Gentile, Heidegger, la tecnica
Le filosofie di Giovanni Gentile e di Martin Heidegger riposano, apparentemente, su presupposti persino incomparabili. Laddove Gentile recupera l’istanza trascendentale propria del criticismo, tentando per suo mezzo di rivitalizzare la dialettica hegeliana, Heidegger prova a uscire dalla metafisica proprio affrancandosi dall’impostazione soggettivistica del neokantismo e rifiutando gli esiti più idealistici cui perviene la fenomenologia.
I contesti filosofici nei quali i due filosofi si muovono, poi, sono del tutto diversi e diversamente connotati. Entrambi, del resto, edificano le loro filosofie nel segno di un aureo isolamento: Gentile perché convinto di rappresentare, con il suo idealismo attuale, il vertice del movimento della filosofia moderna e perciò disinteressato ai più recenti sviluppi della filosofia continentale; Heidegger perché a sua volta diffidente (per non dire addirittura sprezzante) nei confronti della filosofia italiana, erede di quella tradizione latina nella quale si consumava ai suoi occhi una tappa importante del fraintendimento del pensiero greco delle origini.
Tanto nell’uno quanto nell’altro, però, la scintilla che infiamma il ‘bisogno della filosofia’ scoccava da una protesta contro il formalismo, contro l’irretimento della vita nelle gabbie dell’astrazione, contro l’intellettualismo.
Non si tratta allora di partire da quella scintilla comune e di seguire gli incendi che divampano dal suo brillare soltanto per gettare luce su quell’humus critico comune del quale le filosofie di Gentile e di Heidegger si nutrono; vale piuttosto la pena, sul piano storiografico, di individuare il complesso dei fattori comuni alle due posizioni e di indicare eventuali influenze reciproche per poi sviluppare, sul terreno più strettamente teorico, un confronto sistematico fra taluni elementi portanti dell’attualismo e la Seinsphilosophie (concentrandoci in particolare sull’effettiva rilevanza del soggetto, sulla concezione del tempo storico, l’idea di progresso, il giudizio sulla modernità).
Gentile e Heidegger si incontrarono nell’aprile del 1936 a Roma, dove il filosofo tedesco era stato invitato dall’Istituto di studi germanici per tenere una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia. Conferenza che fu una «successione di banalità» e di «quattro luoghi comuni», secondo Carlo Antoni (lettera a Benedetto Croce del 25 maggio 1951, cit. in G. Sasso, Il carteggio Croce-Antoni, «La Cultura», 1996, 1, p. 17), che tradusse il testo in italiano per la rivista «Studi germanici» (1937, 1, pp. 5-20) e che fu presente all’evento in veste di mediatore linguistico tra Gentile e Heidegger. Rifletteva il giudizio di Antoni un sentire comune a tutto l’ambiente italiano e gentiliano? Di certo Heidegger toccava nella sua conferenza temi (il rapporto tra arte e poesia; il rapporto, più generale, esistente tra arte e filosofia) cari a Gentile, che aveva pubblicato nel 1931 la sua Filosofia dell’arte. E l’incontro tra i due si collocava sullo sfondo di un momento ‘epocale’: Italia e Germania rinsaldavano il loro legame non solo politico, ma, sulla base di quello, anche culturale, e Gentile e Heidegger condividevano, se non altro, il fatto di avere messo le loro filosofie al servizio della politica di regime.
Quanto Gentile e Heidegger, che si conobbero dunque a Roma, si conoscevano davvero? Fu quell’incontro soltanto occasionale e isolato, un formale scambio tra due personalità che erano all’oscuro delle rispettive filosofie, o aveva effettiva contezza ciascuno di loro del pensiero dell’altro? Se sì, essa fu tale da generare reciproco apprezzamento ed esplicita influenza oppure si costruirono, l’attualismo e la Seinsphilosophie, paralleli e privi di mutue contaminazioni?
Nelle vastissime produzioni dei due filosofi non si trova mai il nome dell’altro. Dal punto di vista delle evidenze testuali, dunque, nessun riscontro. Quantomeno diretto, chiaro, esplicito. Per la verità, Heidegger parla brevemente, in un testo che riproduce un seminario del 1941 su Schelling, di un «Aktualismus» che, concependo il futuro come un «presente prolungato», si disporrebbe in radicale opposizione allo «Historismus», che è invece tutto orientato a «richiamare il passato e spiegarlo con il trapassato» (M. Heidegger, Die Metaphysik des deutschen Idealismus, hrsg. G. Seubold, 1991, p. 10). Sta parlando, Heidegger, dell’attualismo italiano di Gentile? Difficile dirlo. Se sì, perché nessun cenno esplicito?
Mentre appare quantomeno ardito (se non del tutto arbitrario) dedurre da questi pochi cenni una «frequentazione certa dei testi gentiliani» da parte di Heidegger (C. Alunni, Giovanni Gentile ou l’interminable traduction d’une politique de la pensée, «Lignes», 1988, 3, p. 184), o addirittura che Heidegger avesse una «conoscenza delle più precise» dell’attualismo di Gentile (Alunni 1988, p. 9), non è soltanto sulla base della penuria – anzi, dalla totale mancanza – di riferimenti testuali che, invece, sembra più verosimile l’ipotesi di quanti hanno sostenuto la tesi di una reciproca ignoranza (Sasso 1995): essa pare confermata, se torniamo all’incontro romano, dai racconti e dalle testimonianze dei presenti.
