Gentile maestro della ‘nuova Italia’: Gramsci, Togliatti, Gobetti
Per comprendere il fascino che Gentile esercita durante la Prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra su molti giovani intellettuali italiani è indispensabile spogliarsi del senno di poi, o per lo meno dei pregiudizi che ne discendono.
Il Gentile al quale si rivolgono molti giovani liberali e popolari, liberalsocialisti e azionisti, e persino tanti socialisti e comunisti destinati ad assumere ruoli di primo piano nella lotta antifascista; il Gentile che essi leggono, conoscono e per molti versi ammirano, giungendo a considerarlo, per una pur breve fase della loro formazione, un maestro di vita: questo Gentile ha poco o nulla a che fare con il filosofo dello Stato etico, con il futuro ideologo ufficiale del fascismo, con il rappresentante – come avrebbe scritto Carlo Dionisotti – «senza ombra di dubbio tra i maggiori e più tipici e per ciò stesso più responsabili» del regime (Giovanni Gentile, 1944, in Id., Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, 2008, p. 43).
Non è nemmeno ancora l’artefice della «più fascista» delle riforme, che avrebbe presto informato la scuola ai principi della gerarchia, della centralizzazione, della selezione «aristocratica». Né l’influente caposcuola in grado di organizzare un’occupazione per così dire militare dell’accademia italiana. Né, finalmente, il filosofo «neoidealista» in rotta con il vecchio amico e sodale Benedetto Croce, benché si sia già consumato il duro scambio epistolare apparso su «La Voce» alla fine del 1913. È invece da una parte, come Croce e con Croce, l’oppositore dell’allora dominante nazionalismo naturalistico («antropologico o etnografico», G. Gentile, Nazione e nazionalismo, 1919, in Id., Guerra e fede, a cura di H.A. Cavallera, 19893, d’ora in avanti GF, p. 35), inteso come ideologia delle «razze» e del conflitto tra stirpi differenti per sangue e per gradi di nobiltà. Ed è soprattutto, dall’altra parte, diversamente da Croce, l’appassionato sostenitore della coerenza «totalitaria», dell’unità assoluta di pensiero e azione: l’intransigente edificatore di un sistema filosofico incentrato sulla potenza creatrice dello Spirito, animato dalla fede incrollabile nella concreta possibilità di una sintesi organica tra filosofia e storia e tra cultura e politica, nella prassi integrale.
Di qui, dalla più fervida passione morale che lo ispirava e da una più spiccata e ottimistica propensione all’azione, il maggior ascendente che, rispetto alla crociana «religione della libertà», l’«idealismo attuale» esercitava su quanti, pure nella «nuova generazione», resistevano alle seduzioni dell’attivismo irrazionalista – al futurismo e al dannunzianesimo –, ma non per questo erano immuni dalla nostalgia di valori assoluti e, dopo la catastrofe della guerra, dal bisogno di nuove prospettive. Si può ben parlare in proposito di un’egemonia gentiliana nel contesto di quella che nel secondo dopoguerra sarà chiamata «dittatura dell’idealismo»: un’egemonia che, sullo sfondo di una crisi dell’ordine «borghese» vissuta come irreversibile e totale, ben si comprende nel caso di generazioni che la guerra avevano «respirata nascendo» (P. Gobetti, Per una società degli apoti [II], 25 ott. 1922, in Id., Scritti politici, 1960, d’ora in avanti SP, p. 411) e che, immerse in un clima che gli stessi protagonisti definiscono di Sturm und Drang, crescono assetate di certezze, bisognose di guide e di modelli, di riferimenti intellettuali e morali.
La fascinazione si esaurisce tuttavia nel giro di pochi anni: forse di un lustro (fra il 1914 e il 1918) nel caso di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti, che ne appaiono tuttavia segnati in superficie e per aspetti non essenziali; in appena un triennio (1919-21) per quanto attiene a Piero Gobetti, che più in profondità si direbbe raggiunto dalle suggestioni dell’«idealismo attuale» e conquistato dalla sua retorica. A seguito della duplice cesura storica imposta dalla guerra e dalla Rivoluzione d’ottobre, la seduzione cede il passo, bruscamente, radicalmente, a una «resa dei conti» impietosa che non di rado ispira toni liquidatori, di scherno e di franco disprezzo, nei quali si riflette il segno bruciante della delusione e della collera – persino del risentimento – a essa conseguente. Non si tratta di un caso ma di uno svolgimento necessario che ci pare di dover ricondurre, con la dovuta cautela, alla sostanziale esteriorità di quella iniziale soggezione ideale. La quale, in particolare nel caso di Gramsci e di Togliatti, semplicemente si dissolve – per lasciare spazio al suo opposto – con il costituirsi di personalità mature e autonome sul terreno delle motivazioni e dei riferimenti.
L’esperienza universitaria di Gramsci e Togliatti nella Torino della prima metà degli anni Dieci del Novecento è accomunata dalla presenza di alcuni maestri, amati o avversati (l’economista Luigi Einaudi, il giurista Francesco Ruffini, il filosofo Gioele Solari, i letterati Arturo Farinelli e Umberto Cosmo), i cui nomi ricorrono anche nella biografia di Gobetti. Torino (l’università, la vita culturale) non è gentiliana, ma Gentile vi è presente e influente. Nelle sue lezioni di filosofia teoretica, frequentate con assiduità da Gramsci, Annibale Pastore illustra il Sommario di pedagogia di Gentile, al quale scrive (3 ag. 1915) che «un gruppo di generosissimi studenti (che ora sono al fronte, tutti) mostrò un vivo entusiasmo» per il suo insegnamento (cit. in Turi 2006, p. 283).
Tra questi «generosissimi studenti» molti sono giovani socialisti, che nel vibrante appello gentiliano all’unità di teoria e pratica scorgono un antidoto contro la cultura positivista e fatalista del vecchio socialismo italiano, e un saldo fondamento per la partecipazione alla lotta politica. Quando, nel 1914, sfuma (per la contrarietà dei cattedratici capeggiati dal filosofo morale e pedagogista Giovanni Vidari, massone, e, secondo Gramsci, per la «molto settaria» opposizione «di una «pattuglia di colleghi clericaleggianti», A. Gramsci, La Consolata e i cattolici, 1916, in Id., Cronache torinesi 1913-1917, 1980, d’ora in avanti CT, p. 392) la prospettiva che Gentile sia chiamato sulla cattedra lasciata da Rodolfo Mondolfo, la delusione dei giovani socialisti è cocente.
Il loro interesse per l’«idealismo attuale» trae origine anche dai motivi che, in questi stessi anni (tra il 1912 e il 1914), inducono la frazione rivoluzionaria del socialismo torinese (di cui Gramsci è parte) a riconoscersi nell’intransigentismo del giovane direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini. Ad animare il quale sono le virtù necessarie a battere il pavido gradualismo riformista: l’ardore rivoluzionario e un entusiasmo appassionato, il fervido idealismo, l’impeto volontaristico, tratti che i giovani socialisti colgono anche nell’attualismo gentiliano, in ciò che ne costituisce, ai loro occhi, la cifra rivoluzionaria. Tuttavia, lo scontro con il gruppo dirigente riformista si impernia in particolare sul diverso atteggiamento di fronte alla guerra mondiale.
