Geografia dei processi di secolarizzazione
Dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi la società italiana ha subito radicali trasformazioni in tutti i suoi aspetti – sociale, economico, politico e culturale. In particolare, proprio lungo quest’ultima dimensione si è registrato un sensibile processo di riduzione del peso e della diffusione dei valori cattolici nella popolazione, palesatosi soprattutto verso la fine degli anni Ottanta, quando tale processo è giunto a piena maturazione (Cartocci 1990; Garelli 1991; Cartocci 1994). Obiettivo di questo contributo è appunto descrivere tale processo, osservando in particolare la riduzione del numero dei fedeli che partecipano regolarmente alla messa domenicale e dei matrimoni celebrati con il rito religioso rispetto a quelli celebrati con il solo rito civile. Si ricorrerà anche ad altri indicatori, in grado di fornire una lettura diacronica del fenomeno. Infatti questo lavoro intende concentrarsi sull’analisi della diversa intensità e cadenza temporale di tale processo nelle differenti aree del Paese, cercando di rispondere ai seguenti quesiti: esiste una geografia della contrazione del peso dell’eredità cattolica? Essa contribuisce a ridurre o ad approfondire differenze che sono già sensibili tra le diverse aree del Paese in termini di sviluppo socioeconomico e di rendimento istituzionale, oltre che di comportamento elettorale? In quali relazioni si pongono queste differenze di sensibilità religiosa rispetto alle altre dimensioni – economico-sociale e politico-istituzionale – che differenziano le regioni italiane?
Si tratta di un punto di primaria rilevanza dal momento che la dimensione religiosa costituisce una realtà culturale e istituzionale considerata tradizionalmente come un tratto unificante del Paese. È ampiamente scontato che economia, società e politica disegnino ciascuna delle geografie accidentate – quando non vere e proprie fratture, con la contrapposizione di grandi aree, ciascuna caratterizzata da interessi economici specifici, strutture sociali e meccanismi di delega politica assai differenti tra loro. La tradizione cattolica appare invece il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del Paese. Il credo cattolico, nonché la presenza istituzionale della Chiesa, tendono a richiamare un’immagine di omogeneità, al punto da proporsi come un vero e proprio fattore identitario, un elemento di uniformità che travalica il piano religioso per plasmare un più ampio habitus culturale che caratterizza il popolo italiano, bilanciandone i molteplici fattori di divisione e contrapposizione (Cartocci 2011).
Per procedere con la riflessione, occorre innanzitutto precisare che cosa in questa sede si intende per cattolici e per secolarizzazione. Conviene partire da quest’ultima: discutendo di secolarizzazione, e del suo contrario, si è infatti in grado di tratteggiare i termini più generali delle trasformazioni che hanno investito dal dopoguerra in poi l’Italia e l’intera Europa occidentale sul piano dei valori e dei comportamenti religiosi.
Il termine secolarizzazione soffre dei problemi di polisemia tipici di buona parte dei concetti più importanti delle scienze sociali: a esso vengono associati significati differenti da differenti autori, per cui è molto facile cadere in equivoci e aporie. Nel caso poi della secolarizzazione, la questione lessicale è ulteriormente complicata dalla pluralità delle dimensioni in cui si articola il ‘fatto’ religioso: dall’esperienza soggettiva della fede alla partecipazione ai riti, dagli aspetti connessi all’istituzionalizzazione della fede a quelli dottrinali, dal ruolo dei pastori alle dimensioni del pluralismo all’interno di uno specifico ambito religioso ecc. (Cartocci 2011).
Occorre poi aggiungere il problema del diverso livello di generalità a cui si collocano i vari significati del termine. Nel suo senso più generale, esso designa un processo di grande respiro storico, posto al centro della riflessione di Max Weber (1864-1920), ossia quel processo di razionalizzazione dei diversi aspetti della vita sociale che proprio dalla tradizione giudaico-cristiana aveva avuto origine. Nell’ottica weberiana di «disincantamento del mondo», la secolarizzazione è un fenomeno storico di lunga durata, sostanzialmente unilineare, che deriva dall’espansione del capitalismo, dalla progressiva estensione dello Stato e delle sue burocrazie, nonché dallo sviluppo della scienza a partire dal 17° sec. (Weber 1919).
E certamente un declino in questo senso c’è stato, in particolare nell’Europa cattolica e protestante (gli Stati Uniti sono un caso a parte, come noto). In Europa, infatti, alla religione è stato progressivamente riconosciuto uno spazio sempre più ridotto, a seguito di «un crollo della plausibilità delle tradizionali definizioni religiose della realtà», con l’esperienza religiosa che ne è risultata frantumata e limitata «a universi frammentati di significato, la cui struttura di plausibilità può in alcuni casi non estendersi oltre la famiglia nucleare» (Berger 1984, p. 147).
Tuttavia, dalla fine degli anni Settanta il paradigma weberiano del progressivo disincantamento del mondo e della secolarizzazione come esito della modernizzazione è entrato in crisi. Due eventi distinti aprono in modo emblematico una nuova fase: l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla nel settembre 1978 e la rivoluzione khomeinista in Iran nel febbraio 1979, seguita a una mobilitazione di massa promossa da leader religiosi (Norris, Inglehart 2004). Si vogliono ricordare questi due eventi in quanto decisivi nel ridisegnare lo scenario mondiale sul piano politico e culturale. La personalità carismatica di Giovanni Paolo II ha segnato una potente rivitalizzazione del mondo cattolico, valorizzandone la presenza e promuovendone la mobilitazione in tutti i continenti. L’affermazione del fondamentalismo islamico in seguito alla rivoluzione iraniana ha a sua volta prodotto conseguenze politiche che hanno anch’esse contribuito a ridefinire gli equilibri mondiali. Gli orientamenti religiosi sono diventati il più rilevante fattore di mobilitazione sociale e politica. Nell’ambito delle grandi religioni storiche hanno visto la luce correnti fondamentaliste, che hanno ridotto drasticamente i termini di mediazione con le correnti moderate e laiche. Proprio qui si pone la riflessione di Habermas sulla nuova realtà della società postsecolare.
Soprattutto, la convergenza di tre fenomeni interconnessi crea l’impressione di una ‘rinascita della religione’ su scala mondiale: l’espansione dell’attività missionaria, la radicalizzazione fondamentalista, e l’utilizzo strumentale del potenziale di violenza proprio di tutte le principali religioni storiche (Habermas 2007, p. 1).
Questo rafforzamento delle identità religiose a livello globale sopra descritto ha riguardato anche l’Italia, che oltretutto costituisce il centro del cattolicesimo in quanto sede del soglio pontificio. Tale centralità istituzionale finisce con il divenire anche, inevitabilmente, centralità culturale. Ed è proprio questa peculiarità che alimenta un intreccio complesso tra l’identità dei cattolici e l’identità degli italiani in generale, costituendone un indubbio carattere originale. Per quanto la frattura religiosa sia sempre stata sensibile, alimentando da secoli sentimenti ghibellini e anticlericali, per quanto potenti correnti di secolarizzazione si siano affermate negli ultimi decenni, in Italia esiste comunque una rete di diocesi e parrocchie senza paragoni rispetto a tutti gli altri Paesi cattolici, una presenza istituzionale che non è minimamente avvicinata da nessun’altra organizzazione che non sia lo Stato (Cartocci 2011). Sul piano dei comportamenti si registrano poi tassi di religiosità più elevati della maggior parte degli altri Paesi (punto su cui si tornerà più avanti).
Va poi aggiunto che il cattolicesimo italiano è entrato da oltre due decenni in una fase radicalmente nuova. A parte gli effetti diretti e indiretti del magistero di Giovanni Paolo II già sopra richiamati, vanno ricordati brevemente i cambiamenti nella politica italiana e gli effetti dell’immigrazione straniera. Nel primo caso, la Chiesa italiana si è trovata nella necessità di fare a meno di un referente politico quale era stata la Democrazia cristiana per cinquant’anni, dalla sua fondazione fino al crollo seguito alla crisi politica del 1992-93. Di fronte al radicale ridefinirsi dell’offerta politica e al consolidamento di una dinamica bipolare tra i diversi partiti e schieramenti, era venuto a mancare sia un partito che si ponesse in modo autorevole come riferimento della maggior parte dei cattolici, sia uno spazio politico al centro dello spettro ideologico. In seguito a questi cambiamenti la Chiesa italiana si è dovuta esporre direttamente in misura maggiore, tanto più che si sono venute accumulando nell’opinione pubblica molteplici linee di tensione, concentrate in particolare su due temi: la definizione della famiglia (coppie di fatto, matrimonio tra omosessuali, comunione ai divorziati); la discussione sui confini della vita (contraccezione, aborto, fecondazione assistita, eutanasia). Il ‘progetto culturale’ promosso dal cardinale Camillo Ruini nella sua lunga permanenza al vertice della Conferenza episcopale ha costituito in certa misura la cornice attraverso cui la società italiana è transitata nell’età del postsecolarismo (Marzano, Urbinati 2013).
L’altro fenomeno da tenere in considerazione è la crescita del pluralismo delle confessioni religiose in Italia a seguito dei flussi migratori da Paesi stranieri. I consistenti flussi di cittadini stranieri immigrati in Italia negli ultimi due decenni hanno modificato il panorama religioso della penisola, aumentandone in modo considerevole il pluralismo. In particolare l’islam è ormai da anni la seconda confessione religiosa del Paese; a flussi consistenti di immigrati di religione cattolica (polacchi, latino-americani e filippini) si affiancano flussi ancora più consistenti provenienti dall’Europa centro-orientale, di tradizione cristiano ortodossa, e dai Paesi asiatici e africani, con orizzonti religiosi ben più distanti.
Se, da una parte, l’immigrazione alimenta la pluralizzazione dei riferimenti religiosi, dall’altra, il cattolicesimo italiano tende a rafforzarsi grazie alla ricchezza dei movimenti cattolici che si sono sviluppati dopo il Concilio, la cui presenza e capacità di mobilitazione costituisce l’illustrazione più chiara dell’avvenuta transizione a una società postsecolare.
L’originalità del caso italiano sopra brevemente tratteggiata rende necessaria una dotazione di strumenti analitici sensibili per districarsi in questo quadro contraddittorio. Un primo punto di partenza è costituito da un supplemento di riflessione sul significato con cui i termini secolarizzazione e cattolici possono essere in questa sede declinati.
Infatti, nell’accezione di «disincantamento del mondo», proposta da Weber, la secolarizzazione è un concetto pressoché inutilizzabile in una ricerca empirica di tipo sistematico. Per questo, nel prosieguo si utilizzerà il termine in un’accezione più ristretta, guardando alla secolarizzazione come recessione dell’effettiva pratica religiosa cattolica. In tal modo diviene possibile offrire una risposta anche all’altro problema di definizione: chi sono i cattolici italiani? Oppure, per dir meglio: chi sono in Italia i cattolici, come si possono distinguere dagli altri italiani senza far esclusivamente riferimento al battesimo? Quali dati osservabili possono essere presi in considerazione per tracciare un confine tra gli italiani cattolici e gli altri?
Il livello di secolarizzazione che si intende rilevare, a livello nazionale e altresì regionale, corrisponde quindi all’area di coloro che hanno un legame significativo, anche se con gradi di intensità differenziati, con la Chiesa. Maggiore è la diffusione di questi legami, minore è il grado di secolarizzazione; minore la diffusione di questi legami con la Chiesa-istituzione, maggiore il grado di secolarizzazione. Occorre poi precisare che in questa sede per ‘legami’ si intendono comportamenti e scelte concrete, e non l’espressione verbale di professioni di fede, credenze o valori. Del resto, la ricerca empirica comporta continui compromessi con molteplici vincoli: non si fa ricerca se non semplificando il mondo. Tracciare le tappe e le mappe di un processo di secolarizzazione, inteso stricto sensu come recessione dei legami concreti con la Chiesa-istituzione, implica pagare il prezzo di semplificare e mortificare la ricchezza dell’esperienza di fede, nelle sue molteplici manifestazioni, buona parte delle quali sono del tutto inaccessibili all’osservatore esterno.