Fu proprio Antoni a riferire dell’imbarazzo che ritenne di scorgere negli atteggiamenti dei due filosofi quando essi si incontrarono, quasi fossero costretti a nascondere di non essere l’uno al corrente del pensiero dell’altro (Sasso 1995, p. 384). Del resto, anche dopo quell’incontro Gentile non farà mai riferimento alla conferenza di Heidegger, né questi, quando ricordò le sue giornate romane, menzionò Gentile; l’unico effettivo riscontro è un formale biglietto nel quale Heidegger, «con i sensi della più profonda considerazione», ringrazia il collega italiano «per la sua gentilissima accoglienza a Roma» e formula «tutti i migliori auguri per la felice realizzazione della sua grande opera» (cit. in Trincia 1996, p. 259), tanto che quell’incontro è apparso come «un qualsiasi episodio, un estrinseco, inutile e banale episodio, delle così dette relazioni che si stabiliscono tra i dotti» (Sasso 1995, p. 393). A ciò si aggiunga che alla proposta di Armando Carlini di approfittare della venuta di Heidegger in Italia per organizzare una sua conferenza anche a Pisa, Gentile oppose un rifiuto, accampando le più svariate motivazioni di carattere organizzativo (carteggio fra Carlini e Gentile, estate 1935-inverno 1936, cit. in Sasso 1995, pp. 394-96).
Tuttavia, queste evenienze non possono fornire una risposta definitiva ai quesiti posti all’inizio. Meglio: se, da quanto detto, appare inoppugnabile – a meno di non essere smentiti da future scoperte testuali – l’assenza di riscontri diretti nei quali Gentile o Heidegger si chiamino in causa reciprocamente, resta aperta la domanda circa l’effettiva conoscenza e il giudizio che ognuno dei due aveva dell’altro. La difficoltà di giungere a una risposta certa è, del resto, determinata dalla cosa stessa: non essendovi parole definitive di nessuno dei due protagonisti della vicenda, ma solo testimonianze di terzi, verosimilmente attendibili ma non comprovate da alcuna fonte testuale, qualsiasi ipotesi (totale ignoranza delle rispettive filosofie; conoscenza ma rifiuto del pensiero dell’altro; esistenza di un influsso taciuto) resta aperta. E la questione, lungi dall’essere risolta, va invece complicata considerando che sarebbe lecito domandarsi se, nel flusso di informazioni e di scambi che interessano la Germania e l’Italia nel quindicennio (poco più) compreso tra la fine degli anni Venti (quando Heidegger conquista la notorietà con la pubblicazione di Sein und Zeit, 1927) e il 1944 (anno della morte di Gentile), non vi sia stato un reciproco condizionamento indiretto ma storicamente verificabile, ovvero un influsso dell’uno sull’altro mediante successive mediazioni.
Quest’ultima ipotesi pare non del tutto peregrina se si tiene in considerazione il fatto che significative sintonie tra Gentile e Heidegger individuò già Croce, quando definì quest’ultimo «un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa pasta morale» e il suo linguaggio come un «filosofare vacuo, attualistico» (lettera a Adolfo Omodeo, 10 agosto 1933, in Carteggio Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, 1978, pp. 69-70), tanto che «bisognerebbe fargli conoscere il precursore che ha avuto in Italia nel Gentile» (lettera a Karl Vossler, 10 ag. 1933, in Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1991, p. 358). Dottrine «viziose nella loro stessa radice», ribadirà Croce nel 1940, «ultime e stanche derivazioni della parte deteriore dell’idealismo del principio dell’ottocento», attualismo e heideggerismo erano a suo giudizio uniti dal fatto di conservare una «forte impronta teologica» e di disperdere l’oggetto «in un’unità ora trascendente ora mistica», oggetto che, «non disciolto, persisteva, pronto a tornare a galla». Ecco così il senso della «vacuità» di entrambe quelle filosofie, incapaci di operare una seria distinzione tra le forme dello spirito, con il che il fragile soggettivismo di cui erano state propugnatrici lasciava del tutto «indigerita» la «“natura”» che era stata a forza «ingoiata»: così «il vecchio Dio se ne stava in agguato», riesplodendo nelle loro forme misticheggianti che, peraltro, ebbero pure «deplorevoli manifestazioni, come tutti sanno, nelle parole e nei gesti dei più noti loro rappresentanti quando si sono levati a fare i consiglieri e gli educatori dei loro popoli» (B. Croce, recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, «La Critica», 1940, 27, p. 40).
Ma, si potrebbe obiettare, si tratta di prossimità esteriori, forse casuali, non riconducibili a influenze storicamente accertate – sempre che siano teoricamente perspicue. Diversamente stanno le cose se si considera la vicenda di Ernesto Grassi; questi, infatti, tentò sia di far conoscere la filosofia heideggeriana in Italia con alcuni suoi lavori pubblicati proprio sul «Giornale critico della filosofia italiana» di Gentile sia, per converso, di introdurre l’attualismo presso Heidegger, al quale aveva fatto pervenire, «dietro richiesta», una copia della gentiliana Teoria generale dello spirito come atto puro, essendosi il filosofo tedesco mostrato, almeno secondo l’impressione che ne ricavò Grassi, «vivamente interessato al suo pensiero in seguito a simpaticissime conversazioni avute con lui sulla filosofia italiana» (lettera di Grassi a Gentile, 27 luglio 1928, cit. in Sasso 1995, p. 385).
