Gentile maestro
«È l’opera gentiliana più tipicamente una filosofia, o una pedagogia? il temperamento del suo autore è più di educatore e di apostolo, espansivo e ardente, o di ricercatore, loico racchiuso e tenace, delle verità speculative?». Così, nel 1929, si esprimeva Guido Calogero, all’epoca venticinquenne, in un articolo con il quale segnalava su «Civiltà moderna», rivista allora al suo primo anno di vita, il «nuovo corpus delle Opere complete» di Giovanni Gentile, «che l’editore Treves [aveva] cominciato [all]ora a dar fuori» (Gentile, maestro, «Civiltà moderna», 1929, 1-2, p. 229), chiedendo contestualmente a Ernesto Codignola, che dirigeva la rivista, di posticipare ad altro fascicolo un suo articolo, già in corso di stampa, di Problemi plotiniani (in realtà Codignola lo pubblicò poi nello stesso fascicolo).
Calogero aveva scritto di getto questo articolo all’indomani dal VII Congresso nazionale di filosofia, che si era svolto a Roma dal 26 al 29 maggio di quell’anno. Il congresso – gli atti ne sono documento prezioso – era stato il luogo di una feroce resa dei conti tra Gentile e Agostino Gemelli: quest’ultimo, spalleggiato dai fedeli collaboratori dell’Università cattolica di Milano, cercava in quella sede di massimizzare l’utile già conseguito con il Concordato, che lasciava presagire una revisione della politica scolastica del governo, per quanto Benito Mussolini, nel suo discorso alla Camera del 13 maggio, avesse tuonato contro ogni interpretazione ‘restrittiva’ dei Patti lateranensi, tale cioè da imporre vincoli alla libertà dello Stato in ogni campo della sua azione legislativa. Per quanto questo discorso avesse sortito effetti rassicuranti, è indubbio che la Conciliazione – contro la cui ipotesi, che aleggiava, Gentile si era espresso in forma perentoria nei mesi e nelle settimane antecedenti l’11 febbraio – fosse stata avvertita come un durissimo colpo proprio negli ambienti gentiliani, o lato sensu idealisti. «Civiltà moderna» aveva avuto la sua genesi proprio in quella chiave, ossia quando Codignola – che era stato fin dagli anni di guerra un convintissimo, e operativo, sostenitore della riforma della scuola – aveva dichiarato che ‘politica scolastica’ non intendeva più farne, intendendo piuttosto spostare il suo discorso su un terreno più strettamente culturale, o, appunto, di ‘civiltà’. Il «moderna» del titolo della neonata rivista – che sostituiva «Levana», nata nel 1924, che cessava le pubblicazioni – ne indicava proprio il primo obiettivo polemico, ossia il ‘medievalismo’, in primis ascrivibile a Gemelli, ma che Codignola temeva potesse stendere – nel nuovo clima concordatario – la sua ala sull’intero fascismo.
È stata documentata come molto probabile la presenza, tra i ghostwriters del succitato discorso di Mussolini, di Ernesto Buonaiuti (Pertici 2009, p. 189). Siamo in effetti, in questi mesi, a un momento di svolta nella vita pubblica italiana tra le due guerre. La Conciliazione costituisce una vera e propria riabilitazione della presenza pubblica della Chiesa cattolica, e ne fissa i termini giuridici. Il riconoscimento, da parte della Chiesa, nella premessa del Trattato, della composizione in forma definitiva e irrevocabile della questione romana, che pareva a Mussolini un gran fatto politico, lo era proprio nel senso di un pieno riconoscimento, da parte del governo, del ruolo pubblico (e quindi politico) della Chiesa cattolica. Mussolini, convinto della forza intrinseca del fascismo, riteneva che l’equiparazione giuridica che lo Stato veniva operando della Chiesa (e quindi, di fatto, l’abbandono dell’indirizzo giurisdizionalistico mantenuto fino ad allora dallo Stato nella sua politica ecclesiastica) costituisse un elemento del tutto accessorio nell’economia della sua operazione politica complessiva, volta ad acquisire il consenso del cattolicesimo italiano al regime fascista. Gentile – e con lui più in generale tutto l’ambiente dell’idealismo di prima generazione – avvertiva invece come ci si trovasse di fronte a una svolta. Il fascismo, che aveva fatto suo il programma scolastico degli idealisti, recependo contenuti e indirizzo di fondo della riforma progettata da Gentile – e che quindi, fin dal 1922, era stato ritenuto un interlocutore credibile da parte degli idealisti –, sconfessava ora quell’indirizzo politico e stringeva un patto con la Chiesa cattolica, dalla cui tutela, anche se attraverso tutta una serie di mediazioni, quegli ambienti si erano proposti di affrancare la coscienza nazionale attraverso, appunto, la riforma della scuola, che costituiva un elemento fondamentale – se non l’elemento fondamentale – della loro più complessiva politica culturale.