Echi gentiliani si avvertono nell’interventismo dei giovani socialisti rivoluzionari, condiviso da Gramsci (sul quale l’accusa di interventismo peserà a lungo) e da Togliatti. Gramsci perora la causa interventista nell’unico articolo pubblicato nel 1914, che sin dal titolo (Neutralità attiva ed operante) si rifà a Mussolini (autore, due settimane prima, di un editoriale intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità relativa ed operante). Il rifiuto dell’«ingenua contemplazione e rinunzia buddistica» (la «comoda posizione della neutralità assoluta» assunta dal Partito socialista italiano) riposa sull’immagine di un proletariato in grado di plasmare le condizioni della lotta di classe e soprattutto sulla concezione «rivoluzionaria» della storia «come creazione del proprio spirito» (in CT, pp. 14 e 11). E, come Gentile si dirà persuaso che dalla guerra sorgerà un’«Italia nuova», «più salda, più compatta, più seria, più laboriosa, più consapevole della sua missione» (Natale, 25 dic. 1917, in GF, p. 51), così ora Gramsci nutre la speranza che il conflitto apra nuove prospettive e prepari le condizioni per lo «strappo definitivo (la rivoluzione)» (Neutralità, cit., p. 12).
Indizi di un’influenza attualistica ricorrono anche negli interventi gramsciani successivi alla pausa nella collaborazione al «Grido del popolo» (tra l’autunno del 1914 e quello del 1915). Si tratta in primo luogo di analogie lessicali, o retoriche. In un articolo del novembre 1915 l’Internazionale socialista è definita «un atto dello spirito», vivo nella coscienza del proletariato e consistente della coscienza di «costituire un’unità, un fascio di forze concordemente rivolto […] a uno scopo comune» (Dopo il congresso socialista spagnuolo. Cosas de España, in CT, p. 19). La «Città futura», il numero unico pubblicato l’11 febbraio 1917 dalla Federazione giovanile socialista piemontese e di fatto opera di Gramsci, si vuole «incitamento» ai giovani affinché si preoccupino «di crearsi quell’ambiente in cui la loro energia, la loro intelligenza, la loro attività trovino il massimo svolgimento, la più perfetta e fruttuosa affermazione» (in La Città futura 1917-1918, 1982, d’ora in avanti CF, p. 3). Il 25 maggio 1917 Gramsci parla della lotta angosciosa necessaria «per sublimarsi in una libertà spirituale perfetta, per raggiungere l’adesione più completa tra l’atto e il fatto» e uccidere «tutte le fatalità» (L’uomo più libero, in CF, pp. 173-74), mentre in La rivoluzione contro il “Capitale” (24 dicembre 1917) evoca nella «volontà sociale, collettiva» la forza «plasmatrice della realtà oggettiva» (in CF, p. 514). Ma è dato rilevare anche convergenze più sostanziali.
Gramsci apprezza l’universalismo sotteso alle critiche mosse da Gentile alla «concezione grettamente naturalistica» della nazione (G. Gentile, Nazione e nazionalismo, 2 marzo 1917, in GF, p. 35); condivide l’idea gentiliana secondo cui, in quanto processo spirituale e morale, ogni nazione partecipa dell’universalità dello Spirito; quindi da un articolo di Gentile apparso sul «Resto del carlino» del 2 marzo 1917 trae pochi giorni dopo (Riapertura d’esercizio, 8 marzo) quella che gli pare «una espressione magnifica, a conclusione di una disamina profondissima dell’ideale nazionalistico: Canis nationalis, asinus universalis» (in CF, p. 80). Elementi desunti dalla prospettiva idealistica (dallo storicismo assoluto e dalla filosofia dell’atto) innervano in particolare la polemica gramsciana contro il determinismo. Esemplare al riguardo appare l’aspra ricorrente polemica con Claudio Treves, simbolo del gradualismo riformista. Sulla «Città futura» Treves è violentemente criticato come paradigma di un «misticismo arido e senza scatti di passione dolorante» (Margini, 11 febbraio 1917, in CF, p. 25). Pochi mesi dopo Gramsci torna ad attaccarlo per l’accusa di estremismo pronunciata da Treves all’indomani della rivolta armata di Torino. E i toni sono quelli del vitalismo gentiliano:
Noi ci sentiamo solidali con questo nuovo immenso pullulare di forze giovani e non ne rinnegheremo quelli che i filistei chiamano errori, e gioiamo del senso gagliardo della vita che ne promana […]. Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette: vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d’amore (Analogie e metafore, 15 sett. 1917, in CF, p. 333).
Meritano attenzione anche taluni riferimenti di questo periodo. Sulla «Città futura» sono pubblicati «due inviti alla meditazione»: un brano di Croce e un testo del gentiliano Armando Carlini, tratto dall’Avviamento allo studio della filosofia. L’anno successivo, nel riprendere sul «Grido del popolo» uno scritto di Giuseppe Saitta apparso sul «Resto del carlino», Gramsci non solo indica in Gentile «il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero», ma presenta enfaticamente il suo «sistema della filosofia» come «lo sviluppo ultimo dell’idealismo germanico che ebbe il suo culmine in Giorgio Hegel, maestro di Carlo Marx», e come «la negazione di ogni trascendentalismo, la identificazione della filosofia con la storia, con l’atto del pensiero, in cui si uniscono il vero e il fatto, in una progressione dialettica mai definitiva e perfetta» (Il socialismo e la filosofia “attuale”, 9 febbr. 1918, in CF, p. 650), onde ai suoi occhi le riflessioni di Saitta
lasciano sperare che questi studiosi [i teorici della filosofia attuale] si propongano di arricchire la letteratura del socialismo con qualche buona pubblicazione, che serva a infondere vita di pensiero più lucido e preciso nel nostro campo (p. 650).
Infine, nel marzo del 1918 Gramsci si rivolge proprio a Giuseppe Lombardo-Radice per avere consigli su come organizzare il lavoro di una piccola associazione culturale (il Club di vita morale) da lui fondata pochi mesi prima. «Conosco e ammiro l’opera che ella ha svolto per un risanamento spirituale della gioventù italiana», gli scrive. E puntualizza che, nelle sue riunioni, il Club discute soltanto opere di autori che in qualche modo «risenta[no] del movimento idealistico attuale» (cit. in G. Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo 1911-1918, 1977, pp. 154-55).
È indiscutibile che nel pensiero giovanile di Gramsci la filosofia di Gentile offra «un punto di appoggio nella polemica antideterministica» (Paggi 1970, p. 21). Sarebbe tuttavia sbagliato – ed è talvolta fonte di fraintendimenti – ricondurre in blocco all’attualismo gentiliano tale polemica. In gioco è, con altre eredità teoriche (primi fra tutte, nel caso del giovane Gramsci, il sorelismo e l’intuizionismo bergsoniano), lo stesso spirito dei tempi, un clima generale, non solo italiano, nel quale la posizione gentiliana si costituisce e acquista influenza.
L’attualismo è, per dir così, la ‘variante italiana’ di una filosofia della libertà che in tutta Europa, sin dal tardo Ottocento, si fa valere contro le filosofie deterministiche di stampo teleologico e meccanicistico. In questo quadro è dato comprendere la capacità attrattiva di un idealismo volontaristico imperniato sull’indivisibilità di pensiero e azione e sull’appassionata affermazione del significato infinito dell’«atto spirituale» per la creazione di «una umanità degna di questo nome perché vittoriosa di un perenne cimento» (E. Garin, Storia della filosofia, 2° vol., 1947, p. 213). Va dunque evitato l’errore di rinchiudere il discorso entro il ristretto orizzonte italiano, riconducendo questo e l’egemonia gentiliana di cui si tratta all’ambito europeo.
