VARANO, Gentile II da.
– Secondo di questo nome, figlio di Berardo I, nacque probabilmente attorno al 1280. Nome e casato della madre sono ignoti; l’erudizione secentesca, ricostruendo una genealogia ‘fantastica’ dei da Varano, fa riferimento a una Emma.
Sin dall’epoca comunale i da Varano controllarono la rocca omonima; appartennero sempre (nonostante la storiografia moderna abbia loro attribuito origini feudali) all’aristocrazia urbana di Camerino, non senza legami nel sistema aristocratico guelfo dell’Italia centrale. Diversi esponenti dei da Varano compaiono, ripetutamente, negli organi di governo comunale di Camerino nella seconda metà del Duecento, in ruoli importanti: si tratta di giudici, membri del consiglio cittadino, podestà, capitani della città o capitani di guerra, rappresentanti diplomatici. In particolare, Berardo padre di Gentile fu podestà di Firenze nel 1296, e fu più tardi il primo testimone citato («nobilis vir dominus Berardus») nell’accordo stretto nel 1321, contro Macerata, tra Fermo e Camerino. L’anno precedente (1320) Gozzo, fratello di Gentile, era stato capitano dell’esercito papale nel quadro dei violenti scontri fra guelfi e ghibellini.
Sulle orme del padre, fra le prime testimonianze dell’attività politica di Gentile c’è la podesteria a Firenze, nel 1312; in tale anno egli guidò l’esercito fiorentino alla vittoria contro i pisani a Cerretello. Fu poi podestà di Macerata nel 1317, di Matelica nel 1323, di San Ginesio dal 1324 al 1341 (tranne tre anni), e ancora di Esanatoglia nel 1328. Nel 1324, il Comune di Camerino affidò al miles Gentile l’incarico di soffocare la sommossa ghibellina che si stava sviluppando a San Severino. Tra 1330 e 1332 fu retribuito come generalis capitaneus del papa (Giovanni XXII) nella Marca d’Ancona. Già attorno al 1324 era succeduto al padre (allora scomparso) come capo della casata, ma, nel corso del decennio, si associò con il cugino germano Giovanni (figlio di Rodolfo, fratello di Berardo I) nello schieramento filopapale contro le città ghibelline della provincia.
Nei verbali del processo di canonizzazione di Nicola da Tolentino (ove Gentile testimoniò) è menzionato come «magnificus et potens miles dominus Gentilis natus quondam nobilis militis domini Berardo de Varano civis Camerinensis» (Il processo per la canonizzazione..., a cura di N. Occhioni, 1984, p. 313). Dei trecentosessantacinque testimoni, solo tre (fra i quali il cugino Giovanni) sono gratificati dell’aggettivo magnificus, significativo di un rango sociale particolarmente elevato e di una preminenza nella rete di relazione familiare e clientelare, che in quel decennio Gentile venne consolidando.
Negli stessi anni Venti Gentile consolidò diritti e luoghi forti nel contado di Camerino. Nel 1327 acquistò la rocca di Santa Lucia, in suo possesso ancora nel 1350, quando redasse il suo testamento (v. infra), che fotografa il suo patrimonio: case, torri, molini, beni fondiari, diritti e giurisdizioni in molti castra e ville del territorio camerte – Campolarzo, San Ginesio, Visso, Caldarola, Bolognola, Lanciano, Ajello, Faverio – e non solo, ma anche a Nocera e Perugia.
Non è possibile al riguardo rintracciare le linee di un progetto di costruzione ‘territoriale’ della signoria, su uno spazio ampio. Si tratta piuttosto delle sparse testimonianze dell’affermazione di un gruppo familiare e del suo capo, della definizione di un rapporto di superiorità che garantì a Gentile una posizione di vertice e di forza, sia nei confronti delle élites urbane sia del potere papale. In alcune comunità, in particolare, da Varano esercitò, in prima persona o attraverso qualche familiare, un quasi monopolio della carica podestarile. A San Ginesio ad esempio (di cui il padre Berardo, già civis dal 1305, era stato podestà nel 1306, 1314 e 1320), Gentile si accaparrò la carica in modo quasi continuo, per quasi vent’anni. Lo stesso controllo lo esercitò a Camporotondo sul Fiastrone (ove fu podestà nel 1323 e nel 1339).
In modo non inaspettato, i rapporti con il papato furono sin da allora (come già era occorso con Berardo I e Gozzo, ribelli e poi assolti, con restituzione dei beni, nel 1323) alterni, caratterizzati per un verso da incarichi politici e militari ben retribuiti e per altro verso da scontri legati al controllo di terre e castra della Marca. Le tensioni furono forti in particolare negli anni Quaranta. Nell’inchiesta ordinata da Benedetto XII sulla Marca di Ancona (1341), Gentile e suo cugino Giovanni furono più volte accusati come ‘tiranni’ da parte dei loro avversari non camerti (specie di Macerata). Le accuse riguardarono in particolare l’illegittimo dominio di Camerino e distretto, di San Ginesio, di Sernano; ma con il sostegno del vescovo e del clero (chiamati anch’essi a testimoniare), i due da Varano ritorsero le accuse contro i rivali riaffermando la fedeltà – loro e della città tutta – alla Chiesa romana. Tuttavia nel 1343 Gentile fu citato di fronte al papa con i nipoti, i fratelli Rodolfo e Giovanni, per aver invaso e devastato i castra di Tolentino e San Ginesio con l’aiuto di Smeduccio Smeducci di San Severino. La posizione di Gentile fu aggravata dal sostegno che, si diceva, egli assicurava ai fraticelli nella regione, e il procedimento portò alla minaccia di scomunica. Gentile dovette trattare per evitare una condanna che avrebbe coinvolto anche la città e gli altri da Varano. Fece allora atto di sottomissione e, nel 1346, rinnovò il suo sostegno alla Chiesa romana e al suo rappresentante locale, impegnandosi a combinare il matrimonio tra uno dei suoi pronipoti con una nipote di Giovanni de Riparia, rettore della Marca d’Ancona; la citazione fu dunque sospesa, e le sanzioni tolte.
