SERMINI, Gentile (Pseudo)
– Nacque probabilmente a Siena intorno alla fine del XIV secolo.
Di lui non possediamo nessuna notizia biografica certa: «non si sa con precisione quando sia nato, né quando sia morto; e poco o nulla si sa della sua vita; e questo poco si cerca d’indovinare nelle sue novelle quando parla di Siena e dei fatti accaduti nei dintorni di Siena» (Alberto Colini in Sermini, 1911, vol. I, p. 3). Il suo nome è legato ad una raccolta composta da quaranta novelle, trentasei poesie, due lettere (una dedicatoria e l’altra in cui si racconta dell’apparizione di Venere in sogno) e una prosa sulla descrizione del «giuoco delle pugna», tramandata appunto con il titolo di Novelle da soli due codici quattrocenteschi (Modena, Biblioteca Estense, α.H.8.15 e Venezia, Biblioteca Marciana, It.VIII.16). Il legame instaurato tra questa raccolta e il nome fu originariamente avanzato da Apostolo Zeno nelle Annotazioni alla Biblioteca dell’eloquenza italiana di Monsignor Giusto Fontanini nelle quali, a proposito della commedia del senese Francesco d’Ambra, stampata a Firenze per i tipi di Giunti nel 1564, scrisse di possedere un codice, da identificare senz’altro con il Marciano, di un certo Gentile Sermini imparentato con un Claudio Sarmini a cui è dedicata la commedia. Zeno tuttavia non spiegò l’associazione tra i due Sarmini o Sermini, associazione venuta meno con la verifica della dedica, in realtà indirizzata a Claudio Saracini, che fu cavaliere gerosolimitano e rettore dell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena e che morì nel 1572 (Archivio di Stato di Siena, Fondo manoscritti, A.12, c. 153v).
Pur esistendo la famiglia senese dei Sermini, sino ad ora non è stato rintracciato nessun documento che attesti l’esistenza di un Gentile nella famiglia Sermini (e del Germonia del Monte del Popolo), che fu «oriunda di Rencine Villa uicina a Siena» (Archivio di Stato di Siena, Fondo manoscritti, A.12, c. 168r). Nel registro battesimale conservato in Archivio di Stato a Siena, inoltre, nell’arco cronologico entro il quale il nostro deve essere nato non è mai attestato il nome Gentile (ibid., Biccherna, 1132).
Che si tratti di un nome ‘fantasma’ pare confermato anche da un altro indizio. In un poemetto di Achille Cerretani pubblicato a Siena agli inizi del XVI secolo, intitolato La vita di Gabriello Sermini da Siena, in cui si narrano la vita e le peripezie del protagonista, non è presente alcun riferimento ad un antenato di nome Gentile o scrittore di novelle.
Apostolo Zeno entrò in possesso del codice marciano in vecchiaia; difatti nella prima versione delle Annotazioni non commentò la commedia con le notizie sul manoscritto, e dovette basare la congettura della paternità su elementi incerti, come ha dimostrato, alla fine degli anni Novanta, Christopher Nissen grazie al ritrovamento di un documento, dal quale si evince che l’erudito cesareo chiese un’expertise sul codice che rilevò la possibile «impostura» sia del titolo sia del nome dell’autore (Venezia, Biblioteca Marciana, It.X.349, c. 55, in Nissen, 1997 p. 158), titolo e autore attualmente assenti dal codice marciano che si presenta adespota e anepigrafo, così come anche l’altro testimone conservato alla Biblioteca Estense e indicato nell’elenco di Ludovico Antonio Muratori come codice anonimo di novelle antiche.