Inoltre, la partecipazione ai riti collettivi è un elemento centrale dell’esperienza religiosa, per almeno tre motivi differenti: in primo luogo, perché nel rito si rappresenta la connessione tra il terreno e il trascendente, in secondo luogo, perché si esperisce la compartecipazione simbolica con i fratelli nella fede. In terzo luogo perché, proprio le pratiche simboliche che articolano i riti religiosi sostengono quelle forme di rassicurazione che costituiscono una delle dimensioni più significative dell’esperienza religiosa (Tullio-Altan 1992).
Fra i comportamenti concreti su cui ci si concentrerà nelle prossime pagine, il primo da considerare è, inevitabilmente, la frequenza alla messa domenicale, che «costituisce il più semplice e ricorrente momento in cui la religione cattolica è istituzionalizzata in quanto religione e non quale istituzione avente altri contenuti» (Guizzardi 1991, p. 293). Si considereranno poi altri indicatori per circoscrivere il perimetro dei cattolici, avendo presente che al suo interno esistono aree di fedeli con forme di coinvolgimento assai differenti. In particolare, si presenteranno i dati – in serie storica e disaggregati a livello regionale – relativi ai matrimoni civili, poi quelli relativi alle nascite fuori dal matrimonio, all’insegnamento dell’ora di religione cattolica a scuola e alla destinazione dell’otto per mille nella dichiarazione dei redditi.
Lo scopo di questo ventaglio di dati – che riguardano scelte con gradi differenti di rilevanza e selettività – è anche quello di definire i confini entro cui inscrivere il mondo cattolico. È opportuno infatti escludere un’immagine dicotomica, con una netta frattura tra cattolici e no, e accettare con realismo un’immagine composita e contraddittoria, schematizzabile come una serie di cerchi concentrici, secondo la classica lezione di Gabriel LeBras (1891-1970), con un nucleo di devoti al centro, dove è maggiore l’intensità della fede, e, all’opposto, nel cerchio più lontano, l’ambito di coloro che hanno una fede più flebile e/o un rapporto più labile con la Chiesa-istituzione: una sorta di conformismo cattolico in cui l’appartenenza religiosa trascolora in poco più di un tratto genericamente culturale, per cui il riferimento religioso tende a esaurirsi nei riti di passaggio fondamentali – battesimo, prima comunione, matrimonio, esequie – e dove la pratica religiosa è limitata alle principali festività (Cartocci 2011). Tra il nucleo centrale e il cerchio più periferico si possono ipotizzare una serie di collocazioni intermedie, in cui intensità della fede, pratica religiosa e fiducia nella Chiesa tendono a diminuire spostandosi verso il limite esterno. Oltre questo limite esterno c’è poi l’ambiente estraneo, costituito a sua volta da una pluralità di figure distinte: i cristiani non cattolici, i fedeli di altre religioni, gli agnostici, gli atei. È fra queste figure che sono poi diffusi coloro che, più o meno intensamente, nutrono anche atteggiamenti anticlericali, di rifiuto e ostilità più verso la Chiesa-istituzione che non verso la fede dei credenti.
È opportuno precisare che in questa sede non interessa tanto riferirsi alla componente più direttamente militante del mondo cattolico, costituita dai fedeli più partecipi, dagli aderenti all’Azione cattolica e ai vari movimenti postconciliari. Poiché l’obiettivo é disegnare le dinamiche più evidenti del processo di secolarizzazione, con le relative proiezioni territoriali, si darà minore attenzione al cattolicesimo militante, numericamente esiguo, pur se politicamente rilevante. Esso costituisce il nucleo più denso di una nebulosa di cui in questa sede si intendono semmai rilevare i confini esterni, oltre cui l’esperienza soggettiva della fede trascolora in conformismo e tradizionalismo, privi di autentico spessore esistenziale.
Prima di analizzare nel dettaglio i singoli indicatori presentati nella tabella 1, si può qui fornire un primo quadro d’insieme.
Dunque, sono ormai quattro su dieci i matrimoni celebrati con il solo rito civile (con una percentuale in continua crescita), così come sono ormai quasi due su dieci i figli nati da coppie non sposate. Di converso, appena un decimo della popolazione decide di destinare l’otto per mille della dichiarazione dei redditi a favore di soggetti diversi dalla Chiesa cattolica, così come poco meno di un decimo degli studenti del totale delle scuole di ogni ordine e grado decide di non avvalersi dell’ora di Insegnamento della religione cattolica (IRC) a scuola. A questo riguardo, si deve precisare che il dato è, sì, riferito agli studenti, ma che l’opzione richiede la firma dei genitori, a parte quegli studenti dell’ultima classe delle superiori che hanno raggiunto la maggiore età al momento dell’opzione.
A partire anche da questi valori, e dalla più incerta conta dei cattolici militanti e di coloro che assistono regolarmente alle funzioni religiose, si può avanzare già da ora una prima stima della numerosità dei differenti cerchi sopra descritti, con cui si disegnano i confini dei diversi gradi di religiosità degli italiani. Le diverse righe della tabella 2 corrispondono alla successione dei cerchi concentrici: la riga più in alto è quindi quella del nucleo dei cattolici più ferventi e assidui, quella più in basso corrisponde all’ambiente esterno al mondo cattolico. Secondo la ricostruzione di Garelli (2006), il nucleo centrale di fedeli attivi, che fanno parte dei movimenti ecclesiali o si impegnano nelle parrocchie e nel volontariato, è costituito da poco più di un decimo della popolazione. Pur nella loro eterogeneità, essi costituiscono l’espressione e il frutto di quel processo di contromobilitazione sopra richiamato che ha preso piede alla fine degli anni Settanta, nella scia del Concilio, ma soprattutto dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, che ha sostenuto e incoraggiato i diversi movimenti ecclesiali.
C’è poi il cerchio successivo, che comprende coloro che frequentano regolarmente la chiesa, e «rappresenta quel popolo di fedeli praticanti che ha familiarità con gli ambienti ecclesiali e che più si espone agli influssi della religione di Chiesa» (Garelli 2006, p. 12). Questo secondo cerchio comprende circa il 30% della popolazione, con i cattolici attivi e militanti a costituirne un sottoinsieme. Questo cerchio corrisponde a quello che Garelli definisce come «cattolicesimo di minoranza», distinguendolo dal cattolicesimo «di maggioranza», costituito dalla fascia più numerosa di italiani, che frequenta gli ambienti religiosi più per i riti di passaggio che nelle condizioni ordinarie di vita. Proprio considerando i riti di passaggio diviene possibile procedere a una prima stima dell’ampiezza del cattolicesimo di maggioranza. Se si prende in esame il rito con cui vengono celebrati i matrimoni (in chiesa con rito concordatario oppure solo in comune), la quota di quelli celebrati in chiesa è sceso negli ultimi anni al di sotto del 60%.
Se si tiene conto del 10% dei devoti e dell’ulteriore 20% dei praticanti regolari, si potrebbe inferire che un ulteriore 30% della popolazione italiana componga il variegato mondo dei cattolici di maggioranza, arrivando a cumulare il 60% del totale (tab. 2). Si può già anticipare che questo valore percentuale è però stimato per difetto, dal momento che i praticanti irregolari e saltuari sono assai di più. Si può quindi giungere a una prima conclusione sostenendo che i cattolici di maggioranza arrivino al 50% della popolazione, considerando anche quelli che vanno in chiesa solo nelle festività più solenni del calendario liturgico (Natale e Pasqua). Si arriva così, per differenza, a un residuo 20% circa di italiani che non possono essere definiti cattolici, dal momento che non mettono mai piede in una chiesa (si veda in proposito il prossimo paragrafo).
Tuttavia, anche quest’area non può essere considerata omogenea. I dati infatti evidenziano che la Chiesa gode di un consenso e di una fiducia sensibilmente più elevati. Lo attestano i dati sulla destinazione dell’otto per mille in sede di dichiarazione dei redditi e quelli sulla scelta di iscrivere i figli all’ora di religione nelle scuole. In entrambi i casi, l’opzione secolarizzata fa registrare appena il 10% di adesioni. Il 90%, invece, opta nei due casi per la scelta cattolica (tab. 1).
Quindi, fuori da quell’80% di cittadini cattolici (devoti, di minoranza e di maggioranza) a cui si giunge come dato cumulato, esiste evidentemente un ulteriore 10% che non frequenta minimamente le funzioni religiose cattoliche ma che comunque vede nella Chiesa un’istituzione in cui fare affidamento, quanto meno in termini comparati rispetto alle altre opzioni disponibili.
È evidente, peraltro, che queste due scelte hanno una rilevanza ben diversa dalla partecipazione a un rito religioso, essendo influenzate anche da considerazioni che esulano dal senso religioso: la scarsa fiducia nello Stato come gestore delle risorse finanziarie raccolte con le imposte, oppure la mancanza di alternative didattiche all’ora di religione a scuola. Resta dunque evidente che tali scelte attestano che la Chiesa cattolica gode di una fiducia molto vasta, che riguarda un ulteriore 10% di soggetti oltre la fascia dei cattolici più tiepidi. Si può quindi affermare che circa nove italiani su dieci hanno fiducia nella Chiesa (o almeno più fiducia nella Chiesa che nello Stato). Otto su dieci frequentano almeno qualche volta una funzione religiosa nell’arco di un anno. Tra questi, circa sei di coloro che si sposano lo fanno con un rito religioso. Esiste poi un gruppo più ristretto, pari al 30% del totale degli italiani, che frequenta regolarmente la messa festiva. All’interno di questi cattolici di minoranza si trova poi il più ristretto cerchio dei fedeli devoti, pari al 10% del totale (tab. 2). Fuori dai confini dell’ultimo cerchio resta quel residuo 10% circa di italiani caratterizzato da una completa secolarizzazione stricto sensu, fino all’estremo dell’anticlericalismo oppure all’assoluta indifferenza.
A chiusura di questa prima, schematica, illustrazione della composizione della popolazione italiana rispetto al tema al centro dell’analisi, si deve sottolineare che i valori percentuali qui riportati sono indicativi, in quanto la classificazione è ricostruita a partire da fonti eterogenee e con gradi di aggiornamento differente. Questa panoramica offre un primo ordine di grandezza delle diverse situazioni, semplificando il numero delle categorie e arrotondando la loro numerosità.
A questo punto, tracciato questo primo quadro d’insieme, occorre entrare meglio nel dettaglio e studiare, grazie agli indicatori sopra richiamati, le traiettorie in termini diacronici e, soprattutto, visto l’obiettivo di questo contributo, le differenze fra le diverse aree del Paese.
Al fine di tratteggiare i confini fra le diverse aree del Paese, si può fare riferimento, in via preliminare, alla frequenza alla messa, che tuttavia, per le ragioni di seguito esposte, si è deciso di tenere fuori dal gruppo di indicatori con cui si giungerà alla costruzione dell’indice finale di secolarizzazione. Fra le diverse dimensioni e aspetti in cui la pratica cattolica si concretizza, quella più rilevante e più agevolmente rilevabile è la partecipazione alla messa domenicale. Come evidenziato da Pisati, «i dibattiti sul declino o sulla persistenza della religiosità nel nostro Paese tendono spesso ad assumere come dato di riferimento la frequenza con la quale gli italiani si recano a messa e la misura in cui questa frequenza è cambiata nel corso degli anni» (Pisati 2000). La disponibilità del dato è immediata perché viene fornita da numerose indagini campionarie. Fra queste, si è deciso di fare ricorso all’indagine multiscopo annuale dell’ISTAT sulla vita quotidiana delle famiglie.
Dai dati relativi alla più recente indagine pubblicata dall’ISTAT emerge che nel 2010 i praticanti regolari sono meno di un terzo (32%) della popolazione (esclusi i bambini al di sotto dei sei anni), valore percentuale che risulta in progressiva flessione nel periodo preso in esame. Se nel biennio 1993-94 i praticanti regolari erano stimati oltre il 39% (della popolazione di 11 anni e oltre), essi scendono al 37-38% nei tre anni seguenti, attestandosi al 36-37% fino al 2002 e al 34-35% nel 2003; dopodiché la quota di praticanti regolari decresce progressivamente: fra il 2003 e il 2005 si assiste a una riduzione di oltre un punto percentuale, cui segue un decremento pressoché identico nel 2006-2007 (33,3%) e infine una nuova flessione negli ultimi tre anni della serie storica a disposizione (tab. 3).