Questi attacchi contro Gentile e i suoi confermano la robustezza delle opposizioni alle sue pretese egemoniche su Camerino e il suo territorio. Egli condizionava la vita politica della città, giocando de facto, grazie ai suoi possessi, ai suoi castelli e alla rete delle sue clientele, un ruolo decisivo nella difesa militare così della città come della Marca tutta. Lo sostenevano sia le famiglie signorili della regione, alla quale si era alleato, sia la rete degli appoggi esterni che si era procurato grazie alle cariche di podestà e di capitano di guerra, che aveva ricoperto in varie città, in particolare nell’ambito guelfo. Nel 1354, ad esempio, con Malatesta da Rimini e Stefano Smeducci, chiese il sostegno di Firenze contro la compagnia di mercenari che minacciava la Marca, ottenendo la promessa di un aiuto. Questo risultato, a vantaggio di Camerino, derivò certo dalla lunga attività e dall’esperienza di carattere politico-diplomatico e militare messa in campo da Gentile, ma va inquadrato anche più ampiamente nel contesto dei rapporti fra la città marchigiana e Firenze degli anni Quaranta e Cinquanta, concretizzatisi in un proficuo scambio di personale amministrativo (nel 1341, Camerino fu richiesta di inviare a Firenze specialisti in grado di revisionare l’estimo).
Va aggiunto che Gentile era rimasto estraneo alle istituzioni del comune di Popolo, che il papato considerava in Camerino il solo interlocutore legittimo sul piano istituzionale, come si vide nel 1346 e 1349 quando Clemente VI inviò i propri emissari in loco, raccomandandoli ai poteri locali. In quegli anni (1345) il comune completò del resto la compilazione del Libro rosso, una summa dei privilegi che sin dal Duecento sostanziavano la sua autonomia giurisdizionale e politica (in particolare la designazione dei capitani delle Arti, dei consiglieri, del podestà della città o dei podestà del contado), senza rinunciare alle proprie prerogative e alla collegialità.
Gentile II morì nel 1355, cinque anni dopo aver fatto testamento.
Queste sue ultime volontà illustrano con chiarezza due aspetti importanti dell’attività di Gentile II in quanto dominus.
Il primo è la sua egemonica presenza nelle chiese di Camerino e del circondario. Scelse come luogo di sepoltura la cattedrale di S. Maria, ove il padre aveva fatto costruire una cappella dedicata a s. Giovanni Battista (indulgenziata – così come la ecclesia matrix – sin dal 1321, certo grazie alla mediazione di Berardo Accorombi, vescovo dal 1310 al 1327 e imparentato con i da Varano). Gentile inoltre esercitò diritti su diverse chiese e monasteri della diocesi; lasciò al nipote Rodolfo II il giuspatronato sulla chiesa di Cessapalombo (castrum ove possedeva molti beni) e collettivamente ai nipoti i diritti sulla pieve di Favera (che proibì di cedere a stranieri; si trattava della scelta di un pievano in grado di decidere in materia di giurisdizione civile e penale, spirituale e temporale, su chierici e laici di parecchi castra).
Il secondo aspetto illuminato a dovere dal testamento è la precisa volontà di mantenere una dimensione collettiva alla sua eredità, affidata ai quattro nipoti, figli di Berardo (II) ed eredi principali. Gentile ordinò che restassero indivisi molti beni fondiari e molti diritti in città e nel territorio, e anche a Perugia, lasciati ai quattro nipotes. Inoltre larga parte della consorteria da Varano risiedette nel complesso residenziale di proprietà di Gentile, sulla piazza della cattedrale, a Camerino; fu suddiviso fra tre dei quattro eredi, ma la coesione della domus (l’edificio che continuava a ospitare altri membri della famiglia, tra cui la vedova Gentilesca) fu mantenuta grazie alla proprietà indivisa di alcuni spazi e stanze. Si manifestava così la solidarietà di lignaggio, uno dei capisaldi della dominazione dei da Varano che doveva essere esercitata communiter.
In epoca imprecisata, ma in età giovanile, Gentile aveva sposato Gentilesca (di cui la famiglia non è conosciuta); il figlio Berardo (II) morì precocemente (1341). Lasciò però diversi altri figli: oltre a Rodolfo (II), Giovanni (detto Spaccalferro), Venanzio e Gentile (III).
Gentile si appoggiò su figli e nipoti per esercitare il ruolo di capo della casata: fece della sua linea agnatizia il ramo dominante, in una parentela assai estesa. Così facendo, accentuò un riorientamento decisivo nell’esercizio del potere, favorendo i discendenti diretti a danno di fratelli e cugini, mentre in precedenza la dominazione dei da Varano si era fondata maggiormente su un largo coinvolgimento di parenti prossimi. Anche le scelte onomastiche, con l’adozione di un insieme onomastico molto ristretto e la presenza ripetuta di pochi prenomi maschili per parecchie generazioni, testimoniano questo orientamento.
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