Nel tentativo di operare una mediazione tra attualismo e Seinsphilosophie, Grassi sosterrà che l’«originaria attualità esistenziale» dell’«esserci» si approssima significativamente all’«inveramento della logica astratta nella logica concreta» di matrice gentiliana (E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, «Giornale critico della filosofia italiana», 1930, 11, p. 313); e infatti il Dasein di Heidegger va a suo giudizio inteso come «attualità concreta dell’essere», «originale attualità», «processo di autorealizzazione», «assoluta autodeterminazione trascendentale», «processo di distinzione in atto» (p. 295).
Quando, poi, sottopone ad analisi la critica heideggeriana della problematizzazione hegeliana del negativo – a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che pure vede l’identità di Essere e Nulla, Heidegger obietta che essa non ha natura logica né deriva dalla negazione, essendo invece l’originaria condizione dalla quale l’Essere scaturisce, scorta nella condizione emotiva dell’angoscia (Was ist Metaphysik?, 1929; trad. it. Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, 2002, pp. 59-78) –, Grassi ritiene di poter rilevare che, in buona sostanza, l’attualismo ha già risolto questo problema, in quanto la critica di Heidegger è valida soltanto per la «logica del pensato», e non invece anche per quella del pensiero pensante, del quale il nulla è «un momento essenziale» (E. Grassi, Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, «Giornale critico della filosofia italiana», 1937, 18, p. 330).
Tutto ciò, lungi dal costituire una restaurazione di Hegel contro Heidegger o una «negazione della sua interpretazione dell’angoscia esistenziale» (p. 332), vuol essere piuttosto, dal punto di vista di Grassi, la constatazione del fatto che il superamento del logo astratto operato da Gentile ha già risolto l’insufficienza della posizione hegeliana in una guisa che resta insuperata, e alla quale lo stesso Heidegger si avvicina, la sua critica a Hegel «non sorpassa[ndo] il più profondo senso dell’attualismo» (p. 333) e, anzi, «invera[ndolo] nelle sue più profonde radici» (p. 334).
Il tentativo di Grassi non ebbe successo né presso Heidegger, che non avrebbe potuto condividere questa sussunzione del suo pensiero all’attualismo, né tantomeno presso Gentile, dal quale Grassi non ricevette alcun riscontro. Inoltre quando Guido Calogero (allievo di Gentile) recensì molto criticamente il lavoro grassiano del 1932 Il problema della metafisica platonica, rilevava che i suoi limiti erano da attribuirsi precisamente al fatto che Grassi aveva subito «troppo l’influsso» del «quasi patologico» ambiente tedesco, nel quale aveva appreso
dal suo maestro Heidegger, cui ha dedicato il libro, a solliciter doucement les textes in servigio delle proprie costruzioni speculative, allo stesso modo che ne ha, in certa misura, appreso lo stile (G. Calogero, Platone fra soggettivismo e oggettivismo?, 1932, in Id., Scritti minori di filosofia antica, 1984, pp. 347-48).
Da parte sua Gentile, ringraziando Calogero per la «recensione del volume di Grassi», gli scrive che quello «si merita questa lezione. E speriamo gli giovi; perché un po’ presuntuoso è. Altrimenti, dopo gli avvertimenti datigli non avrebbe messo fuori questo aborto» (lettera del 29 luglio 1932, in G. Gentile-G. Calogero, Carteggio. 1926-1942, a cura di C. Farnetti, 1998, p. 43).
Un aborto il libro di Grassi era, dal punto di vista di Gentile e di Calogero, perché vi si trovava sostenuta la tesi – del tutto contrastante all’interpretazione attualistica della filosofia antica come oggettivismo (si veda, per es., G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, 6a ed. riveduta 1959, d’ora in poi: TgS, pp. 6, 49-50) – secondo cui già la dialettica platonica si sarebbe atteggiata, in ragione dell’esito aporetico dell’interrogazione dialogica, in senso anti-oggettivistico (E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, cit., pp. 62-63), concependo la verità non come «oggetto», ma come «processo in cui l’essere ci è affidato» (p. 82). Decisivo è, in questo episodio, l’elemento di frizione tra l’interpretazione gentiliana e quella heideggeriana della storia della metafisica che la polemica di Calogero poneva in evidenza con il prendere posizione contro «la sostanziale risoluzione del platonismo in attualismo» e contro l’eliminazione dell’«antitesi tra la trascendenza antica e la moderna immanenza» che aveva consentito a Grassi – in ciò, secondo Calogero, influenzato proprio da Heidegger – di interpretare «il platonismo come filosofia moderna» (Platone, cit., pp. 346-47).