Al di là della diversa età minima considerata (bambini di età superiore a 6 o 11 anni), fra il 1993 e il 2010 si evidenzia una riduzione dei praticanti regolari di 7,2 punti percentuali. Considerando il solo periodo per il quale si dispone di dati omogenei (1999-2010, con tassi calcolati sulla popolazione di 6 anni e oltre), la flessione risulta comunque considerevole, di 5,6 punti percentuali.
Questa progressiva contrazione dei praticanti regolari non è stata tuttavia accompagnata da una parallela espansione dei non praticanti (cioè di coloro che dichiarano di non recarsi mai in un luogo di culto). Essi infatti costituivano il 15% della popolazione di 11 anni e oltre nel 1993. Per tutto il decennio successivo questa quota ha oscillato intorno al 15%; poi, dal 2003, la quota di coloro che non vanno mai in chiesa tende a salire in maniera marcata, attestandosi nel periodo 2008-2010 al di sopra del 19%. Se, dunque, negli anni centrali della serie storica analizzata non si registrano andamenti simmetrici fra la percentuale dei praticanti regolari (comunque in decremento) e i non praticanti (comunque in crescita), va tuttavia segnalato come dal 2003 si assista a una sorta di accelerazione del fenomeno, con i praticanti regolari in flessione di quasi un punto percentuale l’anno e i non praticanti in crescita. Si consideri che gli studi condotti negli anni Novanta, basati su serie storiche anche decennali, hanno generalmente evidenziato una sostanziale stabilità della frequenza alla messa (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995).
Grazie ai dati resi disponibili dalla più recente indagine ISTAT (relativa al 2010) è possibile tratteggiare le principali caratteristiche personali dei praticanti, a cominciare dalla più elevata pratica religiosa delle donne: fra queste oltre il 38% dichiara di andare in chiesa almeno una volta alla settimana, mentre fra gli uomini questa percentuale scende al 25,2% (tab. 4). Specularmente, sono meno di 16 su 100 le donne che non si recano mai in chiesa, mentre gli uomini sono 23 su 100. La maggior assiduità nella pratica religiosa da parte delle donne si riscontra per tutte le fasce di età, da quelle più praticanti – le coorti più giovani e più anziane – a quelle intermedie, caratterizzate da una minore incidenza dei praticanti (in primo luogo fra i 18 e i 44 anni). Il differenziale fra uomini e donne relativo a tutto il corso della vita risulta di circa 8-10 punti percentuali a favore delle donne fino alla classe dei 25-34enni, per poi ampliarsi nelle classi successive (circa 12 punti per i 35-54enni, quasi 20 per le persone di 55-59 anni, oltre 18 per i 60-64enni e oltre i 22 punti per i 65-74enni). Differenze che tendono poi a ridursi fra gli anziani (meno di 10 punti tra 75enni e oltre), anche se va aggiunto che la riduzione della pratica religiosa tra le donne più anziane è probabilmente dovuta al subentrare delle difficoltà di movimento e delle infermità, che pesano maggiormente sulla più longeva popolazione femminile.
In sintesi, la pratica religiosa è fortemente influenzata da età e genere, con due caratteristiche più evidenti: una più spiccata propensione alla pratica regolare da parte delle donne rispetto agli uomini, nonché da parte dei minorenni e degli anziani. Una terza condizione associata al rispetto del precetto festivo è il livello d’istruzione, che, per un «effetto coorte», tende a crescere tra le generazioni via via più giovani. La relazione fra livello di scolarità e pratica religiosa, mantenendo sotto controllo la variabile età, mette in evidenza che, in generale, la quota di praticanti regolari è decisamente più elevata fra le persone che possiedono al massimo la licenza elementare. Tale quota varia però notevolmente proprio a seconda dell’età. Fra le persone di 25-44 anni – la categoria che presenta la più bassa frequenza alla messa – la quota di praticanti regolari rimane pressoché costante e, anzi, si evidenzia una quota leggermente più consistente per i laureati. Anche tra i cittadini nella fascia di età successiva, quella dei 45-64enni, che in generale sono più praticanti della classe precedente, si ritrova un andamento discontinuo, sebbene la quota più consistente di praticanti regolari si riscontri fra le persone in possesso della sola licenza elementare. Ancora diverso il caso degli ultrasessantaquattrenni, con la quota di praticanti regolari che cresce in maniera sistematica all’aumentare del titolo di studio, senza differenze apprezzabili tra uomini e donne.
Per quanto riguarda la proiezione territoriale della pratica religiosa le differenze sono assai sensibili sia in base alla regione di residenza, sia in base all’ampiezza dei comuni. Per quanto concerne il tipo di comune, si è rilevata una più assidua pratica religiosa fra gli abitanti dei comuni più piccoli, in cui l’incidenza della popolazione anziana è tendenzialmente maggiore. All’opposto, sono i grandi comuni metropolitani quelli maggiormente secolarizzati. Se si scompone il campione secondo la regione di residenza (tab. 5 e fig. 1), il dato medio nazionale – che registra una quota di praticanti regolari pari al 32% – rappresenta una mera astrazione statistica, risultante di situazioni assai differenziate. Si consideri che la percentuale di frequentanti regolari in alcune regioni è più che doppia rispetto ad altre: in Toscana coloro che si recano alla messa almeno una volta alla settimana sono il 21,5%, in Valle d’Aosta il 21,7%, in Liguria il 22,9%, in Emilia-Romagna, Umbria e Friuli Venezia Giulia il 24,5%. All’estremo opposto, la Campania registra una percentuale di praticanti regolari del 43,4%, per di più in leggera crescita rispetto al 2009. In Puglia e Sicilia i praticanti regolari superano di poco il 40%; seguono il Molise (37,8%) e la Calabria (35,2%). Proseguendo in questa direzione nella lettura dei dati, si incontrano poi le prime regioni centrosettentrionali: le Marche (35,5%), il Veneto (35,1%), la Lombardia (33,6%) e il Trentino-Alto Adige (32,8%, con una sensibile differenza tra il 36,6% della Provincia autonoma di Trento e il 29% circa di quella di Bolzano).
La non perfetta simmetria fra incidenza dei praticanti regolari e dei non praticanti, cui si faceva cenno in precedenza, trova conferma anche in questa analisi a livello regionale: se la Toscana è la regione con la quota più bassa (21,5%) di praticanti regolari, è altrettanto vero che non è quella con la quota più elevata di non frequentanti (32,5%), superata in questo caso dall’Emilia-Romagna (33,1%). L’ultima colonna della tabella 5 riporta la differenza fra la quota percentuale di non praticanti e quella dei praticanti regolari, in modo da tener conto contemporaneamente di entrambe le informazioni e fornire valori conformi a una misura di secolarizzazione.
Questa differenza risulta pertanto positiva per le quattro regioni più secolarizzate: Toscana (11 punti di differenza percentuale tra chi non si reca mai in chiesa e i praticanti regolari), l’Emilia-Romagna (8,6 punti), seguita a sua volta da Liguria (6,1) e, a una certa distanza, Valle d’Aosta (1,9). Il Friuli Venezia Giulia registra un valore appena negativo (−1,3), positivo in realtà fino al 2009. Questa regione si differenzia comunque in modo notevole dal resto del Nord-Est. Infatti, sono proprio il Trentino-Alto Adige (−15,8) e ancor più marcatamente il Veneto (−17,2) a segnare i valori negativi più elevati del Nord, discostandosi sia dal Piemonte (−6,2), sia dalla Lombardia (−12,8). Anche nel Centro e nel Sud la variabilità è considerevole: la Sardegna, l’Umbria e il Lazio – con un debole saldo negativo – si distanziano considerevolmente da Marche e Abruzzo, che mostrano saldi negativi assai più consistenti. In Molise e nelle altre regioni meridionali il saldo negativo diventa ancora più elevato, arrivando a −32,7 in Campania, a −30,8 in Puglia e a −29,9 in Sicilia, tre regioni che si confermano così, stando a questo primo indicatore, come le aree meno secolarizzate del Paese.
Questa geografia richiama solo in parte la polarità tipica della cultura politica italiana, ossia la differenza tra zone ‘rosse’ e zone ‘bianche’ marcata dal medio e basso corso del Po, con a nord le regioni a più forte tradizione cattolica, a sud quelle con le più forti tradizioni di sinistra, non prive di venature anticlericali. Si evidenzia infatti un nucleo territoriale più secolarizzato (Emilia-Romagna, Toscana e Liguria) che coincide solo in parte con le regioni di più antica tradizione repubblicana e socialcomunista: Umbria e Marche sono nettamente meno secolarizzate e più affini a quelle confinanti a sud (Lazio e Abruzzo). Di converso, le regioni del Nord-Est, segnate da un secolare insediamento della subcultura ‘bianca’, non costituiscono l’area più permeata dai valori cattolici. Anzi, in Friuli Venezia Giulia i non praticanti sono circa lo stesso numero dei praticanti regolari. In definitiva, la polarizzazione più evidente contrappone il Sud del Paese a tutte le altre regioni: la pratica religiosa presenta i valori più elevati nelle regioni del Mezzogiorno continentale e in Sicilia, con la Sardegna che se ne differenzia nettamente.
Si deve a questo punto precisare che diversi studi hanno evidenziato come gli indicatori di frequenza alla messa sovrastimino la frequenza effettiva principalmente per effetto della sua maggiore desiderabilità sociale, oppure perché viene intesa come la richiesta del grado di adesione alla propria religione, piuttosto che come rilevazione puntuale di un comportamento (Castegnaro, Dalla Zuanna 2006). In tempi di contrazione della pratica religiosa, anche le risposte mosse dal riconoscimento di una pratica desiderabile, più che di quella effettiva, segnalano comunque il riconoscimento di un dovere cui non è opportuno mancare. Resta il fatto che i dati sulla partecipazione al precetto festivo soffrono di un’affidabilità più ridotta rispetto a indicatori che hanno il dettaglio della rilevazione per via amministrativa, come il rito con cui si celebrano i matrimoni, i bambini che nascono fuori dal matrimonio, la scelta per i figli dell’insegnamento della religione a scuola e la devoluzione dell’otto per mille nella dichiarazione dei redditi. I prossimi paragrafi sono appunto dedicati all’analisi della distribuzione territoriale di queste fattispecie concrete, empiricamente rilevate nella prassi amministrativa dello stato civile, dell’istruzione pubblica e del fisco.
Il matrimonio è un evento centrale nell’esistenza delle persone e la religione cattolica pone il matrimonio al centro del suo magistero e della sua pastorale. La benedizione divina suggella l’unione coniugale e la rende indissolubile, se non con la morte di uno dei coniugi. La cornice coniugale è l’unica all’interno della quale è ammessa la relazione sessuale, aperta alla vita, alla procreazione dei figli. Il magistero della Chiesa sulla famiglia individua nel matrimonio e nella sua indissolubilità il nodo centrale cui riconnette una pluralità di altri temi: la sessualità, la contraccezione, l’aborto, la fecondazione assistita, l’educazione dei figli, la trasmissione della fede, la cura degli infermi e degli anziani. D’altra parte, il matrimonio è anche un’istituzione sociale e giuridica: modifica radicalmente la condizione della cittadina e del cittadino che, sposandosi, acquistano diritti e doveri rispetto a una pluralità di materie, dal trattamento fiscale alla responsabilità civile, alla trasmissione delle proprietà.
Il lato religioso (cattolico) e il lato civile del matrimonio costituiscono una preziosa convergenza per lo studioso che intenda analizzare la diffusione degli orientamenti cattolici sul territorio italiano. Il regime concordatario è il perno che lega insieme le valenze civili e quelle religiose di questo rito di passaggio. Poiché gli atti di matrimonio hanno effetti sullo stato civile dei cittadini, essi sono accuratamente registrati dalle statistiche demografiche, al pari delle nascite e delle morti, nonché di separazioni e divorzi. L’esistenza del matrimonio concordatario (rito religioso con effetti civili) impone per ogni atto l’indicazione se la celebrazione è avvenuta di fronte al sindaco oppure di fronte al sacerdote. In un’indagine che mira a rilevare peso e diffusione dei cattolici in Italia, la distribuzione dei matrimoni civili e dei matrimoni religiosi costituisce una misura sensibile e attendibile per rilevare il livello di secolarizzazione stricto sensu di un territorio, potendo contare su una serie storica che parte dal dopoguerra e su un dettaglio territoriale che arriva ai singoli comuni.