Sotto questo profilo occorre allora richiamare due dati. Il primo è il sostegno convinto, fattivo, accordato da Benedetto Croce alla riforma scolastica progettata da Gentile, fin dai mesi della sua attività ministeriale (Tognon 1990, pp. 318-417), e poi nei giorni più caldi della prima reazione dell’opinione pubblica ai decreti attuativi della riforma Gentile (Zappoli 2003), allorché Croce intervenne anche personalmente presso Mussolini affinché questi non cedesse alle pressioni di ambienti fortemente preoccupati dell’eccessiva ‘durezza’ della riforma stessa. Il secondo dato è la percezione diffusa tra gli idealisti, anche negli anni immediatamente precedenti il 1929, della possibilità del costituirsi di un ‘fronte comune’ della cultura, che potesse superare le ragioni del contrasto – giudicato di carattere contingente – tra Croce e Gentile. Questo orientamento, variamente documentato nei carteggi, accomunava allora personalità di rilievo quali Adolfo Omodeo, Luigi Russo, Codignola, sostanzialmente collegate a entrambi i ‘maestri’ dell’idealismo italiano; e costituì di fatto l’ambiente, o più in generale il punto di riferimento pressoché costante, nel quale si formò e percorse i primi passi, sia nella pubblicistica sia nel mondo accademico, la generazione degli allievi più giovani, fossero questi il già citato Calogero, Domenico Petrini, lo stesso Delio Cantimori (che, benché legato a Gentile, non esitò a inviare i suoi primi scritti a Croce), oltre che, per ricordare qui solo alcuni nomi, Luigi Scaravelli, Vittorio Santoli, Carlo Antoni, Felice Battaglia, Gian Napoleone Giordano Orsini e altri.
Nella consapevolezza di costituire un riferimento importante per un fronte così ampio, Gentile reagì ai Patti del Laterano facendo buon viso a cattivo gioco. In sede pubblica fece le lodi della Conciliazione, in pratica cercò di presidiare strategicamente le posizioni raggiunte negli anni precedenti in più luoghi chiave della cultura nazionale, dal ministero della Pubblica Istruzione (le cui vicende continuò a sorvegliare con assiduità) alla Enciclopedia Italiana, dall’Istituto nazionale fascista di cultura (attraverso il quale finanziava più periodici, che poi di fatto controllava anche sul piano redazionale) alla Scuola Normale di Pisa, che negli anni successivi anzi ampliò significativamente. Il Congresso nazionale di filosofia, già programmato da tempo, costituì il primo di quei luoghi (Zappoli 2011, pp. 112-15). Calogero ne era segretario. Accanto a lui Ugo Spirito, di otto anni più anziano, più ‘politico’ nel suo atteggiamento di fondo, convinto – nel suo modo di essere gentiliano – della necessità di tradurre l’attualismo sul piano della prassi, delle riforme politiche (la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica» era stata da lui fondata nel 1927), e quindi meno incline di altri a cercare possibili terreni di mediazione con Croce in nome di un (per lui) troppo generico ‘idealismo’.
Una volta Claudio Cesa, discutendo di Aldo Capitini e di quanto egli, che era stato allievo tardivo (vi era entrato intorno ai 24 anni) della Scuola Normale, avesse assimilato della «cultura idealistica», scrisse:
Non vorrei, beninteso, far passare Capitini per un ‘gentiliano’: già il suo rifiuto dei ‘logicismi’, che facevano invece la gioia di tanti discepoli del Gentile, e cui lo stesso filosofo attribuiva tanta importanza, indica i limiti, ben precisi, di questa relazione intellettuale. Ma non credo sia troppo sbagliato affermare che anch’egli è stato segnato dall’afflato ‘mistico’ di tante pagine gentiliane; e, aggiungerei, dalla concezione dell’etica come educazione. Lo stesso Capitini lo ha suggerito, e sono gli elementi, del resto, che avevano assicurato al Gentile una grande influenza su un’intera generazione: ricordo soltanto i nomi di Adolfo Omodeo e di Ernesto Codignola (Cesa 1989, p. 281).