L’insuccesso (su entrambi i fronti) del tentativo di Grassi sembra provare come Gentile e Heidegger intendessero ignorarsi a vicenda, pur avendo notizia (in una misura difficile da stabilire) delle rispettive ricerche. Questo parrebbe confermato dalle posizioni che Gentile assume nei confronti dell’esistenzialismo italiano, il quale, ancorché non sempre riconducibile a Heidegger, contribuì certamente, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, a diffonderne il pensiero in Italia (cfr. Garin 1955, pp. 515-23; Santucci 1959, 19672; Alunni 1989). Che Gentile rinvenisse, infatti, i limiti più significativi dell’esistenzialismo italiano proprio laddove questo mostrava eredità heideggeriane (ci riferiamo in particolare all’insistenza degli esistenzialisti italiani sul tema della finitudine del soggetto: G. Gentile, L’esistenzialismo in Italia,1943, in Id., Frammenti di filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, pp. 122-23) sembra confermare l’impossibilità di un’interazione strutturale fra attualismo e Seinsphilosophie. L’esclusione di qualsiasi concreta relazione (storica e teoretica) tra le due filosofie viene però revocata in dubbio dal fatto che in entrambe è significativa la presenza di temi e questioni che animano la coscienza filosofica europea segnata dalla crisi di fine Ottocento, presenza che induce a interrogarsi sulla possibilità di cogliere, tra le posizioni di Gentile e di Heidegger, affinità ‘oggettive’, delle quali essi stessi non furono consapevoli.
In effetti, è all’opera nell’attualismo e nella Seinsphilosophie, animati entrambi dall’esigenza della concretezza, il tentativo di smarcarsi dall’astrattezza delle filosofie tradizionali ed egemoni (positivismo e spiritualismo religioso nel caso gentiliano; neokantismo nel caso di Heidegger). Motivi comuni in questa direzione emergono in primo luogo nelle tesi dell’irriducibilità del sentire emotivo e dell’impossibilità per il pensiero di esaurirne la carica energetica superandolo nella signoria di una superiore razionalità: se per Gentile nessun «pensiero potrebbe essere non essendo sentimento» (G. Gentile, Introduzione alla filosofia, 1931, 2a ed. riveduta 1958, d’ora in poi: IF, p. 47), per Heidegger «anche la θεωρία più pura non è del tutto scevra da tonalità emotiva» (Sein und Zeit, 1927; trad. it. Essere e tempo, a cura di F. Volpi, 2006, d’ora in poi: ET, pp. 171 e 173); ma significativa in questo senso è anche la comune protesta contro la riduzione della conoscenza a fatto eminentemente teoretico: così se Heidegger viene sostenendo che «il comportamento “pratico” non è “ateoretico”» (ET, pp. 76-81, 89, 91-95), Gentile riconosce a sua volta che «ogni atto spirituale (compreso quello che è ritenuto solamente teoretico) è pratico» (TgS, p. 37).
Con ciò non solo viene rotta la pretesa di ridurre la conoscenza a mera istanza eidetica, ma, contestualmente, acquisisce una nuova linfa il tema del divenire: se in Gentile il soggetto è «atto, e non sostanza», cioè «autoctisi» (L’atto del pensare come atto puro, 1912, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, 1913, 19543, d’ora in poi: RDH, pp. 194-95), il Dasein heideggeriano è per parte sua (e analogamente) «progetto», «esistenza» che diviene e non «ente semplicemente presente» (ET, pp. 60-64, 179).
Agisce qui una strategica ridefinizione della trascendenza, pensata, nell’attualismo, dal lato del soggetto come esercizio costituente della libertà: in quanto «la vera realtà» dell’atto non è «essere, ma voler essere», essa «è per ciò stesso trascendente», il che non equivale a un «abbandono della dottrina immanentistica», ma solo a una «più esatta interpretazione di questa», che «mantenendo l’immanenza la colloca nella dialettica dello spirito, e quivi addita la trascendenza come interno lievito del suo sviluppo» (IF, p. 265); allo stesso modo, all’esserci heideggeriano appartiene «la trascendenza come libertà di fondamento», sì che l’uomo è «trascendenza esistente che si slancia in avanti verso delle possibilità» (M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, 1929; trad. it. Dell’essenza del fondamento, in Id., Segnavia, cit., pp. 130-31). Proprio qui sorge l’esigenza, tra l’altro, di ridefinire la natura del tempo: come il soggetto gentiliano non è nel tempo, e pone «tutto ciò che […] succede a grado a grado nel tempo» (TgS, p. 122), così l’«esserci» heideggeriano è a sua volta «temporalizzazione originaria della temporalità» (ET, p. 509).
Simili analogie derivano da un fatto strutturale, che riguarda la stessa definizione dell’ontologia della soggettività, la quale è intesa, tanto nell’opzione neoidealistica di Gentile quanto nella filosofia di Heidegger, nella sua compresenza con l’oggetto e il mondo: mai «mero soggetto» senza oggetto, ma «soggetto che si specchia nell’oggetto: relazione di soggetto e oggetto» (IF, p. 48), l’«atto puro» gentiliano è, come l’«essere-nel-mondo» heideggeriano, unione strutturale di Io e mondo, i quali vanno intesi come poli di un «fenomeno unitario» (ET, p. 73). È stato sostenuto a questo proposito che l’attualismo sarebbe – in ciò rivelandosi un’anticipazione della filosofia di Heidegger – un momento di quella «dissoluzione del soggetto moderno» che anima tanta parte della filosofia del tempo (Natoli 1989, p. 36; così anche Severino 1994, p. 25).