Rilevare il tasso di matrimoni religiosi sul totale dei matrimoni celebrati in Italia e nelle sue regioni è dunque relativamente semplice per la disponibilità dei dati; si pone però il problema di stabilire quale categoria di cattolici debba essere compresa ricorrendo a questa informazione. Si è già accennato al fatto che negli ultimi anni i matrimoni religiosi costituiscono circa il 60% del totale dei matrimoni celebrati in Italia, dunque una quota doppia rispetto a quella dei praticanti regolari. Si tratta quindi di una caratteristica che racchiude una cerchia più ampia, fino a comprendere anche i cattolici più tiepidi, i cosiddetti cattolici di maggioranza. Chi si sposa in chiesa può anche essere un praticante molto tiepido, non necessariamente un cattolico fervente. Può inoltre decidere di sposarsi in chiesa anche chi non crede o professa un’altra religione, per rispettare il/la partner di fede cattolica. Anche la considerazione, del tutto profana, di una più elevata teatralità offerta dalle nozze in chiesa costituisce una motivazione per celebrare le nozze con il rito religioso, per non parlare della mera pressione sociale al conformismo. Il matrimonio costituisce dunque, per la sua centralità nelle biografie individuali, quello che Marcel Mauss nell’Essai sur le don (1923-24) ha definito un «fatto sociale totale», al pari di tutti quei fenomeni che sono al tempo stesso di natura giuridica, economica, religiosa e anche estetico-morfologica.
Per questi motivi, il tasso dei matrimoni religiosi sovrastima certamente l’area dei cattolici di minoranza; più ragionevolmente stima la quota dei cattolici di maggioranza. Il suo complemento (il tasso di matrimoni civili) ha un significato più chiaro: si tratta di una esplicita e consapevole scelta di non accedere al rito cattolico. Questa scelta può avere molte ragioni, oltre a una diversa fede religiosa. Agnosticismo, ateismo, anticlericalismo irriducibile, un precedente matrimonio seguito da divorzio: basta che uno dei nubendi si trovi in una di queste condizioni per rendere impraticabile la via delle nozze in chiesa. In tutti questi casi, i principi della dottrina cattolica vengono contraddetti o ignorati. Quindi nessuno di questi motivi contraddice o mette in discussione il ricorso al tasso di matrimoni civili come indicatore di secolarizzazione. I motivi che precludono il rito religioso sono comunque tutti fattori di secolarizzazione, nel senso qui considerato. Anzi, la serie di motivi per cui sposarsi in comune è un obbligo e non una scelta confermano la pertinenza di questa variabile con la proprietà che qui si intende rilevare.
Dunque, il ricorso al tasso di matrimoni civili sul totale dei matrimoni celebrati consente di tracciare il confine che separa i cattolici più tiepidi e meno praticanti dai non cattolici. Si tratta dei dati ISTAT desunti, per intervalli di un quinquennio, dagli annuari delle statistiche demografiche, dal 1951 al 2011, a livello nazionale e regionale. Duplice è la prospettiva d’analisi: diacronica, al fine di rendere conto della progressione della secolarizzazione fino ai nostri giorni; sincronica, al fine di mettere in luce il grado di disomogeneità che tale processo produce sul territorio nazionale (Cartocci 2011).
Nel ventennio dal 1951 al 1971 il numero di matrimoni in Italia è aumentato progressivamente, a parte una leggera flessione registrata nella metà degli anni Sessanta. Se nel 1951 circa 330.000 coppie si sono unite in matrimonio, nel 1971 sono state celebrate più di 400.000 nozze (tab. 6). A partire dagli anni Settanta si è invece assistito a una costante riduzione del numero dei matrimoni, fatto salvo un leggero recupero all’inizio degli anni Novanta. Nel 2011 sono state celebrate circa 205.000 nozze, quasi la metà in meno rispetto al 1971. Riduzione che va senz’altro ricondotta alla drastica caduta della natalità dopo i picchi degli anni Sessanta ma anche, per gli ultimi decenni, come si vedrà, alla crescente tendenza delle coppie italiane a formare un’unione stabile al di fuori del vincolo coniugale. Peraltro, come mostra la tabella 6, la riduzione del numero di matrimoni celebrati si è accompagnata al fenomeno che più interessa in questa sede: l’aumento dei matrimoni civili, in termini assoluti e soprattutto relativi.
Fino alla metà degli anni Sessanta la quota percentuale dei matrimoni civili si è mantenuta in Italia su livelli estremamente bassi, subendo tra l’altro una progressiva riduzione: dal 2,4% del 1951 all’1,2% del 1966. Dopodiché, tale quota è cresciuta costantemente, superando il 10% nel 1981, il 20% nel 1996, raggiungendo il 34% nel 2006, fino ad attestarsi al 39,2% nel 2011 (fig. 2). Si tratta di una crescita indubbiamente notevole, sebbene la maggior parte degli italiani continui a privilegiare le nozze in chiesa: nel 2011, infatti, i matrimoni religiosi erano comunque oltre 6 su 10.
La crescita dei matrimoni civili è avvenuta con velocità diverse nei vari intervalli di tempo presi in considerazione, con un forte incremento nei quinquenni 1971-76 e, ancor di più, nel 1996-2001 e nel 2001-06. La rapida crescita dei matrimoni civili negli anni Settanta va senz’altro interpretata alla luce delle più generali trasformazioni socioculturali dell’epoca, peraltro contrassegnata anche dall’introduzione del divorzio nel 1970.
Negli anni Cinquanta le già minime deviazioni dalla regola del matrimonio in chiesa sono andate progressivamente a diminuire, presumibilmente per l’esaurirsi del disordine postbellico. Il minimo di anticonformismo si è così raggiunto nel 1966, un’epoca, peraltro, di pieno boom economico, grande effervescenza sociale, culturale e artistica, ma che presenta a livello di massa un accentuato conformismo tra i giovani. Gli effetti della successiva rivolta giovanile del 1968 si sono immediatamente manifestati: dal 1966 al 1976 i matrimoni civili sono aumentati di sette volte. In seguito la crescita è stata sistematica e sostenuta.
Quanto agli ultimi vent’anni, l’aumento dei matrimoni civili va in parte imputato anche alla crescita della popolazione straniera, in larga misura non cattolica, con la percentuale di matrimoni con almeno un coniuge straniero in costante crescita a partire dagli anni Duemila. Va comunque precisato che l’aumento delle seconde nozze e dei matrimoni con almeno un coniuge di altra cittadinanza e religione nient’altro sono che ulteriori aspetti del processo di secolarizzazione in atto. Si tratta, cioè, di un fenomeno che certo incide sui tassi della variabile qui presa in esame, ma non inficia la validità di quest’ultima come indicatore di secolarizzazione.
Questo dato nazionale nasconde rilevanti differenze territoriali: il processo di secolarizzazione ha avuto intensità e percorsi differenti in base alla grandezza dei comuni e alla regione. Se il cambiamento socioculturale tende a manifestarsi in primo luogo nelle grandi città, non meraviglia che i contesti più urbanizzati siano quelli in cui si è prima innescato questo processo, come evidenzia la tabella 7.
Dopo la progressiva contrazione verificatasi negli anni 1951-66, il tasso di matrimoni civili è aumentato in misura più sensibile nelle dodici città più grandi (denominate per chiarezza capoluoghi metropolitani, anche se buona parte di esse sono tutt’altro che metropoli: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Cagliari, Napoli, Bari, Palermo e Catania).
La differenza tra metropoli, altri capoluoghi di provincia e comuni minori ha raggiunto il suo massimo nel 1981. In tale anno il tasso di matrimoni civili nei dodici capoluoghi metropolitani è stato del 27,5%, a fronte di una quota pari al 17,1% negli altri capoluoghi e al 7,9% nei restanti comuni. Dunque, dal 1966 al 1981, nel quindicennio che contiene la fase più acuta di mobilitazione politica e di cambiamento, gli effetti si sono fatti sentire soprattutto nelle aree metropolitane, dove i matrimoni civili sono aumentati di 25 punti, a fronte di incrementi pari a oltre 15 punti nei restanti capoluoghi e a 7 punti nei comuni minori. Se però si tiene conto dei differenti punti di partenza, si osserva che in tutte e tre le categorie i matrimoni civili sono aumentati di dieci volte.
A partire dagli anni Ottanta, la crescita dei matrimoni civili nei capoluoghi metropolitani è rallentata, mentre è rimasto sostenuto l’incremento negli altri capoluoghi. Si è così determinata una progressiva omogeneizzazione dei contesti urbani: nel 2011 i comuni metropolitani e gli altri capoluoghi presentavano quasi il medesimo tasso di matrimoni civili (rispettivamente, il 46,2% e il 44,8%). Il divario con i comuni minori è rimasto invece più sensibile: nello stesso anno questi ultimi presentavano un tasso di matrimoni civili inferiore al 37%. Una simile quota era stata raggiunta nel 2001 nelle città metropolitane.
Per quanto concerne le differenze territoriali, nella tabella 8 è riportata l’incidenza dei matrimoni civili nelle diverse regioni dal 1951 in poi. Nel 1951 la percentuale più alta di matrimoni civili si registrava in una regione meridionale: la Campania, con il 5,6%, seguita da Liguria (5,2%), Emilia-Romagna (4,8%) e Calabria (4,4%). La regione con il minor tasso di matrimoni civili era invece la Puglia (0,5%), seguita, in ordine crescente, da Veneto e Sardegna (0,6%), Umbria (0,8%), Friuli Venezia Giulia (1%), Trentino-Alto Adige (1,2%).
Se fino al 1966 la graduatoria regionale non ha subito variazioni di rilievo, nel ventennio 1966-1986 la quota nazionale di matrimoni civili è più che decuplicata (dall’1,2% al 14,2%), ma con intensità differenti nelle diverse aree del Paese. In generale, la crescita dei matrimoni civili è stata più marcata nelle regioni del Nord e in Toscana (seppur con una notevole variabilità intra-area). L’incremento è stato superiore ai 20 punti in Trentino-Alto Adige, Liguria, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia. Una crescita compresa tra i 15 e i 20 punti si registra invece in Emilia-Romagna, Toscana e Piemonte. Solo Lombardia e Veneto vedono aumentare il tasso di matrimoni civili di meno di 15 punti, segnale della residua tenuta dell’impianto subculturale cattolico.
Nelle regioni del Centro (cui è da associare la Sardegna, per affinità statistica sistematica), il tasso di matrimoni civili è cresciuto mediamente di 12 punti percentuali, con un incremento più marcato nel Lazio e in Sardegna e uno assai più contenuto nelle Marche e in Abruzzo. Quanto alle regioni meridionali, esse hanno presentato una crescita media di 7 punti percentuali. Si noti che l’incremento dei matrimoni civili in Campania – dovuto in larga misura al solo comune di Napoli – è stato tre volte superiore a quello registrato nelle altre regioni del Sud (con gli incrementi meno elevati in Basilicata e Calabria).
Nel 1986, al termine del ventennio appena analizzato, la regione più secolarizzata risultava la Liguria (24,2%), seguita, nell’ordine, da Trentino-Alto Adige (23%), Valle d’Aosta (22,6%) e Friuli Venezia Giulia (22,3%). Le percentuali più basse di matrimoni civili si registravano invece in Basilicata (5,1%), Molise (5,2%), Puglia (5,5%) e Calabria (6,2%).
Negli anni dal 1986 al 2006 il processo di secolarizzazione è stato ancora più sostenuto. In tali anni il tasso nazionale di matrimoni civili è più che raddoppiato, passando dal 14,2% al 34%. L’incremento più consistente si è registrato, ancora una volta, nelle regioni del Nord. Va però aggiunto che in questo ventennio si è assistito a un fenomeno di progressiva convergenza tra le regioni appartenenti alla medesima area geografica e a una accentuazione della differenza tra Centro-Nord e Sud.
La distanza è ulteriormente aumentata negli ultimi cinque anni. Basti evidenziare che nel 2011 in sette regioni centrosettentrionali – in ordine decrescente, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Toscana, Liguria, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Lombardia – il rito civile ha riguardato più della metà dei matrimoni.