Il riferimento a Capitini – lo si è accennato – rimanda all’ambiente della Scuola Normale, uno dei luoghi maggiormente segnati, anche nei decenni successivi, dalla presenza gentiliana. Chi volesse tentare una ricognizione dei documenti di quella presenza, nei carteggi come nella memorialistica, non faticherebbe a trovar traccia della presenza ‘umana’ di Gentile, che è quanto dire del ‘maestro’ appunto, dell’uomo di scuola, nel senso più alto del termine. Di tale umanità di Gentile fu peraltro lo stesso Capitini a parlare, rievocando i momenti nei quali a Gentile toccò licenziarlo da segretario della Scuola, perché Capitini aveva rifiutato l’iscrizione al Partito nazionale fascista. E ciò valga per definire il contesto. Per quanto riguarda invece più nel dettaglio i contenuti di quella presenza, si può ricordare che Capitini aveva consegnato presso la Scuola Normale il 1° giugno del 1929, e discusso il 17 dello stesso mese, una tesi di perfezionamento su La formazione dei Canti del Leopardi, un lavoro che individuava in Giacomo Leopardi motivi ‘religiosi’ sulla scorta – lo documenta Cesa – di spunti che a Capitini venivano proprio da Gentile, e in particolare dai Discorsi di religione, che Gentile aveva pubblicato in prima edizione nel 1920 e poi ristampato nel 1924. Vale la pena citare lo stesso Cesa:
La ‘religione’, negli scritti gentiliani, compare […] in due valenze fondamentali: una è quella categoriale, nella serie arte, religione, filosofia, ed è quella più estrinseca. L’altra valenza è quella che chiamerei etica: qui religione significa “ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e trascende”, è sinonimo di “abnegazione e sacrificio” – il che porta alla affermazione della “religiosità di tutti i valori” (p. 280).
Il tema qui sollevato da Cesa non è stato, mi pare, molto approfondito negli studi su Gentile. L’elemento di interesse dell’approccio di Cesa è dato dalla sovrapposizione, che è voluta, di elementi tratti da un’opera ‘teoretica’ di Gentile (la Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, frutto, com’è noto, di un corso di lezioni tenuto a Pisa) con altri invece desunti da un’opera di carattere diverso (appunto i Discorsi di religione) nati da tre discorsi gentiliani, di cui il primo pubblicato su «Politica» nel marzo del 1920, gli altri due pronunciati a Roma di fronte a un pubblico non accademico. Mentre per quanto riguarda la Teoria generale dello spirito Cesa metteva in evidenza come «valore», in Gentile, significasse ciò che «trionfa dei limiti della nostra vita naturale oltre la morte, nell’immortalità» (19446, p. 139), o anche «risol[uzione] nell’unità dell’Io trascendentale» (p. 145), per quanto riguarda i Discorsi di religione Cesa sottolineava l’importanza, in Gentile, della «categoria dell’amore», che (sono parole di Gentile) «si indirizza a quel Noi che accoglie in sé, indistinguibilmente, la nostra persona e ogni persona come la nostra» (Cesa 1989, pp. 280-81). Ma – e qui lo slittamento con il Gentile ‘sistematico’ è ancora più significativo – già nella Teoria generale Gentile, sottolinea Cesa, aveva insistito su come
soltanto in grazia dell’amore si pote[sse] evitare di restare prigionieri della fattualità: la ‘realtà’ non doveva essere accettata, bensì ‘mutata’ finché non fosse diventata ciò che “doveva essere”, cioè “razionalmente buona” (p. 281).
Questo nodo della doppia valenza, teoretica e pratica, del pensiero gentiliano era di fatto tematizzato appunto anche da Calogero:
nelle opere di Gentile si avvert[e] a ogni passo il tremendo e affascinante sforzo di mantenersi in piedi su quel taglio di rasoio (l’espressione è cara all’attualismo più ortodosso) che è l’identità filosofica della logica e dell’etica, onde mai il logo debba astrarsi come tale bensì debba incessantemente esser creato e tenuto vivo dall’atto – anche quando il logo è lo stesso logo della dipendenza del logo dall’atto! (Gentile, maestro, cit., p. 234).