In questo senso, occorre andare oltre assonanze e analogie superficiali, per verificare il significato concreto che termini e argomenti assumono nella pagina gramsciana. Valgano pochi esempi al riguardo. In Il Sillabo ed Hegel (15 genn. 1916) espressioni del lessico attualistico sono riprese in una prospettiva affatto diversa da quella sottesa alla «riforma» gentiliana della dialettica. Per il giovane Gramsci «non invano Hegel è vissuto ed ha scritto», poiché ha saputo esprimere il principio essenziale della modernità: il superamento delle religioni rivelate, sostituite «nella coscienza umana» da una laica fede filosofica, sinonimo di autonomia individuale e di conoscenza critica della realtà (CT, pp. 69-72). Nella Rivoluzione contro il “Capitale” sopra citata l’elogio della posizione assunta dai «bolsceviki» contro le «incrostazioni positivistiche e naturalistiche» presenti in Karl Marx pone il «pensiero immanente, vivificatore» di Das Kapital (1867-1894) in continuità con il «pensiero idealistico italiano e tedesco» (CF, pp. 513-16). Ma più che un accenno al «neoidealismo» si direbbe la citazione testuale dello schema spaventiano della «circolazione» e la ripresa dell’insistita battaglia antifatalistica condotta da Antonio Labriola, importanti tracce del quale (sovente misconosciute) è dato rilevare in diversi articoli gramsciani del periodo.
È infine indubbiamente significativo che, nel portare un nuovo attacco a Claudio Treves (il quale aveva criticato «la “spaventosa” incoltura» della «nuova generazione» socialista italiana rivendicando la posizione menscevica, cioè, per Gramsci, la «dottrina dell’inerzia del proletariato»: C. Treves, Lenin, Martoff e... noi!, «Critica sociale», 1-15 genn. 1918, 28, 1, pp. 4-5), Gramsci parli di «atto storico», individuando in esso – nella sua corretta concezione – il cuore stesso della teoria marxiana della rivoluzione (La critica critica, 12 gennaio 1918, in CF, pp. 554-56). Ma l’eco gentiliana, prima facie evidente, si rivela a guardar bene puramente esteriore. «Genuina dottrina di Marx» è per il giovane Gramsci quella «per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico» (CF, p. 556). Il quale quindi, lungi dall’esser «puro» (come pretende lo schema attualistico, assorbendo la realtà nell’attività spirituale del soggetto), è invece sede di una sintesi concreta tra soggetto e oggetto, di una loro osmosi obiettiva e materiale, secondo quanto prospettato da Marx sin dalla prima delle Thesen über Feuerbach (scritte nel 1845).
Il 20 ottobre 1917 sul «Grido del popolo», l’organo della sezione socialista torinese che da anni ospita gli interventi di Gramsci, compare per la prima volta, in calce a un articolo (Lotta economica e guerra), la sigla «p.t.». È l’inizio, per Togliatti, di un’attività giornalistica e politica destinata a dispiegarsi per quasi un decennio al fianco di Gramsci. Con Gramsci il giovane Togliatti condivide l’interventismo e la speranza che, promuovendo «la formazione di una coscienza liberale universale», il conflitto bellico trasformi il mondo in «una grande repubblica democratica» e realizzi il sogno dell’«internazionale» socialista (“Il presidente Wilson” di Daniel Halévy, 9 ag. 1919, in P. Togliatti, Opere, 1° vol., 1917-1926, 1974, p. 55). Vibranti di patriottismo, le lezioni di «morale militare» tenute dal giovane Luigi Russo presso la Scuola ufficiali di Caserta lo confermano in tale auspicio. E in un appassionato idealismo che, lungi dall’esaurirsi nella polemica antipositivistica, trova il suo baricentro nella concezione desanctisiana (e gentiliana) della cultura come funzione nazionale: in una riproposizione della «missione del dotto» all’altezza dei tempi (La «intelligenza» italiana, 23 maggio 1923, in Opere, cit., p. 489).
Quando, nel maggio 1919, nasce «L’Ordine nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista», è dunque naturale per Togliatti collaborarvi occupandosi di libri e del dibattito culturale. Scrive note, commenti, recensioni e traduce poesie (di Walt Whitman, Georges Chennevière e Marcel Martinet), quasi a mostrare come nella cultura e nella stessa ricerca letteraria debbano scorgersi componenti fondamentali della formazione politica. Ma – finita la guerra – siamo già in una fase diversa della sua evoluzione. Togliatti non nutre più illusioni sulla funzione progressiva dello scontro bellico, sulla sua possibile fecondità politica e morale. Il conflitto mondiale è ora, ai suoi occhi, un segno inequivocabile della crisi storica dell’ordine borghese, della sua incapacità di rinnovarsi risolvendo le proprie contraddizioni. Massima è poi la delusione per l’involuzione dei «movimenti di cultura» (Parassiti della cultura, 15 maggio 1919, in Opere, cit., p. 27) sorti, con il nuovo secolo, come fattori di rinnovamento della cultura nazionale. Sicché su ogni altro sentimento prevalgono ormai il disincanto e il disprezzo verso l’evasione nell’«Arcadia immortale» (Operai e contadini, 30 ag. 1919, in Opere, cit., p. 62).
L’idea è che la crisi italiana si esasperi precisamente per l’irresponsabilità dell’intellettualità italiana, infestata da «gazzettieri» parolai e da pretesi profeti, vanitosi ipocriti mossi dalla «smania di apparire più di quanto non si sia realmente» e intenti a «una ricerca affannosa degli effetti e dei successi» (La «intelligenza» italiana, cit., p. 491; Parole oneste sulla Russia, 1° maggio 1919, in Opere, cit., p. 24; La disfatta di A. Lanzillo, 1° maggio 1919, in Opere, cit., p. 18; “Franche parole alla mia Nazione” di Arturo Farinelli, in Opere, cit., p. 32). Su questa base gli interventi sull’«Ordine nuovo» – sede di una polemica incalzante contro il dilettantismo e la poltroneria, l’aristocratica separatezza e l’evasione intellettualistica – sono occasione di una «resa dei conti» con gli autori e i maestri delle letture giovanili. Negli articoli su Giuseppe Prezzolini e i vociani (Piero Jahier e Mario Missiroli), gli anarcosindacalisti (Agostino Lanzillo) e lo stesso Gaetano Salvemini, Togliatti sviluppa un confronto severo, volto a mettere in chiaro, anzitutto a se stesso, «le ragioni di un distacco che diventa con il tempo ostilità e, spesso, vero e proprio disprezzo sia intellettuale che politico» (Ciliberto 2014, p. 1859). Di qui anche il violento attacco a Gobetti, giovanissimo ma già «tedioso peggio di un professore», compiaciuto del proprio «frasario nuvoloso», delle «espressioni semioscure», di una «vanità loquace e presuntuosa» (Parassiti della cultura, cit., pp. 28-29).
Ma, a proposito dell’idealismo e dei suoi problemi, testi chiave – testimonianza insieme di travaglio e di un’evoluzione critica ben precisa – sono naturalmente le recensioni togliattiane delle sillogi pubblicate da Croce (Pagine sulla guerra) e da Gentile (Guerra e fede) all’indomani della conclusione del conflitto. Il riconoscimento dei meriti del primo non impedisce a Togliatti di criticarlo, non tanto per la freddezza e l’assenza di «appassionamento» e fede politica, quanto per il «fatalismo storico» che innerva il suo storicismo e lo sospinge verso una concezione autoritaria dello Stato come potenza trascendente, «superiore ad ogni legge» (“Pagine sulla guerra” di Benedetto Croce, 7 giugno 1919, in Opere, cit., pp. 39-40).