Anche se eleva il soggetto, retoricamente, al centro della scena, il trascendentalismo gentiliano perverrebbe infatti alla piena identità di pensiero e mondo, nella quale l’Io, sciogliendosi nell’identità dell’immanenza, finirebbe per svanire, con il che l’attualismo, configurandosi «come una filosofia dell’evento», supererebbe Hegel e «intersec[herebbe] Heidegger» (Natoli, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, 1993, p. 254; così anche Severino 1994, p. 25).
Rileva poi che l’«atto» diviene sì come storia (allo stesso modo che l’Ereignis heideggeriano, che «è la storia»: cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), 1989; trad. it. Contributi alla filosofia (Dall’evento), a cura di F. Volpi, 2007, p. 475), ma proprio il suo essere eterno non si presta a dinamiche cumulative o progressive, svincolandosi così da ogni ipoteca storicistica: «Il soggetto non si svolge realizzando un grado di sé, e quindi movendo alla realizzazione d’un grado ulteriore», poiché «un grado da cui esso si distacchi» cadrebbe «fuori dallo spirito» e sarebbe «una specie di Lucifero, di angelo decaduto. Il quale è un’astrazione» (TgS, pp. 198-99). Con l’assumere consapevolmente gli esiti dello scacco della ragione e industriandosi a fornire una teoria della storia totalmente sgravata dagli obblighi della razionalità e del progresso (dunque, ponendosi in un orizzonte – che fu anche quello di Heidegger – radicalmente esterno ai tentativi ricompositivi e conciliativi della modernità), l’attualismo costituirebbe il momento topico della crisi dell’hegelismo, eccedendo di gran lunga i confini entro i quali la definizione di «neo-idealismo» tende a rinchiuderlo (Natoli, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, 1993, pp. 243-47).
Vi è un punto in cui questa presunta comunanza nel segno della dissoluzione dell’hegelismo pare rivelarsi in maniera netta, ed è la critica (già evocata quando si ripercorrevano gli sforzi di Grassi) della tematizzazione hegeliana del negativo e, più precisamente, della deduzione del divenire operata da Hegel in apertura della Wissenschaft der Logik (1812): in quanto il «puro essere», che è privo di determinazioni, coincide con il «puro nulla», ne segue che la loro verità consiste «nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro», cioè nel «divenire» (G.W.F. Hegel, Wissenschaft der logik; trad. it. Scienza della logica, 1° vol., 2001, pp. 70-71).
Tale deduzione lasciava profondamente insoddisfatto Gentile, il quale operava la sua «riforma della dialettica hegeliana» proprio rilevando che qui, in verità, non si produceva alcun movimento, in quanto Hegel riusciva, al massimo, a dimostrare un’identità. Questa, però, restava tautologica – un mero A = A –, priva di contraddizione, orfana di quella «scintilla» capace di generare un autentico «movimento», per cui Hegel «ha l’intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto» (TgS, pp. 55-56; RDH, p. 22); tutto ciò accadeva, secondo Gentile, in ragione del fatto che essere e non-essere erano ancora intesi, da Hegel, come «categorie»: il divenire era semplicemente visto come il continuo passare del pensiero da una categoria all’altra che però, in quanto tali, «stanno ferme, come lo stadio su cui corrono i ginnasti» (IF, p. 25). Urgeva, pertanto, ricollocare la deduzione del divenire sul piano del pensiero pensante, cioè mostrare che è il «pensiero» – e non le sue categorie – che «è» solo «non essendo», cioè diviene, ché, «se fosse, […] non sarebbe quello che è, un atto» (TgS, p. 56). In questo modo la coappartenenza di essere e non-essere viene, a giudizio di Gentile, trasferita dal piano del logo astratto a quello del logo concreto.
La concretizzazione del problema del nulla sarà un’esigenza centrale anche dell’ontologia di Heidegger. Che essere e nulla coincidano, secondo quanto stabilito da Hegel, è per Heidegger in sostanza corretto, ma anche a suo giudizio questa coincidenza resta nel pensiero hegeliano ancora astratta, perché tutta interna alla logica, al pensiero (Gentile direbbe: al logo astratto), e non è invece vista dal lato dell’effettività dell’essere. Il nulla «appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso» in un senso radicalmente ontologico, prima che logico, ed è da questa originaria consistenza del nulla che deriva, solo secondariamente e in una forma astratta, il problema logico della negazione:
Il “non” non nasce dalla negazione, ma la negazione si fonda sul “non” che scaturisce dalla nientificazione del niente […]. Il niente è l’origine della negazione, e non viceversa (M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, cit., pp. 71-72).