È questo, con tutta evidenza, il tema del concreto come contrapposto all’astratto, in Gentile – dove è un tema assiale, documentato dal fatto che il Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923) contrappone una «logica dell’astratto» a una «logica del concreto» – come, più in generale, nella tradizione hegeliana. Calogero lo ripropone però nei termini della «filosofia» che «non può più esser teoria, [ma] dev’esser pratica, realizzazione di sé in atto», o nel «concetto dell’assoluta eticizzazione della logica» (pp. 232-33). Al di là di alcune sfumature di significato, l’atteggiamento manifestato da Calogero è molto vicino, per quanto non del tutto assimilabile, a quello del grosso della scuola romana di Gentile, caratterizzata da un sostanziale vitalismo che portava questi giovani (accanto a Spirito, c’erano Arnaldo e Luigi Volpicelli, c’era Vincenzo La Via, mentre Carmelo Licitra – altro personaggio centrale sotto questo profilo – era prematuramente scomparso qualche anno prima) alla convinzione di un’intrinseca ‘politicità’ dell’attualismo. Calogero però manteneva un suo profilo ‘filosofico’: «l’attualismo è […] idealismo assoluto», la «gnosi a posteriori […] non è più assolutamente un modo di conoscere, bensì un modo di agire» (p. 233). Il «dissidio», in Gentile evidente (se ne era discusso in particolare – e ad aprire la discussione era stato Armando Carlini – all’atto della pubblicazione, nel 1923, del secondo volume del Sistema di logica), tra la gnoseologia e l’etica, tra l’astratto e il concreto, e che poteva indurre in alcuni (sarà poi il cosiddetto gentilianesimo di destra) a vedere nell’attualismo una sostanziale apertura al trascendente, che è quanto dire all’avallo di un cattolicesimo in forma confessionale, veniva da Calogero risolto, nei termini quindi della ‘sinistra’ gentiliana, in un’adesione a un attualismo inteso come attitudine a «esercitare una corrosione critica», a «combattere Gentile con Gentile», alla luce tuttavia del fatto, centrale, che tale «dissidio» era in realtà
basato su un più profondo accordo, su un’unità più celata e remota, […] più interna, che abbraccia, e fa che si abbraccino, i due momenti contrastanti della filosofia gentiliana qua philosophia, [ossia] nient’altro che la pedagogia di Gentile stesso: o, più esattamente, la sua attività di educatore, l’azione di Gentile maestro. E infatti. È difficile, sì, è germe penoso e fecondo di infiniti ulteriori problemi, realizzare davvero, nella cristallina sfera della speculazione, quell’identità del logo e della prassi, che è il problema ormai capitale di tutta la filosofia moderna dello spirito […]. Parlate, invece, di questi stessi problemi agli altri. Spiegate a loro appunto come non sia possibile mai concepire un logo senza un animo vivo che praticamente l’affermi, né un animo vivo che non abbia il suo logo, essenza della sua stessa realizzazione: come cioè non sia dato amare senza conoscere, conoscere senza amare, essere saggi senza esser uomini, esser uomini senza esser saggi. Provate a insegnare così: ed ecco che, in quanto insegnate, le vostre parole non sono più la mitica immagine di una platonizzata filosofia, ma nient’altro che la vostra anima operante, il mezzo pratico del vostro agire: e il vostro ragionare e operare educativo, pedagogicamente eticizzandosi, conquista finalmente quella piena identità coll’agire, da cui poteva prima differenziarsi soltanto come astratto momento teorico, precedente alla viva realtà dell’insegnare (pp. 235-36).
«Speculazione» versus educazione, cioè insegnamento; «logo» versus «animo vivo», che significa poi «amare», «esser uomini», «insegnare» con l’«anima operante»: l’«operare educativo, pedagogicamente eticizzandosi, conquista [una] piena identità coll’agire», con la «viva realtà dell’insegnare». Se il linguaggio qui utilizzato – perfettamente comprensibile in un giovane di 25 anni appena balzato agli onori della cronaca dell’«Osservatore romano», che gli rimproverò il contegno eccessivamente polemico mantenuto al congresso – oggettivamente conferma il quadro interpretativo avanzato da Cesa nel momento in cui insisteva, con riferimento a questo stesso anno 1929, sulla centralità della categoria dell’«amore» in Gentile come definiente la valenza non categoriale ma etica della «religione» entro il suo pensiero, l’«assoluta eticizzazione della logica», sulla quale Calogero tanto insiste in queste pagine, riceve un senso a partire dalla identità stabilita da Gentile di pedagogia e filosofia, che è in effetti il vero asse concettuale della sua riforma della scuola. Prima però di tornare su questo punto, occorre richiamare ancora – e ci si concederà di schematizzare un poco – in che senso l’«eticizzazione della logica» su cui qui si insiste concorresse a definire l’animus del gentiliano ‘di sinistra’.