Quanto a Gentile, il fatto che sia enfaticamente definito «il maestro più insigne e ascoltato della scuola filosofica italiana» e annoverato tra i «pensatori coraggiosi e conseguenti» non deve trarre in inganno. Le «riserve» che il «rivoluzionario» Togliatti (p. 40) avanza nei confronti di Croce valgono a ben guardare anche per il teorico della politicità integrale dell’esistenza individuale e per l’assertore dell’identità immediata tra la personalità dello Stato e quella dei cittadini, giacché il venir meno delle «distinzioni tra morale e politica» (il rovesciamento speculare, cioè, della posizione crociana) si risolve anche in Gentile nella consacrazione conservatrice «degli istituti attualmente esistenti» (“Guerra e fede” di Giovanni Gentile, 1° maggio 1919, in Opere, cit., p. 21). Dimodoché il rifiuto formale di attribuire allo Stato «una volontà soprindividuale» non è che la maschera di quel «naturalismo» che è poi il nucleo portante di «ogni conservatorismo più o meno larvato» (pp. 20-21).
Togliatti opera qui, com’è stato autorevolmente suggerito, una diretta «trasposizione» e «riconversione» delle motivazioni idealistiche «dal piano del liberalismo […] a quello della iniziativa e creatività rivoluzionaria»: una «ritorsione ideale classista» (Luporini 1973, pp. 1595-97) talmente accurata da metter capo al pieno superamento delle posizioni di partenza. Contro la posizione neoidealistica – autoritaria, conservatrice, incapace di «scorgere il valore di profondi moti di rinnovamento politico» che «investono della loro critica la base stessa» dei poteri costituiti (“Guerra e fede” di Giovanni Gentile, cit., p. 21) – fa intanto valere un insistito richiamo alla Rivoluzione d’ottobre: se Gentile «crede di sbrigars[i]» del «nome di Lenin» con l’imputargli una «soppressione dello Stato» puramente distruttiva, nondimeno «nella coscienza e nella volontà del proletariato è la forza che deve creare la realtà nuova», e «gli schemi dei nostri bravi professori» nulla possono «davanti a degli uomini in carne e ossa che stanno facendola, una rivoluzione» (Parole oneste sulla Russia, cit., pp. 22 e 25).
Quindi, per tornare alle radici filosofiche della prassi critica dei socialisti, Togliatti riscrive il rapporto tra Marx e Georg Wilhelm Friedrich Hegel in termini tali da rovesciare la logica astrattizzante della «riforma» neoidealistica della dialettica. Hegel è a suo giudizio colui che ha per primo affermato che la storia, con il suo ritmo «continuamente dialettico e rivoluzionario», è «progresso di libertà»: una «verità», questa, che «Carlo Marx […] traeva dall’Olimpo freddo e tranquillo della filosofia» per darle «una vita nuova tuffandola nell’onda calda e commossa delle dottrine e delle fedi di un rinnovamento sociale», per farla cioè operare nel vivo del conflitto sociale e politico, onde «non esitava a proclamare il proletariato erede della filosofia classica tedesca» (“Guerra e fede” di Giovanni Gentile, cit., p. 21; Per chiudere una polemica, 2 agosto 1919, in Opere, cit., p. 52). Per questo Marx può a buon diritto dirsi «figlio diretto di Hegel» e Vladimir I. Lenin può essere considerato l’interprete autentico della tesi hegeliana secondo cui «è un dovere dei filosofi quello di arrivare in ritardo» (Che cos’è il liberalismo?, 20-27 sett. 1919, in Opere, cit., p. 66; “Guerra e fede” di Giovanni Gentile, cit., p. 22).
Non potrebbe essere più netta la presa di distanza dalla lettura neoidealistica della dialettica, frutto di una concezione della storia geneticamente incapace di comprendere l’importanza dell’antitesi rivoluzionaria e la cesura epocale costituita dall’ottobre bolscevico. Il biennio rosso consacra l’approdo definitivo di questa evoluzione teorico-politica, come sembra attestare la contrapposizione che nell’estate del 1920 Togliatti istituisce tra il Lenin di Stato e rivoluzione – «massimo dei realizzatori» del «socialismo marxista» nella sua dimensione più autentica – e la teoria borghese dello Stato etico, la rappresentazione del quale come «suprema» tra «le idee morali», come «la moralità stessa resa concretamente visibile e storicamente viva», non è che un’ideologia volta a dissimulare il «tentativo continuo di una minoranza di mantenere la propria dittatura» (Stato e libertà, in Opere, cit., p. 175).
Negli anni successivi, sotto il peso della dittatura fascista, all’esplicita presa di distanza e alle attestazioni di estraneità subentra finalmente una sprezzante indifferenza. Schizzando un sarcastico Elogio del fascismo nel marzo 1923, Togliatti non esclude la presenza, nel proprio patrimonio ideale, di «qualche residuo di cultura filosofico-idealistica assorbita negli anni del vertiginoso leggere, se non del molto pensare» (in Opere, cit., p. 453). E poco dopo, attaccando duramente il Prezzolini «fallit[o] rinnovator[e]», approdato alle pagine del «superfascista» «Nuovo Paese», non manca di ricordare che, sotto l’insegna del «rinato idealismo filosofico», fu compiuto nei primi anni del secolo qualche pur effimero «tentativo di rinnovamento completo» della «cultura italiana contemporanea» (La «intelligenza» italiana, cit., pp. 490-92). Ma tali concessioni non compensano certo la damnatio memoriae cui Togliatti inclina a sottoporre l’intera costruzione neoidealistica, che all’occorrenza nomina per indicarvi un termine puramente negativo e il più delle volte passa semplicemente sotto silenzio, come quando la espunge in radice dalla genealogia teorica dell’«ideologia dell’“Ordine Nuovo”» (La nostra ideologia, 23 sett. 1925, in Opere, cit., p. 647).
La Torino del «biennio rosso» è l’epicentro del tumulto politico e intellettuale che scuote il Paese nel primo dopoguerra, tra i postumi sociali del conflitto e le convulsioni di una sempre più radicale lotta operaia. In questo contesto, reso «turbinoso» (Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, 26 marzo 1922, in SP, p. 281) anche dai recentissimi sconvolgimenti russi, ha luogo, all’indomani dell’occupazione delle fabbriche, l’inedita adesione di un giovane «rivoluzionario liberale» alla battaglia ingaggiata dalla componente comunista del movimento operaio torinese. Nel «grandioso movimento dei Consigli» di fabbrica il ventunenne Gobetti riconosce «uno dei più caratteristici fenomeni schiettamente autonomisti che siano sorti nell’Italia moderna», un’esperienza potenzialmente in grado di ridare vita al «movimento rivoluzionario del Risorgimento» conquistando lo «spirito delle masse popolari» (p. 289). Nell’«Ordine nuovo» – divenuto quotidiano del neonato Partito comunista d’Italia – egli individua «un giornale di pensiero, singolarissimo in Italia», «preoccupato di fondare una coscienza politica nuova»: «il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia mai apparso (con qualche serietà ideale) in Italia» (pp. 293 e 283).
Il rapporto con il «movimento comunista torinese», che Einaudi definisce maliziosamente d’«amore» (Piemonte liberale, 14 ottobre 1922, in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), 6° vol., 1921-1922, 1963, p. 894), lo lega, sul piano personale, al solo Gramsci che subito gli appare «l’uomo migliore» del gruppo ordinovista e «l’unità direttiva del giornale» (Gobetti a Prezzolini, 25 giugno 1920, in P. Gobetti, Carteggio 1918-1922, 2003, d’ora in avanti CG, pp. 120-21). Sulla «Rivoluzione liberale» del 2 aprile 1922 Gobetti definisce Gramsci un «formidabile polemista di argomenti sociali e letterari», dotato di «uno stile suo, feroce, incalzante, serenamente distruttore» (Storia dei comunisti torinesi, in SP, p. 282). Due anni dopo ne disegna un ritratto a dir poco ammirato (Uomini e idee [X], 22 apr. 1924, in SP, pp. 645-46) che Gramsci ricambierà in un commosso ricordo consegnato ai Temi della quistione meridionale (La costruzione del partito comunista 1923-1926, 1974, pp. 156-58).