Nelle regioni del Sud, il tasso oscilla invece fra il 33,5% dell’Abruzzo e il 13,4% della Basilicata. In posizione intermedia si collocano tutte le regioni del Centro: dal Lazio (43,9%) alla Sardegna (40,8%), fino alle Marche (37,6%). Il tasso di matrimoni civili più alto fra quelli delle regioni centro-meridionali (Lazio con 43,9%) è meno elevato di quello più basso registrato per il Nord (47,5% del Veneto).
In generale, dunque, il Nord è nettamente più secolarizzato del Sud, con il Centro collocato in posizione intermedia (fig. 3). Con un fugace riferimento ai dati provinciali, si può notare che le province costiere, soprattutto quelle con scali marittimi importanti, tendono a essere più secolarizzate delle province interne. Ciò vale in particolare per le province liguri e per Venezia, Trieste, Livorno, Ravenna. Anche la prossimità ai confini, lungo importanti direttrici di traffico, si conferma un fattore di secolarizzazione, com’è evidente nel caso di Imperia, Aosta, Bolzano e Udine. Va infine notato che con il passare del tempo e la progressiva crescita del livello medio dei matrimoni civili, tende a ridursi la particolarità dei grandi centri urbani: Bologna, Firenze, Genova e Torino sono al centro di aree secolarizzate più ampie. Pur con percentuali più basse, anche Cagliari, Bari e Palermo risultano in continuità con le province circostanti. Mantengono un isolato primato regionale invece Milano, Venezia e soprattutto Roma, con valori nettamente più elevati del resto del Centro-Sud.
Il quadro aggiornato della geografia della secolarizzazione viene completato con la presentazione degli ulteriori tre indicatori disponibili che si è deciso di utilizzare in questa sede, per giungere poi alla costruzione di un indice sintetico di secolarizzazione.
Nelle pagine precedenti è stato sottolineato come la famiglia costituisca uno dei nodi principali del magistero e della pastorale della Chiesa cattolica. Il tema, con i suoi differenti aspetti, è uno dei più ricorrenti negli interventi di pontefici e vescovi. Anche le omelie dei sacerdoti nelle messe festive trovano nella famiglia continua ispirazione per trarre considerazioni e conclusioni sulla pluralità di effetti negativi dovuti alla sua crisi e, più in generale, all’allontanamento dai principi cattolici che segna la vita delle famiglie di oggi.
La minaccia quotidiana della secolarizzazione viene cioè rinvenuta proprio nelle trasformazioni che avvengono dentro e intorno alla famiglia. In questa dimensione del ‘mettere su famiglia’ si è diffuso un preciso segno di secolarizzazione: vivere more uxorio senza sposarsi. La decisione di formare una famiglia al di fuori del vincolo matrimoniale attesta una contrapposizione rispetto ai principi della dottrina cattolica ancor più radicale di quella che connota la scelta di celebrare il matrimonio con il solo rito civile. La crescita dei matrimoni civili a scapito delle celebrazioni con rito cattolico-concordatario, iniziata nel 1966, ha costituito soltanto la tappa iniziale nel processo di secolarizzazione della famiglia italiana. Negli ultimi due decenni è lo stesso modello familiare tradizionale – basato sulla coppia coniugata – a essere entrato in crisi, con la crescente diffusione delle convivenze senza matrimonio, o unioni di fatto.
Nell’Italia di oggi la diffusione delle unioni di fatto può dunque essere usata come un possibile indicatore di secolarizzazione: più coppie di fatto significa più secolarizzazione stricto sensu. L’affinità semantica esiste come nel caso dei matrimoni civili. Ma, a differenza dei matrimoni, le unioni di fatto sono appunto ‘di fatto’ e non ‘di diritto’, e quindi sfuggono a quella formale registrazione cui è sottoposto il matrimonio, quale che sia il rito con cui viene celebrato. La rilevazione delle convivenze more uxorio viene effettuata periodicamente con indagini campionarie, nonché in occasione del censimento, a cadenza decennale. Per entrambi i casi si riscontra dunque un’insufficienza dei dati a disposizione, almeno per l’obiettivo prefissato in questa sede: rilevare la presenza differenziale dei fedeli cattolici nell’Italia di oggi, in particolare perché le indagini campionarie non permettono di approfondire l’analisi fino al livello regionale.
Ciononostante, è utile richiamare in breve i risultati delle suddette indagini, in particolare i dati pubblicati dall’ISTAT nell’indagine multiscopo annuale sulle famiglie del 2009 (ISTAT 2010). Queste rilevazioni evidenziano come le unioni di fatto siano in costante aumento in Italia, pur rimanendo un’esigua minoranza del totale delle unioni, soprattutto nel Sud (meno la Sicilia). In otto anni la quota nazionale di coppie non coniugate è passata dal 3,5% del 2001 al 5,5% del 2009. Anche in questo caso, si osserva poi una maggiore incidenza delle libere unioni nelle aree metropolitane e costiere, delineando una geografia affine a quella rilevata nel precedente paragrafo per i matrimoni civili.Tuttavia, per una rilevazione sistematica e diacronica dei dati sulle coppie di fatto, è opportuno ricorrere a una diversa variabile per cui sono disponibili dati aggiornati, oltre che disaggregati a livello regionale grazie ai registri di stato civile dei comuni: la quota di nati al di fuori del matrimonio.
In assenza di dati recenti sulle libere unioni in Italia e nelle singole regioni italiane, la variabile relativa alle nascite extraconiugali non solo costituisce un solido indicatore in sé di secolarizzazione, ma ci aiuta a rilevare indirettamente il peso delle coppie di fatto nelle varie aree del Paese. Queste costituiscono un fenomeno tanto più rilevante quanto più raggiungono quel grado di stabilità e solidità che viene attestato dalla nascita dei figli. Attraverso il numero dei bambini nati fuori dal matrimonio si può avere una misura indiretta delle unioni di fatto more uxorio, che cioè non siano, o non siano vissute dagli interessati, come mere convivenze occasionali.
Naturalmente l’incidenza delle coppie di fatto è una variabile di stock, calcolata sul totale delle coppie, dalle più giovani alle più anziane, costituitesi nel corso di decenni passati. Il numero dei nati fuori dal matrimonio è invece una variabile di flusso, esattamente come il tasso di matrimoni civili. Essa rileva quanti bambini sono nati in un singolo anno, differenziando tra i figli di genitori formalmente coniugati e tutti gli altri. Per questo i valori percentuali sono più alti di quelli del totale di coppie non sposate rilevate in un anno. Queste ultime risultavano poco più del 5% nel 2009, mentre i bambini nati fuori dal matrimonio sono quasi un quinto del totale, come emerge dalla figura 2, che riporta la serie storica nazionale relativa ai nati fuori dal matrimonio per i quinquenni compresi tra il 1951 e il 2011, associata a quella dei matrimoni civili, presentata nel paragrafo precedente.
Le due variabili hanno avuto nel tempo un andamento simile, caratterizzandosi entrambi per un costante aumento, dopo la progressiva contrazione registrata fino alla metà degli anni Sessanta. Nel 1966 entrambi gli indicatori si attestavano su valori estremamente bassi. In tale anno i bambini nati fuori dal matrimonio rappresentavano il 2% del totale dei nati vivi nell’anno – figli di ‘ragazze-madri’, espressione non a caso caduta progressivamente in disuso. Dagli anni Settanta i valori assunti dalle due variabili sono cresciuti continuamente, sebbene l’aumento delle nascite extraconiugali sia stato, fino alla metà degli anni Novanta, molto più graduale e contenuto.
Se il decollo dei matrimoni civili è cominciato già negli anni Settanta, la crescita delle nascite extraconiugali – seppur continua – ha avuto una significativa accelerazione soltanto a partire dalla metà degli anni Novanta, con un ritardo dunque di circa vent’anni. Tra il 1971 e il 1996 la quota di nati al di fuori del matrimonio è passata dal 2,3% all’8,3%, con una crescita di 6 punti. Nello stesso periodo la quota di matrimoni civili è aumentata di 16,4 punti.
Dalla metà degli anni Novanta le due variabili hanno entrambe registrato un’impennata, sebbene l’incremento delle nascite extraconiugali sia rimasto più contenuto fino all’inizio del nuovo decennio. Da sottolineare come nel quinquennio dal 2001 al 2006 vi sia stata una crescita di circa 7 punti percentuali per entrambi gli indicatori, mentre nell’ultimo quinquennio preso in esame è aumentata di oltre 5 punti percentuali l’incidenza dei matrimoni civili e di meno di 4 punti quella dei figli nati al di fuori del matrimonio (fig. 2).
I dati regionali (fig. 4 e tab. 9) evidenziano una geografia piuttosto articolata, con un’incidenza di nascite extraconiugali che oscilla tra un minimo appena superiore all’8,7% in Calabria e un massimo pari al 33,3% in Liguria. Valori particolarmente elevati, superiori al 30%, si rilevano in quattro regioni settentrionali: oltre alla Liguria, nell’ordine, la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige e l’Emilia-Romagna. Le restanti regioni del Nord si collocano nelle posizioni medio-alte della graduatoria, assieme a due regioni del Centro (Lazio e Sardegna). Le ultime cinque posizioni sono infine occupate dalle regioni del Sud continentale, nell’ordine: Puglia (16%), Molise, Campania, Basilicata e Calabria (8,7%).
In generale, il quadro che emerge dall’analisi dei dati regionali sulle nascite extraconiugali è ancora una volta quello di un Centro-Nord più secolarizzato del Mezzogiorno, in continuità con quanto riscontrato per i matrimoni civili. Emerge cioè una sovrapponibilità pressoché totale tra geografia delle nascite extraconiugali e geografia dei matrimoni civili, attestata dalla forza della relazione statistica rilevata tramite il calcolo del coefficiente di correlazione r calcolato per gli anni dal 1986 al 2011 per la coppia di indicatori matrimoni civili/nascite fuori dal matrimonio. Il coefficiente r è alto e positivo per tutti gli anni considerati con valori prossimi o superiori a +0,90, a riprova dell’esistenza di una relazione stretta tra i due fenomeni. In altri termini, laddove è più elevata la quota di matrimoni civili è maggiore anche l’incidenza delle nascite fuori dal matrimonio. Viceversa, nelle regioni caratterizzate da un minor ricorso alle nozze in municipio, è inferiore anche la quota di figli nati da coppie non sposate, con una sovrapponibilità che tende ad aumentare nel tempo. Va inoltre evidenziato come la forza della relazione tra le due variabili aumenti progressivamente da un anno all’altro.
Il quadro non sorprende, data l’affinità tra le due variabili. Esse rilevano due effetti diversi di uno stesso fenomeno, che è la recessione dei valori cattolici nell’orientare le decisioni in tema di formazione della famiglia. La diffusione delle unioni more uxorio tende a costituire una seconda fase rispetto alla diffusione dei matrimoni civili, seguendone sistematicamente la distribuzione sul territorio. Entrambe sono variabili di flusso che rilevano la mobile linea di confine tra i cattolici di maggioranza – i più tiepidi e incostanti – e i non cattolici. Entrambe dicono relativamente poco sulla consistenza numerica dei cattolici di maggioranza, ma attestano la loro riduzione via via che entrano nell’età adulta coorti di giovani che si sposano sempre meno in chiesa, non si sposano affatto, oppure lo fanno solo dopo la nascita dei figli.
Nei prossimi due paragrafi si continuerà a tracciare la geografia della secolarizzazione rilevando un altro piano: non tanto la fedeltà ai principi del magistero della Chiesa rispetto ai temi legati alla famiglia, quanto la fiducia nella Chiesa come istituzione educativa e operatrice di carità, a prescindere dalla condivisione della fede.
Con l’espressione otto per mille si fa riferimento al meccanismo con cui lo Stato italiano ripartisce questa frazione del gettito fiscale dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) sulla base delle scelte espresse dai contribuenti. I possibili destinatari sono lo Stato stesso e una serie di confessioni religiose stabilite per legge, tra le quali rientra naturalmente la Chiesa cattolica. Anzi: la misura costituisce il nuovo canale di finanziamento della Chiesa cattolica da parte dello Stato dopo l’entrata in vigore del nuovo Concordato del 1984. Giova ricordare che la ripartizione della cifra avviene sulla base delle dichiarazioni che presentano le opzioni espresse. L’intera somma viene suddivisa in base alle destinazioni sottoscritte: le mancate opzioni, anche se costituiscono ben oltre la metà delle dichiarazioni presentate, non hanno alcun effetto sulla suddivisione.