In effetti, la raccolta dovette circolare anonima, come pare dimostrato anche da un passo della Novella del besso (o del picchio) senese, in cui Luigi Pulci cita esplicitamente Masuccio Salernitano e, a poca distanza, allude invece a «un certo Sanese», autore di «alcune novelle nelle quali sempre introduce nostri fiorentini essere stati ingannati da’ sanesi in diversi modi» (Marcelli, 2011, pp. 87 s.), da identificarsi senza dubbio con il cosiddetto Gentile Sermini. L’anonimia pare confermata anche dal fatto che nella produzione erudita senese non compaiono mai informazioni sulla figura del novelliere, come dichiarò anche Domenico Maria Pellegrini, bibliotecario dell’allora Biblioteca domenicana delle Zattere (poi confluita nella Biblioteca Marciana di Venezia), quando agli inizi dell’Ottocento, dovendo curare una scelta di novelle, tra cui quelle di Sermini, tentò inutilmente di indagare sulla figura del fantomatico scrittore, ma vano risultò ogni tentativo di rintracciare qualche notizia, sia attraverso gli studiosi senesi contemporanei sia attraverso gli scritti di quelli antichi.
Di parere contrario Petra Pertici che, recentemente, ha sostenuto di poter identificare l’autore delle novelle con Antonio di Checco Rosso Petrucci (1400-71), politico e condottiero senese che trascorse l’ultima parte della sua vita in esilio a causa della congiura del 1456, per la quale fu dichiarato ribelle in perpetuo e condannato a morte in contumacia. Secondo Pertici, la raccolta non circolò anonima, come invece parrebbe dimostrare l’allusione pulciana di poco successiva alla composizione e prima circolazione dell’opera, ma piuttosto fu privata della sua paternità a causa di una sorta di damnatio memoriae successiva ai fatti del 1456.
A dire il vero, l’ipotesi non è convalidata da prove concrete ed è invece sostenuta da una serie di prove indiziarie, insufficienti a dimostrare la paternità petrucciana delle Novelle. Se il contenuto della raccolta dimostra chiaramente che il suo autore fece parte del vivace ambiente umanistico senese e che ebbe confidenza con i meccanismi e i luoghi del potere, le analogie tra i nomi citati nel testo con quelli dell’entourage del condottiero si dimostrano insufficienti al fine di riconoscere in Petrucci il misterioso autore delle Novelle: non è possibile, infatti, ricondurre con certezza i nomi di Andreoccio, Beltramo, Urbano, Francio, Memmo o Smeraldo presenti nel testo serminiano a Andreoccio Petrucci (cugino di Antonio), Beltramo Mignanelli (interprete orientalista nei concili di Costanza e Firenze), Francio Berti (facoltoso banchiere da cui discendeva la moglie di Achille Petrucci), Memmo Agazzari (dotto canonico in relazione coi Petrucci) o Smeraldo Strozzi (membro dell’importante casato fiorentino). Allo stesso modo, non basta sapere che negli stessi anni di composizione delle Novelle Petrucci conoscesse e avesse letto il Filocolo di Giovanni Boccaccio (Archivio di Stato di Firenze, Carte strozziane, III serie, n. 132, c. 74r, in Pertici, 2011, p. 692) per poter sostenere che le reminiscenze onomastiche di alcuni personaggi del Filocolo siano riconducibili a Petrucci (ibid., pp. 695 s.). Difatti, larga parte della novellistica quattrocentesca deriva la sua ispirazione tanto dal Decameron quanto dalla produzione giovanile boccacciana. Pertici sostiene inoltre che il codice estense possa essere stato vergato dalla mano del marchigiano Masolino (o Massolino) da Montolmo, che fu cancelliere di Antonio Petrucci a partire dai primi anni Trenta, ovvero a partire dal momento in cui, secondo la studiosa, il condottiero avrebbe abbandonato la sua propensione letteraria per dedicarsi esclusivamente alla carriera politica (ibid., p. 685). Il codice, in effetti, sia per aspetti idiomatici sia per aspetti paleografici non è toscano, ma di certo non presenta una patina marchigiana, quale fu quella di Masolino, bensì una spiccata patina padana, di area emiliana o ferrarese (v. Marchi, 2008, pp. 56-72).