Ma chi è Gobetti quando lega il suo nome all’esperienza del gruppo ordinovista? Appena iscritto all’università, nel novembre 1918, si è fatto subito conoscere fondando, con alcuni compagni, il «periodico studentesco» (quindicinale) «Energie nove», uscito, in due serie consecutive, dal novembre 1918 al febbraio 1920. È stato l’inizio di una febbrile attività giornalistica, che l’avrebbe portato a collaborare a decine di testate diverse (tra queste «l’Unità», «La Voce», «Conscientia», «Il Resto del carlino» e, appunto, «Ordine nuovo») e a crearne di proprie. «Energie nove» si situa nel fermento giovanile suscitato dalle riviste fiorentine: l’intento di «opporre una barriera all’Italia vecchiona, burocratica, accademica, giolittiana» (Gobetti alla redazione dell’«Azione studentesca», 2 febbr. 1919, in CG, p. 31) ne è appunto lo scopo dichiarato, in sintonia con lo spirito dei tempi.
Tra i riferimenti ispiratori, suggeriti da una fervida ambizione politica che avvicina Gobetti all’impegno dei giovani socialisti rivoluzionari della città, l’antipositivismo e il «neoidealismo»; l’antistatalismo anarchico e il socialismo; il «problemismo concretista» salveminiano e la critica liberista del protezionismo, anche agli occhi di Gramsci e di Togliatti iniquo e liberticida regime del privilegio posto a difesa delle posizioni dominanti: l’industria al Nord e gli agrari al Sud. Grande attenzione è riservata ai problemi della scuola, interpretati sotto l’influsso di Gentile e di Lombardo-Radice, dei quali Gobetti condivide l’idea di una riforma «aristocratica» che impone selezione e serietà per un effettivo innalzamento del livello culturale.
A proposito di neoidealismo, sul secondo numero di «Energie nove» Gobetti si scaglia contro la «gazzarra» nazionalista che attacca Croce: «stare col Croce vuol dire combattere le porcherie torbide di quegli italiani che disonorano l’Italia» (B. Croce e i pagliacci della cultura, 15-30 nov. 1918, in SP, p. 20). Croce gli appare il «genio della cultura nostra» ([Note III]. [I crociani], 1°-15 genn. 1919, in SP, p. 46); Gentile il suo ideale complemento, la sua integrazione indispensabile, che nel corso del 1919 sembra tuttavia prendere il sopravvento sull’altra, meno seducente, figura.
È vero, scrive Gobetti alla compagna Ada Prospero il 7 e il 10 agosto, Croce «è ancora punto più saldo per l’indagine filosofica di quel che non sia il Gentile»; «Gentile lascia un’infinità di problemi dubbi» (Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, 1991, d’ora in avanti NTBE, p. 89) e «non [lo] si può pensare senza Croce» (p. 97). Ma «è innegabile che dalla concezione dello Spirito come libera autocreazione, come soggetto che si pone e sente come oggetto», Gentile abbia «ricavato tutto un originale sistema»; e che
nell’atto puro si va[da]no ad identificare sensazioni, volontà, intelligenza che solo vedute esteriormente possono parer distinte e guardate invece nella loro intima natura sono concretezza spirituale sempre (p. 89).
Non sorprende il fatto che con Gentile Gobetti cerchi ben presto un contatto diretto. Già il 17 febbraio 1919 gli chiede di collaborare a un numero unico di «Energie nove» sul socialismo, con un articolo che dovrebbe «rappresentare il più sano pensiero nazionalista, che nella questione poi è semplicemente nazionale» (CG, p. 34), e che vorrebbe s’intitolasse Perché non sono socialista. L’articolo, che pure Gentile pare avesse annunciato (Gobetti a Gentile, 3 giugno 1919, p. 58), non uscirà. In compenso, Gobetti potrà pubblicare pagine gentiliane sul numero di ottobre, dedicato al «problema scolastico» (cfr. G. Gentile, La filosofia, «Energie nove», 31 ott. 1919, 9, pp. 184-87), dal quale sortirà, nel febbraio del 1920, l’iniziativa di fondare il «Fascio di educazione nazionale» come strumento per promuovere la riforma della scuola, nel cui comitato promotore Gobetti è insieme allo stesso Gentile.
Dal diario dell’estate 1919 si apprende che Gobetti studia la gentiliana Filosofia di Marx (P. Gobetti, L’editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, 1966, p. 48) che gli appare un libro «molto profondo», capace di dare «di Marx filosofo una veduta chiara» (NTBE, p. 121). E si scopre altresì che «entro dicembre» egli si ripromette di leggere «quello che» di Gentile «non conosc[e] ancora» (24 ag., L’editore ideale, cit., pp. 53-54). A distanza di un mese, il 29 settembre, dopo avere incontrato Gentile a Roma, Gobetti scrive alla fidanzata parole che non richiedono commenti: «C’è una chiarezza in quest’uomo, una limpidità cristallina. Non ha bisogno di ammirazione. Ti offre amicizia. Ispira fiducia e dà un senso di vera forza e grandezza» (NTBE, p. 186).
Altrettanto univoche – documenti dell’assoluta consonanza con la Stimmung attualistica – suonano le parole con cui Gobetti si congeda dal lettorato di «Energie nove» alla fine dell’anno. «Trovammo la nostra ragion d’essere», scrive, «in una ricerca ardente di una realtà spirituale più comprensiva e cosciente», e «nessuno potrà negare il nostro fervore di vita», «l’ardore e il lavoro» compiuto al fine di «raggiungere quel ritmo di vita idealistica che è coscienza realizzata in ogni istante» (Per il 1920, 20 dic. 1919, in SP, p. 178). Quindi, dichiarando un’ascendenza peraltro evidente, conclude: «la nostra spiritualità» dev’essere «essenzialmente atto creativo inesauribile e volontà di conquista»; «ogni atto nostro, libero e cosciente, diventa, nella nostra fede idealistica, un fattore della storia. Sicché il vero rinnovamento si fa senza posa nella nostra intimità stessa» (p. 179).
Ma poco dopo, nel febbraio del 1920, Gobetti decide di interrompere la pubblicazione della rivista. Avverte – dirà tre anni dopo in uno dei suoi articoli fondamentali, che a ragione presenterà come la «cronaca di una formazione spirituale» – un «bisogno di maggior raccoglimento» (I miei conti con l’idealismo attuale, 18 genn. 1923, in SP, pp. 441 e 445). Si avvia così un periodo di profondo ripiegamento interiore e di radicale ripensamento. Una fase tumultuosa e febbrile di lavoro massacrante, quattordici, sedici ore al giorno, che, nel giro di un anno o poco più, decide il crollo di molti idoli, a cominciare proprio dall’«idealismo attuale» gentiliano. Tutto è rimesso in questione, tutto reinterpretato e in parte soppiantato. I giudizi oscillano, si contraddicono, si fanno via via meno disinvolti. Nella primavera-estate Gobetti traduce autori della «filosofia dell’azione» cari all’attualismo (Maurice Blondel e Lucien Laberthonnière) e ancora in settembre scrive una prefazione al Realismo cristiano e l’idealismo greco (1922) che riecheggia i giudizi liquidatori di Gentile sul movimento modernista, ridotto a espressione di «una crisi meramente individuale», a «problema psicologico di poche anime tormentate dal dissidio tra filosofia e religione» (La filosofia di Laberthonnière, in Scritti storici, letterari e filosofici, 2° vol., 1969, d’ora in avanti SSLF, p. 671).