Parrebbe quindi che Gentile e Heidegger siano qui animati dalla stessa esigenza di segnalare (contro Hegel) che il negativo non è soltanto una categoria del pensiero (astratto), ma piuttosto il motore (irriducibile e dirompente) dell’essere stesso. Sennonché proprio qui, dove pure sembra generarsi una strategica convergenza, le cose in realtà si capovolgono. Se è vero, infatti, che Gentile censura l’astrattezza della fondazione hegeliana della Logica, rifiutandone l’impianto formale e pretendendo un ritorno alla pura carica energetica dell’Io penso, è altrettanto vero che tale sua operazione resta tutta interna alla logica, al pensiero, all’Io. Restituita al piano del pensiero pensante, infatti, la deduzione hegeliana conserva tutta la sua validità, e la negazione si mostra proprio come quel ‘non’ – quel superamento costante di un pensiero determinato – che dal punto di vista di Heidegger era invece soltanto la dimensione occasionale e inessenziale del negativo. La consistenza originaria del nulla presente in Heidegger si mostra così, diversamente da quanto aveva ritenuto Grassi, affatto diversa da quella presente in Gentile, il quale, proprio come Hegel, ‘positivizza’ il negativo, funzionalizzandolo alla pienezza indubitabile del pensiero pensante e riducendolo all’autonegazione interna di cui lo spirito ha bisogno «come la fiamma ha bisogno del combustibile» (TgS, p. 237).
Ciò si vede molto bene se si pone capo al problema della morte. Certo è che in Gentile tale problema, anche se apparentemente risolto, torna costantemente, tanto da evocare, quasi, la presenza di uno spettro (cfr. Sasso 1995, pp. 53-164); resta però che l’architettura filosofica dell’attualismo considera la morte un problema filosoficamente irrilevante; questa è infatti derubricata, dalla strategica differenziazione tra Io empirico e Io trascendentale, a questione che riguarda solo il primo:
tutte le aporie si dissipano quando il problema dell’immortalità venga posto ne’ suoi termini. L’immortalità è dello spirito, e lo spirito non è la natura (TgS, p. 140; ma cfr. anche G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1945, pp. 138-71).
Diversa, anzi diametralmente opposta, è la centralità che l’«essere-per-la-morte» possiede nella filosofia di Heidegger (Vitiello 1989, pp. 53-61), nella quale la libertà dell’«esserci» assume un senso soltanto se legata alla finitudine (cfr. ET, pp. 284-310). Così se la trascendenza dell’atto gentiliano è assoluta e autofondata, piena, incondizionata e senza limiti – il mondo oggettivo è davvero subordinato all’infinita libertà del soggetto e le gerarchie tra questo e l’oggetto restano chiare (cfr. Vitiello 1989, pp. 64-65) –, quella dell’«esserci», a cui sono «sottratte» alcune possibilità «precisamente solo per la sua fatticità», è già da sempre finita, limitata, costitutivamente imperfetta (M. Heidegger, Wom Wesen des Grundes, cit., pp. 123-24).
Queste contrapposizioni mostrano la labilità della tesi relativa alla presunta sparizione del soggetto e dell’oggetto, in seno all’attualismo, in un’unica indifferente realtà, dal momento che, benché dialettizzata nella relazione, la priorità del polo soggettivo non è mai messa in questione. Al contrario, l’«esserci» heideggeriano non è originariamente un soggetto che, poi, ponendo il mondo, venga con esso a contatto a partire da una iniziale alterità successivamente mediata («soggetto e oggetto non coincidono con esserci e mondo»: ET, p. 81; cfr. Luporini, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, 1993, p. 285).
L’operazione gentiliana pare essere, insomma, proprio quale Gentile la concepì e definì: una «riforma», appunto, della dialettica, che entro il suo orizzonte – benché riformato – intende restare, tanto che si potrebbe dire che, da un punto di vista attualistico, la prospettiva heideggeriana è ancora insufficiente proprio perché, non conseguendo l’istanza kantiana dell’Io trascendentale, rischia di lasciare l’essere come residuo esterno al pensiero, del quale, peraltro, non coglie l’eternità. Per converso, dal punto di vista di una rigorosa estensione al caso dell’attualismo del canone storico-filosofico di Heidegger, quello di Gentile resta un soggettivismo idealistico, nel quale si preannuncia la riduzione del mondo a risorsa della tecnica. Non appare privo di interesse notare, a tal riguardo, che chi vede nell’attualismo la certificazione della «morte della teologia» e dell’egemonia della nietzscheana «volontà di potenza» e scorge in Gentile, pertanto, un «notaio del nichilismo», aggiunge subito che proprio per questo «la filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di Heidegger» (proponendo questa interpretazione di Gentile per mezzo di Heidegger, Del Noce 1978, pp. 12-13, 121, 123; per altro verso Augusto Del Noce polemizzerà, in Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, 1990, pp. 198, 331, con quanti propongono una comunanza tra le due filosofie).
Ma torniamo a Roma. Quando, alla presenza di Gentile, tiene la sua prolusione sull’essenza della poesia, Heidegger espone l’idea che essa sia «istituzione in parola dell’essere», cioè produzione di senso attraverso la nominazione delle cose: «quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è» (Hölderlin und das Wesen der Dichtung, 1936; trad. it. Hölderlin e l’essenza della poesia, in Id., La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, 1988, p. 50). In un saggio coevo, poi, Heidegger definisce l’opera d’arte, proprio in ragione del suo carattere costituente, «il mettersi-in-opera della verità», il suo «accadimento» (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1950; trad. it. L’origine dell’opera d’arte, d’ora in poi: OdA, in Id., Holzwege: sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, 2002, pp. 29 e 31). Connettendo arte e verità, Heidegger intende rimuovere, tra l’altro, lo schema classico secondo il quale l’estetica sarebbe, nella sua separatezza dalla filosofia, la scienza che si occupa semplicemente del bello, in quanto questo non è da pensarsi nella sua separatezza dal vero, appartenendo piuttosto all’«eventuarsi della verità» (p. 83).