A favore della voluta anonimia della raccolta, probabilmente nata per una ristretta cerchia di amici e sodali e diffusa in pochissimi esemplari, concorrono altri elementi; nel corso dell’opera, difatti, più volte l’autore sembra esporsi, rimanendo però allo stesso tempo nell’ombra. Per questo, è possibile tracciarne un profilo, senza però individuarne il ritratto preciso: ogni cenno a fatti concreti e personaggi reali è infatti sapientemente camuffato o celato. Ad esempio, la presenza del riferimento a un «vir nobilis», cui è indirizzata la lettera nella quale si narra dell’apparizione di Venere in sogno all’autore, indicato esclusivamente con l’iniziale «A.», fa intuire l’ambiente cui era destinata la circolazione delle novelle, ovvero un ambiente nobile, che probabilmente corrisponde anche a quello cui appartenne l’autore stesso della lettera e dell’intera raccolta. Ambiente nobile confermato anche da altri passi, come dall’incipit della XII novella, in cui l’autore scrive che, per sfuggire all’epidemia di peste, fu costretto a ritirarsi nel contado della Montagnola (nei pressi di Monteriggioni, vicino Siena), dove ebbe a che fare solo con contadini zotici e grossolani, privi di qualsiasi decoro civile e di educazione, e dove trascorse il tempo dedicandosi a quei passatempi che altrove attribuisce ai nobili protagonisti delle novelle, ovvero «per quelle oscure selve a cacciare, a ucellare el più del tempo» (Pseudo Gentile Sermini, 2012, p. 283). E infine, nella XXV novella, l’autore assiste sbigottito all’esilarante beffa ai danni dell’ingenuo e patetico villano di nome Mattano, colpevole di aver creduto di potersi integrare nella classe politica dominante della città, messa in opera da un gruppo di dieci giovani dabbene, entro la cui cerchia pare di poter ascrivere anche l’autore del racconto/resoconto. Inoltre, il fatto che egli dimostri di conoscere con precisione gli spostamenti della curia papale e che dica che almeno una delle novelle sia stata riferita dal cardinale de’ Brancacci (probabilmente Ludovico Bonito; v. Marchi, 2009, pp. 27 s.) alla corte di Gregorio XII fanno poi sospettare che egli fosse stato in qualche modo a contatto con l’ambiente curiale e che la raccolta possa essere nata in un contesto simile al «bugiale» cui allude Poggio Bracciolini nelle Facezie.
Il novelliere viene quindi a configurarsi come un uomo nobile, colto e istruito (nella novella XIII dice di aver frequentato lo Studio), forse un uomo di Chiesa o comunque a contatto con la curia papale. Di certo, sia i persistenti senesismi fonetici, morfologici e lessicali comuni ai due codici e diffusi in tutto il testo, sia la centralità di Siena – che si delinea quale protagonista assoluta della raccolta e perno centrale attorno al quale si sviluppano le vicende narrate –, sia la dimestichezza con alcune peculiarità locali, certificano senza ombra di dubbio l’origine senese del novelliere.
La raccolta è databile, in base ad alcuni elementi interni, tra il 1409 e il 1442-46. Sebbene nel testo sia espressa esplicitamente un’unica data, ovvero il 1424 – l’anno in cui l’autore, nel tentativo di sfuggire alla pestilenza, si rifugiò in campagna –, essa fu senza dubbio composta dopo il concilio di Pisa e l’elezione di Alessandro V, come si evince chiaramente dalla XVI novella in cui la «questione» proposta agli ascoltatori rimane insoluta perché «al papa Gregorio fu levata l’ubbidientia e fu creato Papa Alixandro nella città di Pisa» (Pseudo Gentile Sermini, 2012, pp. 341 s.); tuttavia vide la luce prima della scomparsa di Giovanni Gherardi (1442-46), il ser Giovanni cui pare riferirsi l’autore nella XIII novella; il testo in prosa, in cui viene tratteggiata la figura di un uomo con inclinazioni sodomitiche e con la passione per gli studi danteschi, è seguita da un capitolo quadernario ironico e divertito, in cui l’autore si rivolge direttamente a ser Giovanni, che difficilmente avrebbe potuto essere stato composto con quei toni e in quel modo – ossia come una sorta di invettiva indirizzata all’amico pratese – se Gherardi non fosse stato ancora in vita.