Il ricorso a questi dati per tracciare la geografia dei cattolici è dovuto al fatto che le opzioni favorevoli alla Chiesa cattolica sono circa il 90% di quelle espresse. Si tratta in questo caso di un indicatore di stock, da interpretare come l’espressione del limite esterno dell’area in cui i valori cattolici sono apprezzati anche da chi non è praticante, così come si considera, nel paragrafo seguente, l’opzione per l’ora di religione a scuola. In entrambi i casi risulta evidente la sovrapposizione di significati religiosi e non. L’elevato numero di opzioni a favore della Chiesa cattolica è riconducibile solo in parte a una motivazione specificamente religiosa. L’opzione, infatti, viene alimentata dal differenziale di fiducia tra Stato e Chiesa, che penalizza il primo e che premia la seconda ben oltre il perimetro dei cattolici praticanti.
Per tale motivo, conviene utilizzare come indicatore la percentuale di coloro che non hanno scelto la Chiesa cattolica come destinatario dell’otto per mille. Si tiene conto quindi di un insieme di opzioni eterogenee – lo Stato e ciascuna delle altre confessioni religiose che partecipano alla ripartizione – ma accomunate dal loro significato di scelte con un esplicito significato non cattolico. Si tratta quindi di un’area costituita da contribuenti che, per una pluralità di motivi differenti, rende esplicita la propria distanza dalla Chiesa cattolica: fedeli di altre confessioni, agnostici o anticlericali che diffidano della Chiesa anche come istituzione benefica.
I dati sono relativi alle assegnazioni dello Stato avvenute nel 2007, che corrispondono alle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2004. Il numero di dichiarazioni e la distribuzione delle scelte espresse sono riportati in tabella 10. Nel 2004, tra coloro che hanno espresso validamente la propria preferenza, la netta maggioranza si è espressa a favore della Chiesa cattolica e solo una minima percentuale a favore delle altre organizzazioni religiose e dello Stato.
Prima di procedere alla presentazione dei dati disaggregati a livello regionale, si devono segnalare alcuni punti di rilievo: a) quasi due cittadini italiani su tre presentano la dichiarazione dei redditi senza sottoscrivere nessun destinatario dell’otto per mille; b) le opzioni esplicite alla Chiesa sono espresse da meno del 40% dei cittadini dichiaranti; c) l’insieme di tutte le altre opzioni arriva a poco più del 10% del totale delle opzioni sottoscritte.
Ciò detto, si precisa che per definire operativamente l’indicatore si è deciso di utilizzare le opzioni per beneficiari diversi dalla Chiesa cattolica, calcolate come percentuali delle scelte validamente espresse. Pertanto non si è tenuto conto del differente tasso di scelte espresse nelle varie regioni in riferimento ai rispettivi dichiaranti, scegliendo di parametrizzare i dati alle scelte validamente espresse, fatte uguali a 100 in tutte le regioni. Si sono inoltre sommate tutte le scelte diverse da quella per la Chiesa cattolica, indipendentemente dal peso relativo delle singole confessioni e dello Stato, in coerenza con i fini di questo lavoro, orientato a identificare l’ampiezza della quota di popolazione indifferente oppure ostile alla Chiesa.
La distribuzione per regione delle percentuali complessive delle scelte diverse dalla Chiesa cattolica sono riportate nella tabella 9, che mostra una situazione affine a quella riscontrata per gli altri indicatori precedentemente considerati. Anche in questo caso, vi è una marcata differenza tra le regioni del Sud, in cui il sostegno alla Chiesa cattolica è più forte e diffuso, e il resto d’Italia. Dall’Abruzzo all’estremo Sud la percentuale di opzioni diverse dalla Chiesa cattolica è ovunque inferiore al 7%, per arrivare al minimo in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, dove è inferiore al 4%. A questa sostanziale uniformità del Mezzogiorno si contrappone un’accentuata variabilità nelle regioni del Centro-Nord, tutte con valori pari o superiori all’8%. In questa metà centro-settentrionale del Paese è agevole riconoscere tre differenti gruppi di regioni (fig. 5). Una fascia centrale, costituita da Marche, Umbria e Sardegna, in cui le opzioni che escludono la Chiesa cattolica sono comprese tra l’8 e il 10%, con il Lazio che si distacca in senso più secolarizzato, con l’11,6%. Più a Nord si trova poi l’area territorialmente continua che dalla Toscana risale verso l’Emilia-Romagna e la Liguria, fino al Piemonte e alla Valle d’Aosta, con le percentuali più elevate, tutte superiori al 16% e con una punta che sfiora il 22% in Emilia-Romagna. A queste regioni è affine anche il Friuli Venezia Giulia, con il 14,4%. Nettamente più bassi i valori nelle tre rimanenti regioni settentrionali: Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige, dove le percentuali di contribuenti che non indicano la Chiesa cattolica sono intorno al 10%, pressoché in linea con la media nazionale.
Anche in questo caso, poi, la disponibilità dei dati a livello provinciale, consente di individuare ulteriori articolazioni del territorio italiano. È possibile, per es., evidenziare la più elevata secolarizzazione delle aree urbane, a prescindere dalla collocazione regionale delle stesse. L’effetto secolarizzante delle aree urbane è particolarmente forte ed evidente nel Centro-Nord: Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma e, anche se in misura minore, Cagliari mostrano percentuali di opzioni che escludono la Chiesa cattolica significativamente superiori a quelle registrate nel resto della regione di appartenenza. L’unica eccezione è Genova, allineata con il resto della regione su quote di non avvalentisi elevate. Al Sud, al contrario, per quanto riguarda la destinazione dell’otto per mille non alla Chiesa cattolica, si riscontra una più forte omogeneità tra province, siano esse metropolitane o meno.
L’istruzione rappresenta, praticamente da sempre, uno degli strumenti più potenti per esercitare influenza sulla società. Non può sorprendere, pertanto, che l’Insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole sia considerato un aspetto fondamentale della presente ricerca e – cosa più importante – un tema cruciale della partita, tuttora in corso, tra le gerarchie cattoliche e i sostenitori della necessità di una minore presenza della Chiesa cattolica nella vita pubblica italiana.
Prima di procedere all’analisi dei dati, è necessario inquadrare il significato dell’insegnamento della religione cattolica nel più ampio contesto del rapporto tra Chiesa e società, anche per capire quale valore può assumere tale indicatore in una ricerca che miri a rilevare la secolarizzazione. Si può sottolineare, innanzitutto, che l’opzione di avvalersi o meno dell’insegnamento dell’ora di religione, di regola decisa dai genitori per i propri figli, costituisce in astratto un ottimo indicatore dei confini dell’identità cattolica. La quota di tali scelte rispetto al totale degli studenti (superiore all’80%), risulta tuttavia assai più vicina a quella delle opzioni dell’otto per mille che a quella dei cattolici praticanti regolari. Ciò indica il peso di motivazioni extrareligiose – dall’indisponibilità di alternative didattiche adeguate alla convinzione che questa offerta didattica costituisca comunque un arricchimento morale e culturale per gli studenti, a prescindere dalle convinzioni religiose delle famiglie. Tale indicatore tende a sovrastimare le dimensioni dell’area riconducibile all’identità cattolica: piuttosto, esso contribuisce a valutare l’ampiezza di quella parte di società che riconosce alla Chiesa cattolica un prestigio sociale e una qualche autorità morale. Infatti, la decisione di non avvalersi costituisce un’esplicita proclamazione di indifferenza religiosa o di appartenenza a un’altra religione.
Riguardo allo status giuridico dell’insegnamento della religione cattolica, è opportuno ricordare brevemente che:
a) è previsto dalla legislazione concordataria;
b) ha assunto questa denominazione, insegnamento della religione cattolica, solo con il Concordato del 1984 (in precedenza la definizione era «insegnamento della religione», senza necessità di ulteriore specificazione, dal momento che l’unica religione riconosciuta dallo Statuto albertino era quella cattolica; oggi, in conformità con un quadro di pluralismo e libertà religiosa, la specificazione cattolica si è invece resa necessaria);
c) si basa su motivazioni storico-culturali (e non più, come nel Concordato del 1929, sull’affermazione del cattolicesimo come fondamento e coronamento dell’istruzione);
d) è istituito in ogni ordine e grado di scuola;
e) è facoltativo, con la possibilità di scegliere se avvalersi o non avvalersi di esso;
f) è svolto da docenti ritenuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati d’intesa dalle autorità ecclesiastica e scolastica, su testi e programmi scelti concordemente dalle stesse due autorità.
L’indicatore utilizzato per l’ora di religione è la percentuale di studenti che, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica. I dati sono quelli forniti dalla Conferenza episcopale italiana, in particolare dall’Osservatorio socioreligioso del Triveneto e, dove non diversamente specificato, si riferiscono all’anno scolastico 2006-07, l’ultimo per il quale i dati sono disponibili a questo livello di dettaglio territoriale. Per le regioni pastorali si presenteranno, più avanti, anche i dati aggiornati fino all’anno scolastico 2010-11.
È importante segnalare che i tassi di studenti avvalentisi e non-avvalentisi sono molto differenti a seconda del livello scolastico esaminato. Infatti, come mostra la tabella 11, nelle scuole secondarie di primo grado e, soprattutto, nelle scuole di secondo grado, la percentuale di studenti che non si avvalgono dell’IRC è decisamente superiore rispetto alle scuole di livello inferiore, almeno per quanto riguarda le regioni del Nord e del Centro. La media nazionale indica che più del 15% degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado non frequenta l’ora di religione, contro poco più del 5-7% degli studenti di scuole d’infanzia, primarie e secondarie di primo grado. Differenza che richiama, con misure molto attenuate, quelle già osservate in termini di frequenza alla messa, che si riduce fortemente con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
La tabella 12 riporta la quota percentuale di studenti non avvalentisi dell’IRC nelle regioni pastorali per gli anni scolastici 2006-07, 2008-09, 2009-10 e 2010-11. Come si può osservare, la media nazionale era pari all’8,8% nel 2006-07 per salire fino al 10,2% nel 2010-11. Resta comunque evidente che la stragrande maggioranza degli studenti, circa nove su dieci, si avvale dell’ora di religione. A tale media, tuttavia, si accompagna una forte variabilità territoriale. Oltre alle comprensibili differenze tra i gradi di istruzione illustrate precedentemente, infatti, vi sono notevoli differenze a seconda della regione pastorale (si ricorda che le regioni pastorali corrispondono sostanzialmente alle regioni previste dalla Costituzione, con l’eccezione del Triveneto, unica regione pastorale, e di Aosta, che appartiene alla regione pastorale del Piemonte).
Il primo aspetto che emerge anche dall’analisi di questo indicatore è che le regioni settentrionali mostrano un grado di secolarizzazione marcatamente più elevato rispetto al resto d’Italia. Le regioni con il tasso più alto di bambini e ragazzi che non si avvalgono della possibilità di seguire l’ora di religione sono due regioni storicamente definite rosse: Emilia-Romagna (20,1% nell’a.s. 2010-11) e Toscana (19,3%). Non molto distaccati si trovano poi i valori percentuali di Piemonte (17,1%), Lombardia (16,6%) e Liguria (15,7%); poco più bassa è la quota nel Triveneto: attestata all’13,1% (tab. 12 e fig. 6).
Quanto più si scende poi verso sud, tanto più i valori dell’indicatore tendono a diminuire, dunque a denotare bassi livelli di secolarizzazione. Risulta pertanto assai netta la distinzione fra le regioni del Sud e il resto del Paese. I valori delle regioni pastorali del Mezzogiorno, infatti, superano il 2% solo nei casi di Abruzzo-Molise (4,6%), Sicilia (2,7%) e Calabria (2,1%), attestandosi altrimenti sempre al di sotto del 2%, fino ad arrivare al minimo dell’1,5% registrato dalla Campania. Oltretutto, leggendo in chiave diacronica i dati presentati nella tabella 12, si osserva che gli incrementi più marcati di non avvalentisi in questi anni si sono registrati per le regioni settentrionali e che pertanto la distanza fra i valori percentuali del Centro-Nord e quelli del Sud del Paese si è ampliata. Basti notare che fra la prima e l’ultima regione della graduatoria relativa all’a.s. 2006-07 si registrava una differenza di 16,3 punti percentuali, mentre nell’a.s. 2010-11 si arriva a 18,6 punti.