Al di là della formula, che ritiene un aspetto di carattere teoretico, quanto Calogero – qui assunto in qualche misura come archetipo dell’intellettuale che in Gentile poteva vedere un ‘maestro’ – riteneva che in essa potesse essere riassunto è appunto l’«esercizio» di «una corrosione critica», l’«esortazione a non stancarsi mai d’esser vigili, a non ceder mai alle oziose e riposanti lusinghe del dogmatismo»; un’esortazione coincidente (e qui è ancora il loico Calogero a parlare) con la «trasvalutazione assolutamente pedagogica e cioè etica» (p. 237) della «tecnica identificazione dialettica della pedagogia colla filosofia» (i corsivi sono nostri):
la traduzione della filosofia dal puro momento di ricerca speculativa, interna all’animo dell’indagatore, a quello dell’affermazione, dell’insegnamento, in cui la filosofia, abbandonando la pura sfera individualistica, divien parola che può essere intesa dai più, e che appunto ai più deve esser predicata, se circa il suo valore si ha fiducia alcuna (p. 236),
e in cui, quindi, «l’individuale filosofare si pone come universale educare», qualifica un ruolo e una natura della filosofia da intendersi non in astratto, in una prospettiva, senza qui voler abusare del termine, ‘speculativa’ in senso deteriore, ma da cogliere alla luce del contesto nel quale queste cose venivano scritte e dette, ossia nel pieno della polemica dell’idealismo gentiliano contro i pensatori cattolici presenti al VII Congresso nazionale di filosofia all’indomani del Concordato.
Si tratta di elementi – questo ‘ruolo’ e questa ‘natura’ della filosofia – che la più avvertita storiografia individua oggi come assolutamente qualificanti l’attualismo: anti-intellettualismo, concezione critica della cultura, avversione al dogmatismo, attitudine al dialogo e alla discussione, abito filologico inteso non in senso deteriore ma scientifico, disponibilità alla revisione dei propri assunti teorici, rispetto dell’interlocutore: tutti ‘atteggiamenti’ che variamente definiscono il filosofo, e che verosimilmente, agli occhi di questi giovani, la personalità di Gentile – con la quale molti di essi vissero a diretto contatto – in qualche misura incarnò, costituendo un elemento di assoluta novità nella vita pubblica del tempo e che per un certo periodo poté, perlomeno in questi ambienti, essere identificata con la filosofia tout court.
Occorre valutare con attenzione come questo tipo di percezione non potesse essere in alcun modo disgiunta dal fatto che Gentile era un professore, in grado, nei vari luoghi nei quali si trovò a insegnare, di costituire attorno a sé una scuola. Accadde a Palermo, accadde a Pisa, accadde a Roma, accadde anche alla Scuola Normale, e accadde persino a Firenze, nei pochi mesi nei quali Gentile, prima della morte, vi si stabilì, come probabilmente testimonia il caso di Eugenio Garin, che alla memoria di Gentile fu legatissimo. Sotto questo profilo le testimonianze sono innumerevoli, e non mette caso citarle. Gentile ebbe sempre fortissimo il senso della comunità degli studi, della devozione ai maestri, della tradizione. Da questo punto di vista risulta assolutamente esemplare lo scritto sulla Scuola Normale di Pisa, di cui occorre ricordare il titolo originario (La preparazione degli insegnanti medî. La Scuola Normale universitaria di Pisa) e la sede di pubblicazione, i «Nuovi doveri» (15 maggio 1908, 10, pp. 129-40), rivista fondata da Giuseppe Lombardo-Radice essenzialmente destinata agli insegnanti.