Ma rapidamente – mentre si assesta un atteggiamento che a più riprese Gobetti definisce «storico» (per es., Per il 1920, cit., p. 179), di presa di distanza e di verifica critica delle diverse posizioni; mentre, d’altra parte, si definisce l’originale fisionomia del «liberalismo rivoluzionario» gobettiano, sintesi «mitica» e paradossale, animata da una «inesorabile passione libertaria» (Revisione liberale (Postille), 19 giugno 1923, in SP, p. 515), di elitismo e anarcosindacalismo, socialismo e calvinismo, liberismo e intuizionismo bergsoniano – maturano anche nuovi giudizi e nuovi orientamenti. E si fa strada la consapevolezza della preponderante cifra retorica dell’attualismo, di pari passo con la crescente insofferenza nei confronti dei suoi seguaci, che, per il loro «stile (!) spaventoso», ora Gobetti trova «tremendamente seccanti e scimmieschi» (NTBE, pp. 255 e 342). In questo quadro si situano l’incontro e la collaborazione con la redazione dell’«Ordine nuovo», al quale Gobetti dirà di dovere niente meno che il determinarsi delle «linee» di una «elaborazione politica assolutamente nuova», nonché la propria «rinnovazione dell’esperienza salveminiana» (I miei conti con l’idealismo attuale, cit., p. 445).
Permangono tuttora, beninteso, tenaci risonanze gentiliane. Un fondamentale interesse «religioso» spinge Gobetti a privilegiare l’unità dello Spirito e a diffidare delle distinzioni; una non sempre sorvegliata intransigenza morale lo induce a considerare con favore la stessa idea dello Stato etico. E quando, il 10 febbraio 1921, la Società di cultura torinese, nel cui Consiglio Gobetti siede da un paio di mesi, decide di invitare Gentile per una conferenza, Gobetti gli tributa, proprio sull’«Ordine nuovo», il più fervido elogio, in un appassionato intervento di presentazione che più tardi riconoscerà almeno in apparenza «abbastanza compromettente», salvo giustificarlo come un gesto di «grossa propaganda» e di «réclame» (p. 446) nell’interesse della Società (Giovanni Gentile, in SSLF, pp. 677-78 e 681).
Ma, si trattasse o meno di réclame, comunque il ripensamento non tarda a dare i suoi frutti. Già il 26 marzo 1922 (Valutazioni marginali. Politica scolastica), sul numero 6 della «Rivoluzione liberale», Gobetti attacca in puro stile crociano la filosofia sottesa alla concezione gentiliana della scuola, che, «identificata […] con la Vita (Lombardo-Radice e Gentile)», risulta «senz’altro negata, ridotta nella sua consistenza empirica a subire le leggi del relativismo politico» (SP, p. 273). È un’accusa di naturalismo che ne maschera a malapena un’altra, infamante, di opportunismo e servilismo. Ma è naturalmente l’avvento del fascismo lo spartiacque, anche ai fini di un salto di qualità della riflessione gobettiana verso la piena maturazione. Si avverte immediatamente un cambio di tono e di prospettiva, la maggiore ponderazione che ispira l’elogio della «freddezza», il disprezzo per le inquietudini e i «facili ottimismi» (Per una società degli apoti [II], cit., p. 411), un più fondato senso di responsabilità, dettato dalla consapevolezza della gravità della situazione e della necessità di predisporre risposte concrete ed efficaci.
Tre giorni dopo la marcia su Roma Gobetti liquida i «sogni ingenui» della «Voce», ormai divenuti «segno di inquietudine malsana» (p. 411). Ai «profeti» gentiliani del Risorgimento italiano Vincenzo Gioberti e Giuseppe Mazzini dichiara di preferire Carlo Cattaneo e Marx (Cattaneo, 27 ag. 1922, in SP, p. 412). Non esita ad accusare di complicità con il nuovo tiranno l’intellettualità italiana, «classe bastarda», «delinquente» e parassitaria (Per una società degli apoti [II], cit., pp. 414-15). E proprio il «Gentile nazionalista» e il «gentilismo» Gobetti annovera tra i primi responsabili, scorgendo in essi «tutte le premesse per il perfetto dannunzianesimo» (p. 413), sinonimo ai suoi occhi di irrazionalismo e di violenza, avvisaglia e viatico alla reazione fascista. Tra il novembre del 1922 e il gennaio del 1923 vedono quindi la luce due articoli (Al nostro posto e I miei conti con l’idealismo attuale) che possono senz’altro considerarsi i testi chiave di una «resa dei conti» che non si saprebbe immaginare più netta.
Se fin qui Gobetti ha salvato il «Gentile uomo che è così simpatico, rude cattolico, intransigente, settario» (Cattaneo, cit., p. 413); se ancora sostiene di ammirarlo e di apprezzare «le qualità dell’uomo», nondimeno la rottura è insanabile e sancita senza reticenza. In poche righe, che sono un capolavoro di eloquente perfidia, Gentile è inchiodato alle proprie responsabilità.
Non da oggi noi pensiamo che Gentile appartenga all’“altra Italia”. All’ora della distinzione tra serietà e retorica ha voluto essere fedele a se stesso. Non saremo noi a pentircene. Da un pezzo pensiamo che la religione dell’attualismo sia una piccola setta che ha rinnegato tutta la serietà dell’insegnamento crociano (Al nostro posto, 2 nov. 1922, in SP, p. 419).
In una lettera aperta a Lombardo-Radice, che lo aveva accusato di aver cambiato idea sull’attualismo dopo la scelta di campo di Gentile in favore del fascismo, Gobetti riconosce che all’inizio della sua formazione «si può scorgere una certa indulgenza e quasi adesione […] alle dottrine gentiliane» (I miei conti con l’idealismo attuale, cit., p. 446), ma nega (poco importa quanto fondatamente) di esserne mai stato un seguace, non avendo mai chiesto ad alcun sistema «di salvar[lo] dal dubbio tragico del pensiero, di offrir[gli] soluzioni comode anche se fittizie, di dar[gli] le penne del pavone e la pace della pigrizia» (p. 444). Soprattutto, afferma la propria incondizionata avversione all’attualistica «metafisica dell’identità», nient’altro che una rimasticatura dell’idealismo spaventiano, ponendone in risalto, crocianamente, l’«incapacità di dar ragione di ogni fatto politico», il «semplicismo pratico», la «nessuna aderenza al reale», l’«incapacità», finalmente, «a spiegare i problemi di estetica e di morale» (pp. 446-47).
Da questo momento è un crescendo, e di nuovo appare rivelatore il giudizio sulla politica scolastica di Gentile, giudicata a quest’altezza francamente autoritaria e regressiva. Il «ministro della pubblica istruzione di Mussolini» (così in P. Gobetti, La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, 1924, in SP, p. 958) ha la «candida pretesa di ottenere la libertà della scuola da un governo dittatoriale» (Polemica scolastica, 10 apr. 1923, in SP, p. 479), e ciò si addice a una riforma «reazionaria più che fascista», che compensa il tratto sovversivo del fascismo con l’imporre «un abito lugubre, clericale, bigotto, un dottrinarismo saraceno» (Uomini e idee [IX]. Gentile usurpatore, 26 febbr. 1924, in SP, p. 615).