La raccolta dello Pseudo Sermini stabilisce sin dalla Lettera proemiale un rapporto di contrapposizione ma anche di continuità con il modello per eccellenza rappresentato dal Decameron. La prima grande discrepanza risiede nel pretesto della raccolta: non la fuga dalla peste ma la richiesta di un ammiratore sconosciuto al quale, nel contesto rilassante dei bagni termali di Petriolo, è capitato di ascoltare alcune prose e alcune poesie dello scrittore, delle quali vorrebbe avere una copia. Le diverse parti dell’opera, a quanto sostiene quindi l’autore, dovettero circolare alla ‘spicciolata’ e, solo in un secondo momento, furono invece radunate, secondo quanto scrive, in modo disorganico e asistematico, al pari di un’insalata composta da varie erbette raccolte disordinatamente nel suo orticello. In effetti prose e poesie non sono tenute insieme da una vera e propria cornice, ma piuttosto da una struttura prosimetrica che sviluppa alcuni nuclei tematici forti che ricorrono nelle novelle – il panegirico di Siena e la critica dei peccati e dei comportamenti che possono danneggiarla, l’aspra critica nei confronti dei falsi uomini di religione e l’amore – e che sono compendiati e sublimati nelle poesie, stabilendo un rapporto che risulta rovesciato rispetto al modello dantesco della Vita nova. La raccolta è di grande interesse, sia per la ricostruzione del panorama letterario quattrocentesco, sia in quanto prezioso documento linguistico: molto interessante è la prosa sul «giuoco delle pugna» (Pseudo Gentile Sermini, 2012, pp. 194-201), una sorta di antenato del Palio senese, che si presenta come resoconto in presa diretta dei membri delle diverse contrade cittadine che, vestiti con i colori della contrada, si ritrovano nella piazza del Campo per combattere a mani nude e conquistare la vittoria per la propria parte, oppure il dialogo tra i contadini della Montagnola registrato dal novelliere quando si trova costretto all’esilio in campagna.
Ad oggi le Novelle sono l’unico documento che attesti l’esistenza dello scrittore ‘fantasma’, probabilmente Anonimo, noto come Gentile Sermini: pertanto non è possibile stabilire la data della sua scomparsa, che dovette avvenire intorno alla metà del XV secolo.
Opere. Le novelle di G. S. da Siena, ora per la prima volta raccolte e pubblicate nella loro integrità, a cura di F. Vigo, Livorno 1874; Novelle, prefazione e bibliografia di A. Colini, I-III, Lanciano 1911; Novelle grasse e Sollazzevoli historie, Milano 1925; Le Novelle, a cura di G. Vettori, I-II, Roma 1968; Pseudo Gentile Sermini, Novelle, ed. critica e commentata a cura di M. Marchi, Pisa 2012.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Carte strozziane, s. III, n. 132; Modena, Biblioteca Estense, α.H.8.15; Archivio di Stato di Siena, Fondo manoscritti, A.12 e Biccherna, n. 1132; Venezia, Biblioteca Marciana, It.VIII.16 e It.X.349.
G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana, I, Venezia 1753, pp. 394 s.; S. Carrai, Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli 1985, pp. 62 s., 67 n.; C. Nissen, Apostolo Zeno’s Phantom Author. The Strange Case of G. S. da Siena, in Italica, LXXIV (1997), 2, pp. 151-163; M. Marchi, Edizione critica delle Novelle di G. S., tesi di dottorato, Università degli Studi di Siena, 2008; Ead., Il novelliere senese attribuito a G. S., in S. Carrai - S. Cracolici - M. Marchi, La letteratura a Siena nel Quattrocento, Pisa 2009, pp. 43-51; Ead., Le novelle dello Pseudo-Sermini: un novelliere senese? Il Marciano Italiano VIII. 16., in Studi di Grammatica Italiana, XXIX-XXX (2010-11), pp. 53-90; N. Marcelli, La Novella del picchio senese di Luigi Pulci. Studio ed edizione, in Filologia italiana, VIII (2011), pp. 77-101; P. Pertici, Novelle senesi in cerca d’autore. L’attribuzione ad Antonio Petrucci delle novelle conosciute sotto il nome di G. S., in Archivio Storico Italiano, CLXIX (2011), 4, pp. 679-706; M. Marchi, Emulare Boccaccio senza la cornice: il novelliere attribuito a G. S., in Giornale storico della letteratura italiana, CLXXXVIII (2011), pp. 44-59.