Dopo aver esaminato ciascuno dei quattro indicatori utilizzati per disegnare una geografia della secolarizzazione in Italia, si procede ora a una sintesi della pluralità di rilievi empirici emersi nelle pagine precedenti. Come già sottolineato, ai fini di una più immediata lettura e comparabilità, si è scelto di definire i quattro indicatori in modo che avessero tutti la medesima polarità: per ognuno di essi, quanto più il valore assunto è elevato, tanto maggiore è il grado di secolarizzazione, intesa stricto sensu.
Come si può notare osservando i valori medi presentati nella tabella 13, questi indicatori sono punti di osservazione collocati in corrispondenza di temi di rilevanza differente, che circoscrivono cerchie differenti. In generale si tende a delimitare l’area dei cattolici ‘di maggioranza’, cioè dei cattolici che hanno una relazione più debole, discontinua con la Chiesa, da coloro che sono decisamente più lontani dalla fede, anche se magari nutrono fiducia nella Chiesa-istituzione.
Si sono adottati due indicatori – la destinazione dell’otto per mille allo Stato o ad altre confessioni religiose e la scelta di non avvalersi dell’ora di religione a scuola – che permettono di rilevare la consistenza di quella fascia della popolazione che è indifferente o addirittura ostile alla Chiesa. Per questi due indicatori, che sono indicatori di stock, i valori medi riportati nella tabella 14 indicano che la quota di popolazione decisamente contraria alla Chiesa è piuttosto ridotta.
Gli altri due indicatori – i matrimoni civili e i figli nati fuori dal matrimonio – sono variabili di flusso e non permettono di stimare la quota dei cattolici praticanti, ma hanno il vantaggio di consentire una rilevazione puntuale e aggiornata di decisioni che sono salienti per le biografie individuali e contemporaneamente costituiscono punti rilevanti del magistero della Chiesa in tema di famiglia. Dati, questi, che rilevano quanti sono coloro che seguono o meno le prescrizioni della dottrina cattolica.
Discussa questa relazione semantica degli indicatori, si è proceduto a controllare la relazione sintattica, cioè la vicinanza statistica tra ciascun indicatore e tutti gli altri, giungendo a evidenziare una forte convergenza dei risultati: come illustrato nei paragrafi precedenti, le regioni che risultano più secolarizzate in base a un indicatore tendono a replicare questa collocazione anche sugli altri indicatori. Ma, al di là di queste corrispondenze occasionali, lo strumento del coefficiente di correlazione permette di dare un preciso significato statistico all’affinità dei risultati ottenuti con variabili diverse. Si è pertanto calcolato il coefficiente di correlazione r fra tutte le coppie di indicatori ottenendo sei coefficienti, tutti superiori a 0,90. Ciò significa che la relazione semantica – l’affinità di significato tra la proprietà da rilevare e gli indicatori usati per rilevarla – è confermata dalla relazione statistica. E questo significa che, per quanto tali indicatori rilevino differenti perimetri dell’identità cattolica, il loro andamento sul territorio è largamente sovrapponibile.
Si è pertanto proceduto alla costruzione di un indice additivo che tenesse conto in pari misura del contributo di ciascuno dei quattro indicatori. Il fatto che due indicatori rilevino i comportamenti relativi all’area della famiglia (matrimonio e figli) è stata una scelta deliberata: essa rispecchia la centralità della famiglia e della procreazione nel magistero e nell’azione pastorale della Chiesa cattolica in questi anni, ponendosi tra i punti più delicati del fronte di conflitto che contrappone la Chiesa ai settori più secolarizzati, e laicisti, presenti nella società e nella politica italiana.
L’indice sintetico è stato costruito tenendo conto in egual misura dei quattro indicatori e in modo da utilizzare una scala numerica comprensibile come i numeri-indice. Il valore medio nazionale di ogni indicatore (riportato in tab. 13) è stato posto uguale a 100. I valori assunti su ciascuno dei quattro indicatori da ogni singola regione sono stati trasformati mediante una proporzione. A titolo di esempio: i matrimoni civili in Italia nel 2011 erano il 39,2% del totale dei matrimoni. In Calabria erano il 15,2%, dunque assai meno della metà. Ne consegue che la Calabria ottiene, rispetto a quella variabile, il punteggio di 39, ottenuto risolvendo la proporzione 15,2:x=39,2:100.
Per lo stesso motivo il punteggio relativo al Friuli Venezia Giulia sulla stessa variabile è pari a 150, secondo la proporzione 58,9:x=39,2:100.
La procedura della trasformazione dei valori originali in numeri-indice è stata applicata a tutti e quattro gli indicatori. Dopodiché si è calcolato il valore medio di ciascuna regione sui quattro indicatori, ottenendo un punteggio in base 100 per ogni regione. Per riprendere l’esempio precedente: sull’indice finale il Friuli Venezia Giulia presenta il punteggio di 131; la Calabria presenta un punteggio pari a 33. La prima regione si colloca al settimo posto della graduatoria finale, la seconda all’ultimo, come si può osservare nella tabella 14.
Ai fini di una più immediata ed efficace lettura della geografia delle regioni italiane rispetto all’indice di secolarizzazione, si presenta in figura 7 la mappa dell’Italia con differenti gradienti di colore a indicare il diverso rango occupato da ogni singola regione su questo indice di sintesi.Al di là della complessità e dell’articolazione della geografia della religiosità cattolica in Italia, il primo elemento che emerge in maniera nitida è la divisione del Paese in due grandi aree, con una geografia più differenziata e frastagliata nella metà centrosettentrionale e una più uniforme nel Sud, dovuta alla concentrazione in quest’area di tutte le regioni con i valori più bassi sull’indice. In un’Italia pressoché divisa, dal punto di vista della secolarizzazione, in tre macroaree, una sorta di area di transizione è costituita dalla fascia peninsulare a sud di Emilia-Romagna e Toscana, cui può essere assimilata anche la Sardegna. In questa fascia centrale i punteggi sono pari o di poco inferiori alla media nazionale.
A un’osservazione più precisa della figura 7 e della graduatoria nella tabella 14 – e concedendoci uno sguardo al dettaglio provinciale – si notano poi ulteriori differenze e articolazioni all’interno delle macroaree sopra delineate. All’interno del Centro-Nord il nucleo secolarizzato principale corre dalla riva destra del Po fino a Siena e Grosseto. Si tratta essenzialmente delle aree che, nel loro insieme, la letteratura ha tradizionalmente definito, in termini geopolitici, zona rossa. Attraverso la Liguria, quest’area tradizionalmente meno legata ai valori cattolici si collega al Nord-Ovest secolarizzato, centrato sull’asse Torino-Milano.
Dalla Brianza al confine sloveno si estende poi l’area lombardo-veneta, che aveva costituito per i primi centoventi anni dell’Italia unita la sede della subcultura ‘bianca’, in cui i valori cattolici non solo erano diffusi, ma animavano anche una fitta rete organizzativa basata sulle parrocchie (Trigilia 1986). Ai margini di quest’area si trovano però quattro province più secolarizzate: Trieste, Venezia, Gorizia e Bolzano, dove gli effetti secolarizzanti del mare e dei rapporti transfrontalieri, cui si accennava in precedenza, risultano ben illustrati.
A sud della linea Roma-Ancona si estende un’area piuttosto uniforme, che raggruppa tutte le regioni che presentano i valori più bassi sull’indice. Questo significa, in sostanza, che la dimensione Nord-Sud costituisce l’asse principale intorno a cui si rilevano le maggiori differenze. Basti notare che gli ultimi sette posti sono tutti occupati da regioni del Centro-Sud (di fatto corrispondenti all’area che va dall’Abruzzo alla Sicilia) e che gli ultimi cinque posti sono occupati dalle regioni più meridionali, con la minima secolarizzazione rilevata, nell’ordine, in Puglia, Basilicata e Calabria, collocata all’ultimo posto (tab. 14).
Per comprendere meglio le distanze inter-regionali, si può osservare che, rispetto alla media nazionale (pari a 100), l’Emilia-Romagna si colloca al primo posto con un punteggio di 175. Al secondo e terzo posto si trovano poi la Toscana (157) e la Valle d’Aosta (153), che precede di poco la Liguria (151). Di converso, le regioni collocate nella parte più bassa della graduatoria assumono valori compresi fra 30 e 40. Ciò significa che i punteggi sull’indice di secolarizzazione assunti dalle regioni maggiormente secolarizzate sono almeno quattro o cinque volte più alti di quelli delle realtà meno secolarizzate, ad attestare una distanza davvero ragguardevole anche rispetto a questa dimensione, che di solito viene invece evocata come la dimensione che accomuna più di altre il Paese.
Un’ultima osservazione: l’indice analizzato risulta anche strettamente correlato alla frequenza alla messa, discusso in apertura del presente saggio: a livello regionale il coefficiente di correlazione è pari a −0,78. Il rilievo è importante, in quanto attesta che esiste una notevole congruenza tra i dati rilevati attraverso la statistica degli atti amministrativi e quelli demoscopici, nonostante le indubbie debolezze metodologiche di questi ultimi.
Prima di svolgere ulteriori riflessioni, suggerite dall’osservazione della geografia della secolarizzazione sopra esposta, si può provare a dare una risposta alla domanda: l’Italia è ancora un Paese cattolico? Gli indicatori presentati nei paragrafi precedenti rispondono sì: il 60% delle coppie si sposa in chiesa, i bambini nascono per l’80% dopo il matrimonio, il 90% sceglie la Chiesa come destinazione dell’otto per mille, il 91% degli studenti frequenta le lezioni di religione a scuola. Coloro che non mettono piede in chiesa sono meno del 20% degli italiani. E comunque, anche tra questi, una buona metà ha più fiducia nella Chiesa che nello Stato, quantomeno come istituzione educativa e di carità.
Ma gli indicatori consentono anche di argomentare un no allo stesso interrogativo: solo il 30% partecipa regolarmente alla celebrazione eucaristica domenicale. Di questi, buona parte sono bambini, ragazzi e anziani, più donne che uomini: tutte categorie sociologicamente ed economicamente meno forti. Dopo i 14 anni la partecipazione crolla e risale lentamente solo passati i 50 anni di età. È il cattolicesimo di minoranza, nella formula di Garelli spesso richiamata in queste pagine. Ma, fuori da questa minoranza di praticanti regolari, come considerare un buon cattolico chi si ricorda di andare in chiesa solo a Natale e Pasqua, attratto dalla solennità dei riti e dalla più generale atmosfera di partecipazione? Oppure chi diserta sistematicamente la chiesa prima e dopo aver celebrato le nozze davanti al prete? L’Italia è solo in apparenza un Paese cattolico.
Si potrebbe affermare che entrambe le risposte sono vere, con solide motivazioni a sostegno dell’una e dell’altra. Ma in ogni caso la risposta sarebbe superficiale, perché il quadro offerto sopra soffre di molti limiti. L’etica scientifica impone di non dimenticare i vincoli che ci siamo dati. In primo luogo si è rinunciato a indagare la presenza istituzionale della Chiesa (parrocchie, sacerdoti, opere pie, scuole, conventi ecc.), e alle molteplici vie in cui tale presenza testimonia, promuove, attualizza i valori cattolici.
Si è deciso di limitare il campo d’indagine al solo versante del comportamento dei fedeli, e anche qui accettando una triplice semplificazione: a) far riferimento ai singoli individui, credenti o non credenti, in una prospettiva atomizzata, senza considerare le forme più o meno organizzate che animano la comunità dei fedeli; b) rilevare comportamenti, decisioni e scelte per i quali esiste una contabilità; c) dato lo scopo descrittivo dell’indagine, si sono rilevate quelle scelte e decisioni che non solo lasciano una traccia in documenti ufficiali, ma che sono altresì disponibili a un adeguato livello di disaggregazione territoriale – le singole regioni italiane. In altri termini, si è fatto riferimento, in tre casi su quattro, alle opportunità offerte dal regime concordatario, ovvero dalla presenza di un vincolo di continuità istituzionale fra Stato e Chiesa.