Quanto ai quadri ideologici generali, sulla «Rivoluzione liberale» Gobetti non si limita a marcare la distanza tra il proprio «liberalismo rivoluzionario» e l’attualismo, ma arriva a indicare proprio nel legame tra l’«idealismo attuale» e il fascismo «una delle ragioni per cui combattiamo Mussolini» (Le elezioni, 12 febbr. 1924, in SP, p. 589). Batte sulla «differenza tra Gentile dogmatico, autoritario, dittatore di provinciale infallibilità» e «ministro di anacronistico oscurantismo», e Croce, «capace di riflessione e di dubbio», assertore di «una chiara idea dello Stato, che è forza soltanto in quanto è consenso» (Croce oppositore. Croce politico, 6 settembre 1925, in SP, pp. 876-79). E, mentre «Il Baretti» (supplemento letterario fondato nel dicembre del 1924) si richiama esplicitamente alle posizioni crociane, facendo proprio il modello di intellettuale proposto, contro Gentile, dal «contromanifesto» antifascista (non un miliziano della cultura, bensì un uomo di scienza imparziale e disinteressato, au-dessus de la mêlée), l’editore Gobetti dà alle stampe un violento pamphlet di Adriano Tilgher (Lo spaccio del bestione trionfante, 1925) in cui l’attualismo è rappresentato come la «filosofia del manganello».
Certo non è casuale che, fin nell’introduzione alla Rivoluzione liberale, Gobetti ritenga «opportuno di chiarire la [propria] antitesi con le entusiastiche metafisiche dell’idealismo attuale, che i romantici della “Voce” e del movimento fascista accolsero col loro candido ottimismo» (in SP, p. 916). È lo spirito stesso della sua più avvertita battaglia politica, morale e intellettuale a schierarlo contro il liberalismo «dall’alto» di Gentile, erede dell’«astrattismo antiliberale» giobertiano, e contro un nazionalismo che, «enfatica palingenesi unitaria del semplicismo conservatore», ad altro ormai non si riduce, a suo giudizio, se non a un indecente episodio di «oratoria arcadica» (pp. 958 e 1024).
Per quanto riguarda il Gramsci maggiore, non può sussistere dubbio sulla sua radicale contrapposizione all’«idealismo attuale», nonostante si sia non di rado tentato di affermare l’ascendenza gentiliana della filosofia gramsciana della prassi nonché la sua obiettiva, «rimossa», connotazione attualistica.
Espressione – a giudizio di Gramsci – di un pensiero di una «rozzezza incondita»; ricettacolo di «astruserie» e «macchinosità» degne di un «vero e proprio “secentismo” letterario»; intessuto di «arguzie» e «banali sofismi» confutabili anche dalla «logica formale scolastica» (Quaderni del carcere, 1929-35, a cura di V. Gerratana, 1975, d’ora in avanti Q, pp. 1399 e 1370), l’attualismo è frequentemente posto, nei Quaderni, a confronto con l’idealismo crociano, al cospetto del quale risalta la sua sospetta astrattezza, indizio di una incoercibile vocazione opportunistica (naturalistica e apologetica).
Il linguaggio gentiliano è per Gramsci «volutamente equivoco per un poco pregevole opportunismo ideologico», volto a «creare un ambiente di cultura demi-monde, in cui tutti i gatti sono bigi» (pp. 1400-01) e ci si può ben barcamenare nella relazione con l’intero spettro dei poteri costituiti. A cominciare, naturalmente, dal potere statuale instaurato dal fascismo, che Gentile e i suoi allievi (raramente Gramsci polemizza con altrettanta asprezza come nei riguardi di Arnaldo Volpicelli e Ugo Spirito, i «due Aiaci dell’“attualismo”», «i Bouvard e Pécuchet della filosofia, della politica, dell’economia, del diritto, della scienza, ecc. ecc.») considerano incarnazione «dell’“ottimo stato”» (pp. 755-56). E difatti, «l’“unità nell’atto” dà la possibilità al Gentile di riconoscere come “storia” ciò che per il Croce è antistoria», di identificare senza mediazioni «egemonia e dittatura», «forza» e «consenso», «società politica» e «società civile», al fine di attribuire senz’altro piena razionalità alla «fase statale positiva» (p. 691).
Benché Gramsci affermi l’esigenza di sviluppare la critica a Gentile contestualmente a quella a Croce («Un Anti-Croce deve essere anche un Anti-Gentile»), è dunque netta la tesi secondo cui l’idealismo attuale costituisce un regresso rispetto al più concreto storicismo crociano, nel quale è pur sempre possibile trovare «tracce della filosofia della praxis» (p. 1234).
Ma un regresso la posizione neoidealistica nel suo insieme rappresenta soprattutto nei confronti di Hegel, la cui dialettica realistica e concreta è ridotta, nelle sue pretese «riforme», a una «pura dialettica concettuale» e «“formale”» (pp. 886 e 1370).
Avendo rovesciato il senso progressivo dell’operazione compiuta da Marx – che può effettivamente dirsi «riforma», «superamento» e «sviluppo dell’hegelismo», (pp. 1317 e 1487), per averne valorizzato il concreto realismo –, il «movimento da Hegel a Croce-Gentile» si è risolto in «un passo indietro», in «una riforma “reazionaria”» della dialettica (nella sua controriforma) poiché ha soltanto «reso più astratto Hegel», «taglia[ndone] via la parte più realistica, più storicistica» (p. 1317). Mentre nel sistema hegeliano «si riesce a comprendere cos’è la realtà», in quanto esso risulta dalla «coscienza delle contraddizioni» reali «da cui la società è lacerata» (p. 1487), ciò è invece precluso nei nuovi sistemi idealistici, e in particolare in quello costruito da Gentile sulla base della pretesa che «l’idea assoluta […] risolv[a] in sé veramente tutta la realtà», liberandosi «dall’empirico, dal contingente e dall’irrazionale» (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, 1913, 1954, pp. 229-30). E se la filosofia marxiana della prassi concepisce l’«atto storico concreto» come «“impuro”, reale nel senso più profano e mondano della parola», in quanto espressione dell’«attività umana […] connessa indissolubilmente a una certa “materia” organizzata (storicizzata)» (Q, p. 1492), la metafisica gentiliana dell’«atto puro» riesce invece a una sorta di pragmatismo volontaristico che retrocede alle spalle del realismo dialettico di Marx (e già di Hegel) con il risolvere integralmente l’essere nel divenire (postulandone cioè l’inconsistenza) o con l’identificarlo immediatamente con la materia «eterna e assoluta» (p. 1489).
La Risposta a Giovanni Gentile con cui Togliatti replica dai microfoni di Radio Milano libertà al Discorso agli Italiani tenuto dal filosofo in Campidoglio il 24 giugno 1943 è indubbiamente pesante, durissima, un crudo redde rationem. Soprattutto, l’appello gentiliano alla concordia, rivolto senza alcuna seria critica al fascismo agli italiani «che hanno un’Italia nel cuore» (Discorso agli Italiani, in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2° vol., 1991, p. 190) affinché unissero le proprie forze per la salvezza del Paese sull’orlo della sconfitta, è individuato e respinto come una irricevibile chiamata di correo per una generale, indiscriminata assoluzione. «Gentile è incorreggibile!»:
Tutta la sua abilità consiste nel dimostrare che quando si spegne la luce tutti i gatti sono grigi. E il suo metodo è sempre quello, sopprime i fatti, gli incontrovertibili fatti, cioè la realtà […]. No, no, signor filosofo. Tra il fascismo e la grande massa degli italiani passa lo stesso rapporto che tra il bastone e colui che è bastonato, tra colui che inganna e colui che è ingannato (Risposta a Giovanni Gentile, 26 giugno 1943, in P. Togliatti, Opere, 4° vol., t. 2, 1935-1944, 1979, p. 458).