Non è allora improprio rintracciare, come pure è stato fatto (M. Pinottini, L’immagine svelata. L’arte in Gentile e in Heidegger, 1992; Matassi, in Giovanni Gentile, 2003, pp. 264-71), talune affinità tra il discorso di Heidegger e la filosofia dell’arte di Gentile. Questi, infatti, nel rilevare che l’arte è anzitutto «sentimento» (G. Gentile, La filosofia dell’arte, 2a ed. riveduta, 1950, d’ora in poi: FdA, pp. 144, 171), deve – in ragione della connessione prima evidenziata tra sentimento e pensiero – sottolineare l’impossibilità di separare definitivamente l’arte dal pensiero, sussistendo tra essi soltanto una distinzione «trasversale» e non «perpendicolare» (p. 115).
All’idealistica separazione tra arte e filosofia Gentile oppone così l’idea di una distinzione solo formale, che rigetta l’idea che «la forma estetica non è essenziale ed insuperabile» e che alla sua originaria e imperfetta attività, nella quale l’assoluto è ancora soltanto intuito, faccia seguito, superandola, il dispiegarsi della concettualizzazione (FdA, pp. 316-17). Ne consegue che quella distinzione che vorrebbe la persistenza di un’opposizione tra l’attività artistica, volta «alla rappresentazione del bello», e quella filosofica, volta «alla rappresentazione del vero», è del tutto «infondata», in quanto «il vero è bello» e «il bello è vero» (FdA, p. 191).
Queste prossimità, però, tendono a ridimensionarsi significativamente se non si oblitera il fatto che in Gentile persiste ancora un elemento classificatorio, e finiscono addirittura per svanire se si pensa che all’origine dell’opera d’arte è, per Gentile, l’attività formatrice del soggetto (FdA, pp. 112-14), idea che Heidegger non può che rifiutare, concependo egli tale origine in un disvelamento dell’essere nel quale l’uomo non agisce come causa, ma solo come necessaria mediazione e ‘salvaguardia’ (OdA, pp. 41-42, 65-68). Così laddove l’idea gentiliana trova la sua sublimazione nella teoria del «genio», il quale è «esso stesso la soggettività del soggetto», colui «che inizia e crea e dà il senso del nuovo e del giovanile» (FdA, p. 232), Heidegger, sospettoso nei confronti della titanica elevazione delle facoltà demiurgiche dell’umano («il soggettivismo odierno fraintende puntualmente la creatività, in quanto subito la intende nel senso dell’impresa geniale di un soggetto padrone di sé», OdA, p. 77), fa invece appello alle forze originarie che il poeta, nominandole, ‘si limita’ a far venire alla presenza (cfr. M. Heidegger, «… dichterisch wohnet der Mensch…», 1945; trad. it. «… Poeticamente abita l’uomo…», in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, 1976, pp. 125-38).
L’operatività del soggetto gentiliano nella creazione dell’opera si svolge, poi, sulla base di un sapere tecnico che «è un antecedente dell’arte», in quanto l’artista «già padrone di una certa tecnica se ne può servire a raffigurare le sue immagini, e così oggettivare se stesso» (FdA, p. 205); la tecnica consente allora di formare artisticamente la materia secondo la molteplicità delle arti, le quali sono, appunto, anzitutto differenti tecniche: «La molteplicità delle arti è la stessa molteplicità delle tecniche» (p. 209).
Se è vero che anche per Heidegger l’arte, proprio in quanto conosce la mediazione dell’uomo, è risultato della «τέχνη» (Die Frage nach der Technik, 1954; trad. it. La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 9), resta ineludibile il fatto che essa non si è ancora trasformata in tecnica: quando, infatti, sull’essere domina la «pervasività puramente calcolatrice» della soggettività, l’opera d’arte «fallisce» e alla tèchne subentra «il produrre nella modalità della fabbricazione» (OdA, pp. 42, 56, 63), cioè la «tecnica moderna» che «pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata» (Die Frage nach der Technik, cit., p. 11).
Che nell’estetica idealistica di Gentile questo problema non sia scorto, che, cioè, non venga concettualizzata una differenza tra tèchne e tecnica e che venga istituito un connubio tra arte e tecnica sulla base della mera produzione, tutto ciò non è casuale, poiché l’estetica gentiliana resta, da un punto di vista rigorosamente heideggeriano, sotto il dominio della strumentalità. Come non vedere in effetti nella critica heideggeriana a quell’estetica che «sta sotto il dominio dell’interpretazione tradizionale di tutto l’essente», in quanto ancora pensa l’opera d’arte nei termini di una «distinzione di materia e forma», un vestito che benissimo si attaglia a quei passaggi della filosofia dell’arte gentiliana nei quali, appunto, l’origine dell’opera è ‘fraintesa’ come prodotto delle capacità formatrici del soggetto? (OdA, pp. 17-18, 32).
