IV 9, trad. L. Tartaglia, Napoli 1994.
71 Eus., v.C. IV 9, trad. cit.
72 Chronogr. a. 354, p. 158.
73 Su questo testo cfr. J.-P. Callu, Le De bello Iudaico du Pseudo-Hégesippe. Essai de datation, Bonn 1987 = Culture profane, cit., pp. 597-622. Propone un’identificazione con Ambrogio C. Somenzi, Egesippo-Ambrogio: formazione scolastica e cristiana a Roma alla metà del IV secolo, Milano 2009.
74 Ps.Heges., p. 151.
75 Paneg. 10,10,6-7. Cfr. M.P. Canepa, The Two Eyes of the Earth. Art and Ritual of Kingship between Rome and Sasanian Iran, Berkeley-Los Angeles-London 2009, p. 137.
76 Od., I 23.
77 Eus., v.C. IV 7,1-2, trad. cit. M.P. Canepa, The Two Eyes, cit., p. 133.
78 I, p. 516 Bonn.
79 G. Traina, I romani, maestri di tecnica, in Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano, a cura di E. Lo Cascio, Bari 2006, pp. 253-269.
80 Amm., XXV 4,23.
81 Ps.Heges., II 9,1.
82 Si veda il recente J.-P. Callu, Julius Valère, Roman d’Alexandre, Turnhout 2010, che difende l’ipotesi di un unico autore.
83 Itin. Alex. 2,3 e 2,5, trad. R. Tabacco, Torino 2000.
84 Si veda l’introduzione di R. Tabacco, Itinerarium Alexandri, Torino 2000.
85 Phot., cod. 62,21b.
86 Paneg. 12,5.
87 Lib., Or. 59,53 segg.
88 Rufin., hist. I 9-10.
89 C. Haas, Mountain Constantines: The Christianization of Aksum and Iberia, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 101-126.
90 G. Fiaccadori, Teofilo indiano, Ravenna 1992. Sulle vicende aksumite cfr. H. Brakmann, To para tois barbarois ergon theion. Die Einwurzelung der Kirche im spätantiken Reich von Aksum, Bonn 1994.
91 S. Mattiacci, I carmi e i frammenti di Tiberiano, Firenze 1990; Al. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011, p. 528.
92 Cfr. anche R. Rollinger, Die Beschreibung von Bodensee, Bodenseelandschaft und Alpenrheintal durch die landesgeschichtliche Forschung: Eine kritische Zusammenschau, in Schriften des Vereins für Geschichte des Bodensees und seiner Umgebung, 120 (2002), pp. 1-39.
93 E. Meyer, Spenglers Untergang des Abendlandes, Berlin 1925.
94 G. Traina, Paesaggio e ‘decadenza’. La palude nella trasformazione del mondo antico, in Società romana e impero tardoantico, III, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1986, pp. 711-730 e 905-917. Sulla «democratizzazione della cultura» cfr. J.-M. Carrié, Antiquité tardive et ‘démocratisation de la culture’: un paradigme à géometrie variable, in Antiquité Tardive, 9 (2001), pp. 27-46.
95 Paneg. 7,8,6.
96 Paneg. 7,14,1.
97 Anonimo, Le cose della guerra, a cura di A. Giardina, Milano 1989.
98 Anon. de reb. bell. 6,1-4, trad. cit.
99 Paneg. 9,4,21.
100 Lib., Or. 59,139.
101 Ps.Heges., pp. 319 seg.
102 Expositio 67.
103 I., BI II 345 segg.
104 Intorno al V secolo, la tradizione tolemaica sarà ripresa da autori tardoantichi come Marciano di Eraclea o l’anonimo dello Stadiasmus maris magni.
105 Paneg. 8,3,2; 12,3,2.
106 P. Schneider, L’Éthiopie et l’Inde. Interférences et confusions aux extrémités du monde antique (VIIIe siècle avant J.-C.-VIe siècle après J.-C.), Roma 2004.
107 Serv., Aen. 6,532, cit. in G. Moretti, Gli Antipodi. Avventure letterarie di un mito scientifico, Parma 1994, p. 46.
108 Expositio 4-7.
109 C. Mole, Le tensioni dell’utopia, cit., pp. 730 segg.