È stato detto del tutto autorevolmente che per Gentile la Normale costituì un «modello», a partire dal quale egli pensò e in certa misura anche organizzò la sua riforma scolastica (Moretti 2004, pp. 95-101). Risale a quello stesso 1929 un documento che in quella circostanza (il convegno Giovanni Gentile, filosofo italiano, tenutosi a Roma il 17 giugno 2004) è stato richiamato, «un piccolo foglietto di appunti autografi» intitolato Pentalogo del normalista:
1) L’insegnante ha bisogno di due cose: la voce interna (socratica) e il pieno possesso di quello che deve insegnare. 2) Non metodi astratti, ma consapevole familiarità col sapere (arte ecc.). Non fumose teorie, ma pratica articolazione del sapere come eterno problema. 3) Come Socrate, l’insegnante non insegna per la paga, né in ragione della paga. 4) Il possesso del sapere nella sua articolazione storica è filologia, nella scienza dell’uomo; matematica, in quella della natura. 5) Valore assoluto e perciò etico del sapere e degli studi in cui esso si genera. Rispetto della scienza. Dignità del maestro. Milizia della scuola (Simoncelli 1998, p. 48).
Si tratta di considerazioni formulate privatamente da Gentile all’atto della riorganizzazione che egli veniva approntando in quell’anno della Scuola Normale, ma che possono essere utilizzate come chiave di lettura per intendere l’intero concetto che egli aveva della scuola e dell’insegnamento. Per «il Gentile scrittore scolastico e uomo di governo della scuola» la sua personale «esperienza pisana» – è stato scritto (Moretti 2004, p. 95) – ebbe una rilevanza decisiva: la rievocazione delle sue vicende normalistiche nel 1908 si svolgeva nel momento in cui Gentile si dedicava a
un più ampio e polemico studio dedicato al malfunzionamento delle Scuole di Magistero annesse alle facoltà letterarie e scientifiche, ed alla necessità di conservare ai corsi universitari il loro carattere scientifico, specialistico e monografico, in opposizione alle proposte che miravano a introdurre negli atenei insegnamenti ‘generalisti’ anche per ovviare alle presunte lacune informative nella cultura degli insegnanti (p. 96).
Gentile – e l’impatto profondo e duraturo della sua riforma scolastica andrebbe studiato proprio in riferimento a temi di questo tipo – teneva fermo alla «necessità di mantenere una precisa distinzione di stadi formativi, fra il sapere ‘formale’ da acquisire nella scuola media e quello ‘critico’ elaborato e trasmesso nelle università» (p. 96). L’altro elemento, su cui Gentile ebbe sempre a insistere, riguardava il ‘metodo’ pedagogico e le ‘didattiche speciali’, cavallo di battaglia dei pedagogisti: «il metodo non è qualche cosa di separato e sovrapposto a un sistema di conoscenze; ma è appunto lo stesso sistema di conoscenze in quanto sistemato» (Scuola e filosofia. Concetti fondamentali e saggi di pedagogia sulla scuola media, 1908, in La nuova scuola media, 1925, 19882, p. 177). Alle didattiche speciali, o per materie, Gentile contrapponeva l’insegnamento seminariale e la pratica della ricerca (Moretti 2004, p. 96). A dispetto del regolamento delle scuole di magistero, che prevedeva che gli alunni di dette scuole fossero destinatari di conferenze aventi a oggetto il «metodo da seguirsi nell’insegnamento delle singole materie», Gentile ricordava che
la scuola di magistero, istituita per provvedere alla preparazione tecnica degl’insegnanti, quando fa qualche cosa, riesce un seminario scientifico. I più valenti professori universitari, pur non volendo deliberatamente andar contro il regolamento, ma, sentendo tuttavia che scapiterebbero in dignità a rifare, con la pretesa vana e ingiustificabile di correggerla, l’opera dei colleghi delle scuole medie, e sentendo anche, benché per lo più in confuso e senza vederne la ragione, che non spetta loro di dissertare dei metodi in astratto con presunzione di competenza scientifica, si riducono tutti a fare del magistero una specie di seminario scientifico. Fanno male? Sono i più valorosi dei nostri maestri, ripeto; e chi li richiama all’osservanza del regolamento della scuola di magistero, dovrebbe cercare di spiegare come mai appunto dalle scuole di tali professori siano venuti i migliori insegnanti delle nostre scuole medie. – Fanno male? – E se la preparazione tecnica dell’insegnante consistesse appunto nella sua vera, sincera, profonda preparazione scientifica? (La nuova scuola media, cit., pp. 178-79).