Del tutto assente è poi, in queste pagine, un riferimento alla consistenza e alla diffusione sul territorio del più ristretto nucleo di fedeli che vivono la fede cattolica partecipando con sollecitudine e continuità alle attività della parrocchia o della Caritas, oppure animando l’Azione cattolica e i diversi movimenti nati nel solco del rinnovamento conciliare. Peraltro i capitoli presenti in questo volume consentono di integrare proficuamente il quadro per offrire risposte all’interrogativo con cui abbiamo aperto questo paragrafo. Non è dunque il caso di tentare risposte nette. Si può tuttavia affermare che dagli anni Sessanta in poi l’Italia è stata percorsa da un significativo processo di secolarizzazione: i dati sui matrimoni civili sono preziosi proprio perché permettono di seguire attentamente questo processo sia nel tempo, sia sul territorio; a questa contrazione della pratica religiosa a livello di massa si affianca però un processo inverso, che ha riportato la religione al centro dello spazio pubblico. La minoranza dei cattolici attivi nelle parrocchie e nei movimenti è probabilmente l’unica minoranza attiva che sia sopravvissuta nel Paese, capace di coniugare insieme solidi riferimenti ideali, dedizione e capacità di organizzarsi in autonomia.
La crisi della politica di massa priva la minoranza densa dei movimenti cattolici della presenza di avversari altrettanto attrezzati sul piano culturale, politico e organizzativo. Da qui l’apparente paradosso per cui in tempi secolarizzati la Chiesa cattolica mantiene la propria centralità nel contesto italiano (Cartocci 1994), diventando un imprescindibile attore politico in tempi di debolezza, quando non di delegittimazione, della politica.
D’altra parte, occorre chiedersi cosa ha preso il posto dell’orizzonte valoriale cattolico che si è fortemente corroso in Italia negli ultimi quarant’anni. Quali valori si sono affermati nella società italiana a sostituire la fede della tradizione? Quali altri orizzonti di senso si sono imposti in questi decenni in cui la recessione della religione di chiesa è stata così sensibile? Difficile sostenere che si sia consolidata un’adulta moralità laica, impregnata di valori civici e repubblicani, e che questa abbia favorito un aumento della tolleranza per l’altro, della responsabilità verso le istituzioni. Risulta del tutto evidente che il processo di secolarizzazione, inteso come recessione della religione di chiesa, non ha minimamente inciso sulla rifondazione della moralità pubblica per arginare il dilagare della corruzione.
È invece certo che non si sono ridotti in modo apprezzabile gli aspetti deteriori della cultura politica degli italiani: il particolarismo, la diffidenza verso le istituzioni, l’indisponibilità all’impegno pubblico, la scarsa sensibilità alla corruzione e al conflitto d’interessi. Parimenti, non si sono fatti passi in avanti apprezzabili negli stili del discorso pubblico: l’inclinazione a impegnarsi in retoriche astratte e dottrinarie ha sempre la meglio nei confronti di chi persegue un dibattito pacato e pragmatico per ricercare soluzioni praticabili a problemi circoscritti. Ha prevalso la tendenza a scaricare sugli altri (avversari ideologici, congiunture internazionali, ‘casta’ dei politici) le responsabilità dei gravi problemi che da decenni ci affliggono.
Non è dunque il caso di accedere a un facile schematismo progressista, che consideri la riduzione del peso della religione come un effetto automatico e positivo del cambiamento socioculturale: una socialità laica, matura – e soprattutto responsabile rispetto al quadro politico istituzionale di una grande democrazia europea – non pare davvero che abbia fatto molta strada in questi decenni. Non si vuole qui vedere nella secolarizzazione la fonte diretta della carenza di spirito civico, come vorrebbe la polemica di parte cattolica, ma solo constatare che la forte secolarizzazione, nel senso attribuito al termine in queste pagine, non ha modificato, a tutt’oggi, le curvature anti-istituzionali, particolariste e dottrinarie della nostra cultura politica. Potremmo invece interrogarci – ma non è questa la sede – su quanto e come queste curvature siano figlie non tanto del cattolicesimo, quanto delle millenarie interconnessioni per cui, inevitabilmente, le ragioni religiose si sono mescolate e confuse con ragioni istituzionali e interessi politici ed economici della sede della Chiesa universale.
Dagli studi sulla dinamica che ha caratterizzato nel tempo il processo di secolarizzazione e dall’osservazione dei suoi mancati frutti, il dato chiaro e di interesse che emerge è quello di una frattura territoriale esistente anche sul piano della secolarizzazione. I valori medi degli indicatori sono solo astrazioni statistiche. L’Italia, anche su questo piano, risulta un territorio su cui le dinamiche sono fortemente segnate da differenze territoriali. L’aspetto nuovo dei rilievi empirici qui presentati è che nel corso degli anni queste differenze si sono ridisegnate per quanto riguarda gli orientamenti cattolici. All’antica frattura tra ‘zona bianca’ e ‘zona rossa’, separate dal Po e da oltre un secolo di processi differenziati di mobilitazione sociale e politica, si è sostituita una nuova frattura, che corre più o meno da Roma ad Ascoli: a nord di Lazio e Abruzzo il processo di secolarizzazione ha proceduto in tutte le aree, anche in quelle dell’antica ‘zona bianca’. Sono rimaste tracce di queste secolari divisioni e di queste radicate particolarità locali, ma è altrettanto vero che il Mezzogiorno costituisce un’area molto omogenea, costituita da tutte le regioni che presentano i valori più bassi sull’indice di secolarizzazione.
Nel tracciare la mappa della diffusione dei valori cattolici e della secolarizzazione ci si è alla fine imbattuti nella questione meridionale. Inevitabili le parentele statistiche, sintetizzate nella tabella 15: l’indice di secolarizzazione è strettamente legato agli indicatori di sviluppo economico, di rendimento delle istituzioni e di dotazione del capitale sociale. Le aree che i nostri indicatori rilevano come quelle più cattoliche sono le stesse in cui si cumulano ridotto sviluppo, inefficienza delle istituzioni locali e della sanità regionale. Anche la dotazione di capitale sociale risulta strettamente legata al livello di secolarizzazione. Rilievo da non sottovalutare, dal momento che la religione è considerata, in generale, uno dei fattori che più sono in grado di costruire capitale sociale (Putnam 2000). L’anomalia italiana consiste nel fatto che la relazione assume un segno opposto: più religione cattolica si accompagna a meno capitale sociale.
Questo quadro suggerisce una risposta immediata: i valori cattolici sono un aspetto del sottosviluppo; dunque più sviluppo significa più secolarizzazione. Tale vettore causale trova in Italia un’applicazione evidente (Ignazi, Wellhofer 2013). Esiste poi la sua variante anticlericale, che inverte causa ed effetto: i valori cattolici sono la causa del sottosviluppo, una sorta di cappa di conformismo che impedisce il dispiegarsi delle forze vive del mercato.
Tuttavia, correlazione non significa causazione. Trovare una parentela statistica non significa dimostrare una relazione di causa ed effetto: quanto meno occorrono rilevazioni differenziate nel tempo per poter controllare empiricamente i modelli causali. In questa sede è opportuno limitarsi a discutere la correlazione, che già disegna un quadro problematico una volta che attesta quanto elevati livelli di pratica religiosa e di fiducia nella Chiesa costituiscano la veste culturale di quelle realtà italiane che sono nelle condizioni più critiche: ridotto sviluppo, inefficienza dei servizi, scarso capitale sociale.
Il rapporto tra Chiesa e sottosviluppo è dunque ineludibile, viste le parentele statistiche così perentorie, ma probabilmente non si pone in termini causali, che vedono la Chiesa vittima (del possibile, auspicabile, sviluppo) o colpevole (dello sviluppo finora mancato). La relazione statistica apre semmai una questione di responsabilità. Le considerazioni che si sono svolte nelle pagine precedenti circa la perdurante centralità della Chiesa – e dei cattolici più impegnati – nell’Italia di oggi sono a maggior ragione applicabili alle sole regioni meridionali, storicamente prive di risorse di azione collettiva e di imprenditori politici che abbiano a cuore il bene comune.
Oggi il quadro della geografia della secolarizzazione mostra una contrapposizione tra regioni assai diversa rispetto agli anni Settanta e Ottanta (Cartocci 1990). Il processo di secolarizzazione ha reso molto più vicine Veneto ed Emilia-Romagna, Friuli e Toscana, ma al contempo ha fatto affiorare un’altra linea di frattura. Se nei primi decenni del dopoguerra, infatti, la geografia della secolarizzazione era ortogonale alle variabili relative allo sviluppo economico, dopo quattro decenni ha finito per sovrapporsi con queste e con la geografia del capitale sociale, mettendo in evidenza che le due Italie sono sempre più diverse su piani sempre più numerosi.
Rispetto a una frattura Nord-Sud che tende ad allargarsi e che coinvolge, sul suo lato problematico, un terzo degli italiani, la Chiesa riveste – alla luce di dati raccolti e presentati nei paragrafi precedenti – un ruolo strategico. Certo la Chiesa-istituzione è pienamente consapevole della diversa sensibilità religiosa tra queste due Italie. Lo attestano i documenti che in questi ultimi anni i vescovi italiani hanno elaborato in relazione all’azione pastorale nel Mezzogiorno; nel 1989 e poi nel 2010 l’analisi condotta è stata accurata nell’identificare i punti deboli del contesto meridionale: inadeguatezza e corruzione della classe politica, clientelismo che mortifica il merito e dissipa risorse finanziarie senza creare beni pubblici, assenza di senso civico dovuta anche a una grave emergenza educativa (Conferenza episcopale italiana 1989 e 2010). In altri termini: la Chiesa italiana è pienamente consapevole che la questione meridionale è una sorta di circolo vizioso che ha trovato un relativo equilibrio, per cui è difficile inserire un cuneo che attivi processi virtuosi fatti di rispetto della legalità, crescita del senso civico e valorizzazione del capitale umano.
I vescovi sono del resto ben consapevoli dei limiti della Chiesa meridionale, identificati non soltanto nella insufficiente vitalità delle parrocchie ma bensì anche nelle difficoltà di vigilare sulla ‘pietà popolare’, che mantiene salde le sue tradizioni locali e localiste, cristallizzando gerarchie sociali e politiche. I dati riportati in precedenza evidenziano che la Chiesa nel Mezzogiorno dispone di risorse di fiducia e di prestigio: un capitale che si fa forte anche di una componente di conformismo tradizionalista, ma che è comunque in grado di coagulare gli sforzi di quei fedeli che vivono la loro fede come un impegno per promuovere la solidarietà, l’educazione e il rispetto della legalità.
Come hanno sottolineato, tra gli altri, studiosi con orientamenti culturali differenti come De Rosa (1998) e Galasso (2009), sono numerose le specificità della religiosità meridionale: dall’eredità greco-ortodossa a quella delle Chiese ricettizie, dall’insufficiente disciplinamento tridentino della pietà popolare agli eccessi di giurisdizionalismo e patrimonialismo, dall’inadeguata formazione di un clero pletorico alla frammentazione localista delle diocesi.
In una prima approssimazione, si può concludere che l’insieme di questi tratti si è coagulato in una struttura di precondizioni che hanno contribuito a inibire l’impianto di reti di solidarietà a sviluppo orizzontale, capaci di perseguire interessi collettivi e il bene pubblico. A questi ‘caratteri originali’, il dipanarsi della modernità – Stato unitario, democrazia, sviluppo economico – non è stato in grado di contrapporsi in maniera efficace. Non per un’impossibile estraneità del Mezzogiorno alla storia, ma per un percorso differente entro la modernità stessa, secondo curvature che l’economia di questo lavoro impedisce di descrivere. È questa la cornice analitica entro cui è possibile dare un senso alle tragedie di Don Peppino Diana e di Don Pino Puglisi, che nel 1993 e nel 1994 sono stati uccisi proprio perché cercavano di costruire, alla luce del Vangelo, reti orizzontali di solidarietà e di dignità, in zone che, in base alle nostre mappe, risultano le più religiose del Paese.
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