È, indubbiamente, una requisitoria impietosa. Che va tuttavia contestualizzata, riportata allo scenario drammatico di un’Italia da oltre tre anni sconvolta da una guerra feroce nella quale era stata trascinata dal regime cui Gentile ancora testimoniava fedeltà, dal suo capo che ancora Gentile considerava indiscutibile punto di riferimento. Ben presto, nel dopoguerra, questi toni cedono il passo a valutazioni certo severe ma più pacate, meno estreme e violente. A più riprese negli anni Cinquanta Togliatti torna sulle vicende della propria formazione nel quadro di una riflessione organica sull’esperienza storica del PCI. A questo proposito nel 1951, in un primo «schema» di analisi, non esita a imputare a «tutto il personale dirigente della società italiana, dai filosofi Gentile e Croce allo statista Giolitti», la colpa di avere favorito l’avvento del fascismo al fine di escludere «qualsiasi possibilità di avanzata democratica e sociale» (Appunti e schema per una storia del Partito comunista italiano, in La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, 2014, d’ora in avanti PPA, p. 1574). Tuttavia, presto i ruoli dei due padri del «neoidealismo» si distinguono, ed emerge con forza la ben più grave responsabilità di Gentile.
A Croce Togliatti rimprovera di avere dato respiro, con la sua «rivoluzione» antipositivistica, a «correnti ideali e pratiche tutt’altro che rivoluzionarie» e persino a «un mucchio di birbe», ma «l’influenza del Gentile» gli appare «assai più profonda», e non soltanto «nel campo del pensare», dove essa finiva «in una tautologia, ma seguiva una logica almeno in apparenza inconfutabile» (Appunti per un saggio su Croce, 1952-1953, in PPA, pp. 1332-34). In realtà, la colpa capitale di Gentile – colpa intellettuale e morale, quindi essenzialmente politica – consistette nell’avere elaborato un «verbalismo filosofico» nel quale «scompaiono anche le tracce di una preoccupazione e ricerca della effettiva realtà della vita sociale» (Per una giusta comprensione del pensiero di Antonio Labriola, 1954, in PPA, p. 1341). Più influente Gentile fu proprio in quanto implacabile consequentiarius, come si gloriava di essere (cfr. G. Gentile, La filosofia di Marx. Studj critici, 1899, 1962, p. 47), prigioniero di un sistema di pensiero che, negando la realtà, «educò» intere generazioni, e si può dire quasi un intero Paese, all’arbitrio, alla violenza demiurgica, all’evasione dalle responsabilità. È quanto emerge con chiarezza nell’ultimo scritto togliattiano che esplicitamente dà rilievo alla figura di Gentile e che può quindi essere considerato l’approdo di un confronto quarantennale.
Recensendo su «Rinascita», nel giugno del 1955, le Cronache di filosofia italiana (1955) di Eugenio Garin, Togliatti si sofferma sul capitolo 9° “Polemiche sull’attualismo” e ne riprende un argomento cruciale, a proposito dell’«incontro tra fascismo e gentilianesimo». La tesi gariniana (secondo cui tale convergenza si verificò in virtù dell’«incoraggiamento» che l’attualismo dava «alla semplificazione “ideale” di ogni rapporto e di ogni problema», alla facile illusione di scambiare per reale «una soluzione “pensata” e, soprattutto, “parlata”») lo trova concorde, essendo anche a suo giudizio tipico dell’attualismo «distrugge[re] qualsiasi momento di pensiero realistico» e, su questa base, sviluppare un’idea dell’onnipotenza demiurgica del soggetto che offre a «demagoghi e demiurghi» il destro di proclamare agevolmente «la “creazione” di un mondo nuovo» (“Cronache di filosofia italiana”, in P. Togliatti, Opere, 5° vol., 1944-1955, 1984, pp. 926-27; cfr. Garin 1955, 1966, p. 381). Che nella «filosofia di Giovanni Gentile» il «momento retorico» prevalga in una continua «confusione fra opere e parole»; che «il movimento storico sfum[i], quindi, nelle astrazioni» di uno pseudo-storicismo capace di «bistrattare la storia per farle dire ciò che mai non ha detto e non può dire» (onde Gentile appare nient’altro che «una caricatura» del Johann Gottlieb Fichte delle Reden an die deutsche Nation, 1808), tutto ciò non costituisce soltanto una regressione teorica rispetto alle conquiste del pensiero razionale, ma anche un gesto «moralmente riprovevole», gravido di conseguenze politiche, onde «non la politica soltanto doveva essere respinta, ma la filosofia, e nei suoi punti di partenza» (Opere, 5° vol., cit., pp. 927-28).
Su Gentile in termini espliciti Togliatti non si fermerà più. Ma c’è una pagina del suo ultimo anno di vita, il 1964, che merita in chiusura la maggiore attenzione, e per la sua ricchezza e per la sapienza retorica che la connota. Si tratta di un’altra recensione, dedicata questa volta all’antologia einaudiana dell’«Ordine nuovo» curata da Paolo Spriano. «Rileggendo» quelle antiche pagine, il segretario del PCI mette dapprima sinteticamente a fuoco il rapporto tra il gruppo ordinovista e «le correnti ideali dei precedenti decenni» che ne avevano costituito una fonte, allude alle «scorie di cui dovevamo liberarci» e riconosce all’«idealismo crociano» una funzione decisiva nella promozione dei «nuovi indirizzi culturali che si erano affermati in modo vigoroso, alla svolta del secolo» e, per quanto concerne in particolare «noi dell’“Ordine Nuovo”», nella «liberazione definitiva da ogni incrostazione metafisica e meccanicistica», quindi «nella conquista di una grande fiducia nello sviluppo della coscienza e volontà degli uomini e di noi stessi, come parte di un grande movimento storico rinnovatore di classe» (Rileggendo «L’Ordine Nuovo», in PPA, p. 1176).
Su Gentile non una parola, quasi non fosse nemmeno esistito. Ma nella successiva autocritica concernente i limiti dell’«arrovesciamento della concezione idealistica» – essenziale, per un verso, per comprendere le posizioni ideali del gruppo ordinovista; insufficiente, per l’altro, perché tale da risolversi in larga misura nella «culturalistica», cioè idealistica, «affermazione ed esaltazione della coscienza e volontà di una nuova classe» (p. 1177) – è come se la sua figura si materializzasse all’improvviso, evocata per uno scrupolo di obiettività seppur lasciata per ovvie ragioni nell’implicito. Quell’«arrovesciamento» (lemma labrioliano, cfr., per es., Discorrendo di socialismo e di filosofia, IV lettera, in Id., Scritti filosofici e politici, 1973, p. 702, la cui insistita ripresa intende forse avvalorare la tesi senz’altro tendenziosa secondo cui «i redattori dell’“Ordine Nuovo” […] faceva[no] salvo soltanto» l’autore della Dilucidazione) si compiva ancora, prosegue Togliatti,
secondo il metodo di quei sistemi filosofici che ci avevano rimesso nelle mani l’opera di Hegel e dai quali soprattutto attingevamo la concezione nuova della storia come specifico culmine dell’attività umana (Rileggendo «L’Ordine Nuovo», cit., pp. 1176-77).
Difficile non pensare anche a Gentile e alla sua pur opinabile opera di rinnovazione dell’eredità hegeliana. E non scorgere in queste righe finalmente il sereno riconoscimento di una remota «derivazione» (p. 1176).
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