Nella prefazione a Scuola e filosofia (1908), redatta in forma di lettera a Giuseppe Lombardo-Radice, che di quel volume aveva sollecitato la redazione e la stampa, Gentile lo ringraziava per l’aver creduto che in «tutti i pensieri, che da otto anni [egli] ven[iva] svolgendo intorno alla pedagogia della scuola media», «nell’apparente disordine della forma, [ci fosse] pure un sistema di pensiero», un possibile «orientamento filosofico». Riassumendolo, Gentile lo faceva consistere in un certo «concetto della pedagogia», da risolversi «per davvero nella filosofia», e in una «scuola laica, […] intesa profondamente come scuola governata dalla filosofia» (La nuova scuola media, cit., p. VI). Gentile rifiutava la scienza astratta dei pedagogisti e «il pedagogismo, in quanto si apparta dal moto vivo del pensiero che non è metodo astratto, ma vita concreta, che ha la sua legge nel suo contenuto», e cercava di affermare un «concetto della libertà umana, che si realizza nello stato e nella scienza» (p. VII).
Noi vogliamo – scriveva – nella scuola lo spirito umano in tutta la sua pienezza e nella sua realtà: e però siamo classicisti e umanisti rispetto al programma della scuola media e rifuggiamo dagl’ideali di cultura ritagliati ad arte dal fondo complesso della nostra storia e della nostra civiltà. Vogliamo la libertà […] ma libertà che si faccia Stato, e che non sia la nostra individuale, ma quella della legge, che è di tutti e per tutti (p. VII).
Il concetto di riforma della scuola emerge nel Gentile ‘palermitano’ di questi anni in un confronto costante con la legislazione scolastica del tempo, di cui egli ricostruisce genesi e lacune in un riferimento costante alla sua tradizione risorgimentale, da cui peraltro la sua stessa filosofia promana. A dieci anni di distanza, il Gentile ‘romano’, ormai solidamente proiettato in una nuova dimensione pubblica nazionale, metterà a frutto le sue doti di scrittore – anche e soprattutto su periodici a larga diffusione – nel contesto della guerra vinta. Lì Gentile – e sono ancora i Discorsi di religione, nel loro primo saggio, apparso, ricordiamolo, su «Politica» nel 1920 – si rivolgerà in prima istanza ai «giovani» («la borghesia italiana può andare giustamente superba della tempra spirituale de’ suoi figliuoli, quale si svelò in casi innumerevoli durante la guerra», Discorsi di religione, 19574, p. 18), giovani che si erano formati nella scuola grazie a
molti e molti valenti maestri: purissime anime di martiri, ai quali fu ignota la destrezza degli avvocati, dei faccendieri, dei politicanti, e rimase insospettata l’arte del vivere facendosi valere in una società priva di alti ideali morali; e fu negato ogni benessere, e solo desiderio la pace e la gioia dei libri e della scuola, nell’opera assidua, male apprezzata, male rimunerata, tutta fatta di sacrificio e di amore per i giovani, pel sapere, per l’arte (p. 18).
Contro la vecchia classe dirigente, contro gli «assertori del laicismo giacobino e [gli] artefici di una politica materialisticamente, grettamente e pavidamente positiva» (p. 18), Gentile (coadiuvato dai suoi collaboratori) si farà largo, individuando possibili sostegni e interlocutori, e finalmente – una volta ottenuta la nomina a ministro – vincolerà a disposizioni di legge le sorti di quello che già dieci anni prima aveva definito «l’organo centrale, il cervello dello Stato moderno: la scuola» (La nuova scuola media, cit., p. VIII).
C. Cesa, Il pensiero di Aldo Capitini e la filosofia del neoidealismo, «Giornale critico della filosofia italiana», 1989, 3, pp. 273-94.
G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia 1990.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, Torino 2006.
P. Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938), Milano 1998.
S. Zappoli, Gentile e il fascismo, in Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2003, pp. 147-65.
M. Moretti, Scuola e università nei documenti parlamentari gentiliani, in Giovanni Gentile, filosofo italiano, Atti del Convegno, Roma, Sala Zuccari, 17 giugno 2004, Soveria Mannelli 2004, pp. 77-108.
R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009, pp. 189-99.
S. Zappoli, Guido Calogero (1923-1942), Pisa 2011, in partic. i capp. II e IV.