Senza posa si svolge dunque l’attacco di Heidegger nei confronti di quel soggettivismo che invece è, dal punto di vista di Gentile, la vera conquista del moderno. E siamo così al punto decisivo: si consuma proprio in queste pieghe storico-filosofiche, in ultima analisi, la vera frizione tra Gentile e Heidegger.
Entrambi eseguono la diagnosi – originata da analisi prospettiche differenti – del moderno come dominio del soggetto. Gentile matura quest’idea sulla scorta dell’ipotesi di un’irriducibile opposizione tra l’inaugurale spirito del cristianesimo – contraddistinto dalla posizione della verità come processo («col Cristianesimo sorge un nuovo concetto della vita, che non è più natura, ma spirito, per l’avvento del quale quella natura che c’è, dev’esser negata», FdA, p. 146) e del quale «la filosofia moderna proseguì l’opera» (RDH, p. 114) – e la filosofia greca, la quale, proprio perché concepisce il vero come oggetto, è immersa in un cheto immobilismo incapace di concepire il divenire e, dunque, «la storia, il progresso: cioè una realtà che si realizzi con un processo» (TgS, p. 49). Heidegger, che pure condivide l’idea che il moderno sia soggettivismo dispiegato (cfr., per es., Die Zeit des Weltbildes, 1950; trad. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri erranti, cit., pp. 91-136), ne complica però la genealogia, dapprima individuando già nella riduzione platonica della verità a εἶδος quel «mutamento dell’essenza della verità» che è all’origine della vicenda moderna (Platons Lehre von der Wahrheit, 1942; trad. it. La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, cit., p. 173) e poi attribuendo questa riduzione della verità a rappresentazione non già a un presunto «mutamento dalla svelatezza alla correttezza», ma a un processo che si verifica «sin da subito» in seno alla stessa filosofia (Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, 1969; trad. it. La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e essere, a cura di R. Badocco, 2007, p. 91).
Soprattutto, però, Gentile colloca orgogliosamente l’attualismo al vertice di questo movimento, cioè nel solco del cristianesimo (concepito come immanentismo) e della modernità, nel cui soggettivismo scorge un effettivo progresso rispetto all’oggettivismo antico («L’idealismo moderno […] è antintellettualistico, e in questo senso profondamente cristiano», avendo il cristianesimo scoperto «la realtà che non è, ma crea se stessa, ed è quale si crea: una realtà perciò che non si tratta già di conoscere, com’era il mondo del filosofo greco, che si poneva a contemplarlo, tirandosene quasi in disparte», TgS, p. 258). Heidegger al contrario concepisce il suo tentativo filosofico precisamente come un passo indietro, uno «Schritt zurück» (Identität und Differenz, 1957; trad. it. Identità e differenza, a cura di G. Gurisatti, 2009, pp. 63 e segg.), e come la denuncia degli esiti cui la modernità filosofica conduce: «il compito del pensiero», che per Gentile è la prosecuzione della strada intrapresa dalla filosofia moderna, è al contrario per Heidegger «l’abbandono del pensiero che si è avuto finora per dedicarsi alla determinazione della cosa del pensiero», cioè al ripensamento dell’essere come «ἀλήθεια», che il pensiero greco delle origini nominò senza però poi essere in grado di «pensarla espressamente come tale» (La fine della filosofia, cit., pp. 94, 89).
Si tratta di un’alterità architettonica, strutturale (vi ha insistito de Giovanni, in Croce e Gentile, 1993, pp. 226-27, 233, 241-42; de Giovanni 1997, p. 53), che resta nella sua vivida plasticità anche se si usa la prudenza di non ridurla a una scolastica opposizione tra presunte filosofie della storia. Il pensiero di Heidegger non è riducibile, infatti, a mera nostalgia antimoderna, dato che ai suoi occhi «la fuga nella tradizione […] non è di per sé capace di nulla, se non di chiudere gli occhi e accecarsi davanti a quel colpo d’occhio che è l’attimo storico», sì che la critica del moderno è pensata sempre in direzione del «superamento di un destino dell’essere», più che di un ritorno (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., pp. 115-16; Id., Die Kehre, 1962; trad. it. La svolta, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di F. Volpi, 2002, p. 99). Parimenti la filosofia gentiliana dell’atto è indisponibile, come si è visto, a lasciarsi ridurre a un mero storicismo di ritorno, il quale, nella pretesa di cogliere la consistenza di un progresso oggettivo, non sarebbe che un «inconsapevole naturalismo o materialismo» (IF, p. 263).
Resta che dalle due diverse attitudini rispetto al tema del soggetto, che chiariscono definitivamente la diversa tensione con la quale le due filosofie si atteggiano rispetto all’hegelismo e alla tradizione filosofica moderna (senza per ciò configurarsi come filosofie della storia), emerge una differente collocazione a fronte del comune riconoscimento del moderno quale epoca del soggetto: una diversa opzione strategica nella quale si consuma l’essenziale dissonanza tra attualismo e Seinsphilosophie.
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